I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO” METAL
9° CLASSIFICATO: “CATCH THIRTYTHREE”
Dal
caos all’ordine, dalle trentadue schegge sonore di “Sadness Will Prevail” dei
Today is the Day, all’unica rigorosa traccia che dà il titolo a “Catch
Thirtythree”, picco sperimentale degli svedesi Meshuggah: così
continua il nostro viaggio attraverso i più significativi album del “NuovoMetal”, che in verità nemmeno noi sappiamo cosa sia esattamente.
Punto
primo: i Meshuggah, alla fine della fiera, sono l’Ultima delle band thrash metal, una
razza in estinzione. Come si è accennato (e vedremo meglio in seguito) il metal
del terzo millennio sarà caratterizzato da un’espansione del suono in direzione
psycho-emo-spirituale (altra nostra nefandezza lessicale) che è agli
antipodi di un genere quale è il thrash, che è un genere pragmatico e
calcolatore (laddove ovviamente vi sia un approccio tecnico), che ha intenti guerrafondai
e che è fatto di riff chirurgici e cambi di tempo che generalmente hanno
la sola funzione di spaccare il collo. Già dagli anni novanta, il thrash ha
iniziato a boccheggiare, principalmente per colpa dei suoi padri fondatori, Metallica
e Megadeth in primis, che decisero di “rinnegare la causa” e virare verso
nuovi lidi (via, diciamolo: hanno iniziato a fare schifo al cazzo!, finendo per
sputtanare il genere intero). Agli albori degli anni novanta, una bella botta
di vita, il thrash, la ricevette dai Pantera, che rivitalizzarono il
genere all’insegna di un sound fresco e dal groove pompante, che
aprirà le porte al nu-metal (che, paradossalmente, negli anni a venire diverrà
un’ulteriore minaccia tesa a seppellire il thrash vecchia scuola). A
tenerlo in vita ci provarono i Nevermore, con il loro taglio epic/power
metal, che ben di sposava con gli umori del momento (siamo già nella seconda metà
degli anni novanta), ma si trattava di scosse elettriche volte a destare un corpo
in fin di vita riverso su un tavolo operatorio. Fu poi la volta delle tristi reunion,
con la riapparizione magica ed inaspettata di vecchie cariatidi di cui nessuno
sentiva la mancanza come Destruction, Exodus e Death Angel:
ma a parte l’esaltazione di un attimo (principalmente da parte di qualche inguaribile
nostalgico), il filone si dimostrò pressoché privo di linfa vitale, dimostrando
una vivacità ai limiti del coma irreversibile.
Senza
ambizioni di rilancio del genere, in sottofondo iniziavano a macinare consensi i
Meshuggah, giovani talentuosi dalla “ridente” cittadina di Umea, Svezia.
Acquisirono una certa visibilità grazie al loro secondo album “Destroy Erase
Improve” (del 1995), che tuttavia era ancora riconducibile al calderone post-panteriano:
i Meshuggah, all’epoca, non erano altro che la versione più tecnica, estrema ed
intelligente dei quattro texani. Fu con i due album successivi “Chaosphere”
(1998) e “Nothing” (2002), che i Nostri si guadagnarono la loro fetta
nella Storia del Metal Moderno, riuscendo da un lato ad estremizzare il loro sound (ai limiti del death), dall'altro a conferirirgli una complessità che lo ha avvicinato a lidi progressivi. Le loro partiture si facevano sempre più
intricate, labirintiche, imprevedibili: i musicisti riuscivano a governare tale
complessità grazie ad una tecnica esecutiva decisamente sopra la media ed un
rigore concettuale che li rendeva diversi rispetto a tutti gli altri. Ad oggi i
Meshuggah sono divenuti, in campo estremo, i capofila di un genere (il djent,
fra l’altro considerato un sotto-genere del progressive metal) di cui sono
anche gli unici rappresentanti credibili in campo estremo. Un genere su misura
per dei geni della musica pesante che inventano qualcosa di diverso (che quindi
merita una definizione), ma che nessun altro è capace di ripetere. Sebbene non
sia ancora emerso chi sia in grado di raccogliere il testimone, i Meshuggah diverranno un’influenza fondamentale per il
metal del terzo millennio, incuneandosi a piccole dosi nel DNA delle nuove leve.
Ma solo a piccole dosi, perché per chiunque, riprodurre quello che loro fanno
nell’arco di un album intero, non è solo impossibile, ma anche inutile.
Se
il Meshuggah-sound viene modellato nel corso dei tre album sopra
elencati, in “Catch Thirtythree” (del 2005) esso è già qualcosa
di maturo: un monolito autoreferenziale, un’operazione chirurgica in cui
l’edificio meshugghiano viene smontato e rimontato, mattone per mattone,
in nuove astruse combinazioni. In altre parole, in questa release (che
si pone come un esperimento anomalo, un episodio da considerare a parte
rispetto al resto della discografia) ci consegna dei Meshuggah al cubo, ciechi
verso l’esterno e totalmente ripiegati dentro se stessi, ancora più convinti
nel perseguire i loro autistici intenti. La lucidità creativa dei Nostri
travalica così definitivamente l’ultimo ostacolo, il formato canzone, per
abbracciare l’idea di una suite unica di quasi cinquanta minuti (idea
già accarezzata ed abbozzata l’anno precedente con l’EP “I”, che
si componeva di un solo brano di ventuno minuti).
Il
metal, in verità, ha sempre covato questa “strana” presunzione di voler rilasciare prima o poi un “album-brano”: ambizione che, a ben vedere,
non avevano nemmeno i mostri sacri del rock progressivo, che, quanto a spocchia, di certo non difettavano (l'unico esempio, infatti, che mi viene in mente, nella vasta compagine delle band progressive degli anni settanta, è "A Passion Play" dei Jethro Tull, che fra l'altro non erano nemmeno un gruppo progressivo tout court). “A Pleasant Shade of Gray” dei Fates
Warning (per quanto riguarda il prog-metal) e “Crimson” ("canzone" death metal di quaranta minuti!) degli Edge of
Sanity (per quanto riguarda il fronte estremo) sono i casi più noti. I Meshuggah, gruppo straordinario per eccellenza, vorranno con “Cacht Thirtythree”
intraprendere la medesima strada, ma ovviamente lo faranno a modo loro.
Gli svedesi, tanto per cominciare (e contrariamente ai loro colleghi), partono da un presupposto concettuale e non dalla volontà
di raccontare una storia. Essi edificano, come è loro abitudine, un labirinto
di suoni che non ha altro che il compito di avvolgere con le sue spire
l’incauto ascoltatore, stritolandolo e soffocandolo (carne e mente) in un
circolo vizioso. L’album, del resto, s’ispira al “paradosso del comma 22”
che ritroviamo nel romanzo di Josph Heller “Catch 22” (traducibile in
“Tranello 22”, espressione che in inglese è comunemente utilizzata come
sinonimo di “circolo vizioso”). Per la cronaca, questo paradosso descrive un
contesto in cui vi è un’apparente possibilità di scelta, quando invece, per motivi logici occulti, non
è possibile alcuna scelta: vi è solo un’unica possibilità. Dire che l’album dei
Meshuggah non è altro che la musicazione di questo concetto, sicuramente
rende l’idea dei suoi contenuti.
Ascoltatevi
per esempio le prime sei tracce (ok, per rendere più agile la fruizione
dell’album, l’opera è stata suddivisa in tredici parti, ognuna con un suo
titolo, ma credetemi, è solo una formalità). Ascoltare la prima parte
dell’album significa: veder cambiare il numero della traccia sul display
del lettore-cd senza un motivo apparente. Vi ritroverete alla terza traccia
senza nemmeno esservene accorti. Dalla quarta alla sesta si percepisce un
cambiamento, i tempi rallentano, ma la tiritera è la stessa: riff ossessivi
ripetuti con micidiale maniacalità, chitarre di otto corde accordate a semitoni
bassi che si sovrappongono a sinistri pattern di chitarra solista, lo screaming
stordente di Jens Kidman. E
soprattutto il drumming sincopato di Tomas Haake, virtuoso delle
pelli, ma che, in questa circostanza (badate bene), decide di affidarsi al
software Drumkit from Hell (che lui stesso ha contribuito a sviluppare).
I suoni però sono reali, di una batteria vera intendo, anche perché il
programma utilizza i suoni campionati della batteria che Haake stesso ha generato
suonando il suo strumento.
Ricapitoliamo
un attimo: un brano lungo quasi cinquanta minuti che si presta alle nostre
orecchie come un susseguirsi di riff che si sviluppano in maniera tentacolare
al di fuori del formato canzone. Certo, questo “Nuovo Metal” non si capisce
ancora cosa sia con precisione, ma di certo la distanza fra la proposta dei
Meshuggah e il vecchio metal è abissale. Vien da sorridere al pensiero dei
“canoni classici” dettati da un “Master of Puppets”, l’ideal-tipo
dell’album thrash degli anni ottanta: scaletta asciutta di otto brani,
l’immancabile opener d’impatto con immancabile introduzione melodica (in
quel caso: un arpeggio), la title-track rigorosamente posta in seconda
posizione (spesso un brano lungo che introduce un approccio più complesso), la
ballata a metà dell’album per permettere di riprendere il fiato e la
strumentale lunga e tortuosa posta quasi alla fine del tutto. Ma non solo: anche
la classica line-up del thrash a quattro, dove è chiarissimo chi-fa-cosa,
viene stravolta dalla formazione melliflua dei Meshuggah, che per
l’occasione (non si capisce perché) da cinque si fanno in quattro; chitarre e
bassi vengono spartiti indiscriminatamente fra Fredrik Thordendal, Marten
Hangstrom e lo stesso cantante Kidman (che non impugnava la chitarra dal
1992 e che per la prima volta prende in mano un basso!). Dulcis in fundo: un
batterista dottissimo (che fra le altre cose è maestro di jazz), che non solo è
il paroliere ufficiale della band (grande mente, il Tomas), ma che decide di
farsi sostituire da una drum-machine. E perché poi? Pare per mancanza di
tempo, e per l’idea di non voler spendere troppi soldi nell’affitto dello
studio di registrazione. Roba da pazzi.
Fatto
sta che all’altezza della sesta traccia esci di cervello, stai per impazzire,
quando inaspettatamente, alla settima sezione (“Mind’s Mirror”) tutto si
ferma, e dal caos, nel quasi-silenzio di cupi rintocchi di chitarra
effettata, si materializza una voce narrante deformata dal vocoder
(altro colpo di genio del batterista Haake). Ed è in quel momento che t’inginocchi
piangendo di felicità, tanto che abbracci lo stereo nell’impeto di voler baciare
quella voce vocoderizzata che è balsamo dolcissimo per le tue orecchie
doloranti. Si apre dunque una fase sperimentale dell’album: seguirà una
considerevole pausa, a base di ipnotici arpeggi, che mai si sono protratti così
a lungo in un album dei Meshuggah (ma non pensate che siano roba da scampagnata:
nella loro ostentata reiterazione, alla fine non ne potrete più nemmeno di
quelli!). Ma c’è tensione, c’è attesa, ci sono speranze: è la volta di altri
due pezzi significativi, “In Death – is Life” e “In Death – is Death”,
rispettivamente due e tredici minuti (!!!) di durata, a riconferma di come sia
insensata la suddivisione in tracce in questo contesto. Fra nuove escursioni
acustiche (di una staticità disarmante) ed implacabili riff thrashaggianti,
diretti verso una complessità crescente, si giunge ad un finale che si tinge
addirittura di contorni metafisici. La porzione conclusiva dell’album è infatti
la rivisitazione dei temi sviscerati in principio, ma in un’ottica nuova,
arricchita di impercettibili variazioni, o ritmiche, o melodiche, che,
diciamolo, contestualmente allo spappolamento del cervello (o forse proprio in
virtù di ciò) procurano all’ascoltatore sublimi visioni che pensavamo possibili
solo grazie all’assunzione di droghe molto buone. E’ il necessario ed
inevitabile punto di arrivo rappresentato dalla conclusiva, catartica,
liberatoria “Sum”, esito inevitabile e vetta emotiva dell’album che ci
ripaga delle proverbiali sette camicie sudate fino a quel momento. Beninteso: senza
forzare il ferreo rigore matematico dell’opera nel suo complesso.
Abbiamo
sperato fino in fondo nell’album eclettico dalle mille soluzioni, ma solo alla
fine dell’ascolto capiremo (come del resto era insito nel significato
soggiacente al titolo) che di soluzioni ve n’era solo una e che quell’esito era
chiaro fin dall’inizio: non altro che spigoloso, coerente, cervellotico thrash
metal con i controcazzi. E con un cuoricino progressivo...