12 ago 2019

ROCK THE CASTLE - REPORT DAY THREE (07/07/2019)


Come quando in una giornata di cielo terso passa una nuvola ad oscurare il cielo, così al terzo giorno di festival (vedi la prima e la seconda giornata) il pubblico è diventato improvvisamente cupo, nero e al contempo il tasso alcolico si è alzato vertiginosamente.

Domenica 7 luglio si respira aria birrosa fin dalle prime ore del pomeriggio, tanto che quando salgono gli Overkill sul palco, noto molti volti paonazzi, alticci e sudati.


Raggiunto oggi da alcuni amici mi trovo a condividere le mie impressioni dopo un sabato di rock solitario, perciò tutto diventa meno analitico e più conviviale. In compagnia si colgono sfumature e sono anche responsabile di aver coinvolto il più giovane spettatore del festival che a tredici anni vedrà insieme a me l’addio di Tom Araya. Proprio a lui lascerò il testimone per scrivere in futuro su questo blog, per fissare negli occhi di chi non potrà mai saperlo che cosa significava nel 2019 vedere gli Slayer dal vivo per l’ultima volta.

Purtroppo però gli Overkill mi annoiano e innervosiscono con il solito setlist old style senza idee e senza neanche spaccare il culo come molti sostengono, ma tutto è propedeutico per aspettare Phil Anselmo, o meglio, vedere i resti di un avanzo di galera.

La sensazione che ho avuto è proprio quella di un ex galeotto sul palco e, dopo aver visto per lavoro il mondo carcerario da vicino, ho percepito in Phil tutte le caratteristiche del detenuto. Anselmo è il ragazzo cresciuto con un’infanzia difficile a New Orleans, per strada ha visto e vissuto esperienze di malavita, ubriachi, droghe e mi risulta impossibile non ricordare oggi quando perse i sensi per un’overdose nel 1996 durante un tour negli Stati Uniti.

Dopo lo choc della morte di Dimebag Darrell (ucciso da uno squilibrato fan nel 2004) Phil si dichiarò devastato dalla scomparsa del suo ex compagno di gruppo e si sentì in parte responsabile del suo assassinio, e queste ferite si percepiscono ancora oggi dopo quindici anni. È un ignorante che lotta con i suoi limiti e con il suo passato, sempre provato e sempre ferito, ecco chi è oggi l'Anselmo che vedo sul palco.

Le canzoni sono quelle dei Pantera, siamo felici di cantarle con lui, tossisce non si muove, ma non trasmette l’idea di essere finito. È statico, ma sornione e quando ci parla rimpiango solo quello che sarebbe potuto succedere con i Pantera. Sarebbero diventati un gruppo brutale, slabbrato, sporco e meno quadrato con voce più cavernicola, anticipando il fenomeno sludge e approfondendolo. Non è stato e non sarà mai così, perciò mi auguro di non leggere a breve su Google la notizia di Anselmo che finisce in carcere per aver preso a cazzotti, ubriaco, un poliziotto (cosa di cui comunque ma non mi stupirei).

Il vuoto lasciato da Phil, è anche lasciato da molti spettatori che non conoscono i Gojira e che preferiscono cenare o bere in attesa degli Slayer. Quindi posso avanzare in piena libertà e analizzare il grande show di questi ragazzi francesi. La sensazione di aver di fronte ottimi musicisti si accompagna finalmente a delle innovazioni. Avevo percepito qualche idea solo durante il live dei Tesseract di venerdì, perciò ne resto piacevolmente sorpreso.

I Gojira hanno in mano il futuro del metal estremo, superano l’influenza dei Tool con più coerenza e sorpassano i Meshuggah combattendo meglio la noia degli svedesi. Sono compatti, intelligenti e con momenti progressive più godibili degli Opeth (prima era), ma soprattutto trasmettono un’idea progettuale della loro musica. Dal vivo mi hanno dato una bella impressione e quando escono eseguendo “The Gift of Guilt” ho la percezione che ne sentiremo ancora parlare e che saranno sempre più alfieri del futuro metallico.

Intanto le persone si accalcano, i crocifissi proiettati iniziano a rovesciarsi, il logo Slayer compare ad intermittenza sul sipario che copre il palco. Si inizia con “Repentless” e il pubblico acclama il ritorno di Tom Araya in Italia (senza barbona stavolta), ma con carisma immutato.

Ho avuto la fortuna di vederli più volte, sapevo cosa aspettarmi, conoscevo la scaletta, prevedevo anche il getto del fuoco sul palco, ma che fretta di eseguire la setlist che avevano! Fretta e mestiere, come quando Fantozzi ritarda la sveglia minuto dopo minuto per dormire un pochino di più, così gli Slayer hanno affinato il loro tour di addio ritagliando attimi e accelerando canzoni per andar via prima. Tutto perfetto intendiamoci, il solito muro di suono, ma come timbrare un cartellino al ventesimo anno di lavoro in banca: togliamoci anche questa data ragazzi e facciamolo con professionalità.

Il momento più commovente infatti non è stato musicale, ma le parole di addio di Araya. Tom si è preso il tempo a fine concerto per andare a salutare tutti gli angoli del pubblico, come volesse indicarci uno ad uno, come sentisse il dovere di ringraziarci singolarmente. Si è soffermato senza aprire bocca per lunghi minuti, a volte indicando, altre sorridendo compiaciuto, mentre tutti noi che siamo il suo mondo lo salutavamo applaudendo.

Dopo questa passeggiata di commiato mi sono sentito gli occhi lucidi, a quel punto ho capito ancora una volta il ruolo nella mia crescita degli Slayer. Ascoltandoli mi sono caricato per le interrogazioni a scuola, ho viaggiato in Europa, ho saltato nei locali per tutta la notte, ho capito che cosa significasse odiare tutti in modo equivalente, ho apprezzato il significato della parola: coerenza. Sono maturato con la loro musica che è sempre stata con me, non li ho abbandonati e loro non mi hanno tradito, così in quella domenica Tom Araya decide di salutare una parte di me.

Si avvicina infine al microfono, sospira e dice in italiano: “Grazie, mi mancherete... ciao.” ed esce di scena.

Brividi.

Grazie, mi mancherete... ciao.