Succede una volta all’anno come il solstizio, come le vere gioie sportive, come un sorriso a Genova, ma almeno una volta all’anno accade che debba presenziare ad un festival metal estivo per estrapolare dal mio ego la parte live e capire. Capire se c’è qualcosa che è cambiato da quando andavo al Gods of Metal vent’anni fa, capire se è mutato l’approccio, capire se il pubblico si è evoluto o se i contenuti hanno preso una strada che dalla mia torre d’avorio non riesco a percepire dal solo ascolto su disco.
Questa volta “Rock the Castle” al Castello Scaligero di Villafranca di Verona offriva un interessante connubio tra passato e futuro nell’arco di tre giorni. Erano presenti alcune realtà storiche ferite, emaciate e azzoppate dagli anni tanto da non ricordare neanche i tempi che furono. Sotto certi aspetti potremmo definirlo il festival degli orfani, dove il tema della Mancanza era ancora più forte di quello della presenza. Erano più le assenze evocate che coloro che imbracciavano gli strumenti: un avanzo di galera come Philip Anselmo senza i Pantera, il panzerotto di Slash con cilindro senza i Guns ‘n’ Roses, Petrucci ancora senza Portnoy, Sebastian Bach senza gli Skid Row, Dee Snider senza i Twisted Sister, Tom Araya senza Jeff, Dave, ma soprattutto all’ultimo passo prima di staccare definitivamente la spina dagli Slayer.
In seconda battuta però c’erano a mio modo di vedere dei segnali di futuro che volevo valutare personalmente dal vivo. Gli Haken, i Tesseract e i Gojira sono tre interessanti realtà che hanno dato segnali alla palude metallara. Tre gruppi che in questo decennio hanno sfornato qualità e, scusate la parola, innovazione.
Arrivo così forte della mia voglia di festival di fronte alla meravigliosa location del Castello Scaligero, il luogo di Romeo e Giulietta per capirci e resto piacevolmente sorpreso. Tre giorni all’insegna del rispetto in una cornice notevole, con code moderate, volumi accettabili, cibo di buona qualità, spazi di fuga, ma anche rispetto del pianeta con il bicchiere riciclabile per le bevande, il caricabatterie per i telefoni e aree relax. Lontano anni luce dalle guerriglie vissute anni fa sempre per Araya & soci o dalla cacofonia del Palavobis, insomma mi sento agevolato all’ascolto.
Venerdì 5 luglio, birra in mano e braccia conserte, mi metto a studiare, uno dopo l’altro, Haken e Tesseract, individuando in loro un possibile passaggio di testimone nel mondo progressive, sebbene le prestazioni siano altalenanti.
Gli Haken hanno sicuramente un grande cantante e pur garantendo alta qualità esecutiva, la loro esibizione scorre senza grosse emozioni. Ottimi musicisti ma un po’ freddi per il cuore di un onesto quarantenne come me che era pronto per incensarli: coloro che hanno meritato la palma come disco dell’anno 2018 sul nostro blog sono un gruppo di brillanti professionisti, non so però quanto pronti a far il salto verso una fetta di pubblico più ampia.
Al contrario i Tesseract hanno fatto percepire di avere uno spessore maggiore. Partendo con problemi tecnici si sono lanciati in una prestazione energica e spocchiosa al contempo. Un cantante come Daniel Tompkins ha doti vocali, ma anche una presenza scenica improbabile a metà tra un palestrato con derive new age e un patito da discoteca. Si unisce ad una carica djent che miscela bene i momenti progressive ad altri più introspettivi: una piacevole sorpresa che mi fa battere le mani proprio quando lo stesso Tompkins annuncia che ci sta per lasciare in pasto agli almighty Dream Theater.
Mentre svelano la solita enorme batteria del Mangini, penso a due cose: a dove sono finiti i dischi che avevo di quel gruppo che si chiamava The Almighty e quanto mi manca oggi Portnoy!
Immerso ancora in questi pensieri, ecco partire “Untethered Angel” come da copione già scritto sulla base della promozione del prescindibile “The Distance Over Time”. Sono un fan, perciò non faccio testo e non posso essere un riferimento nel giudizio di questo concerto perché ho avuto la fortuna di vederli più volte dal vivo, ma mi sento di dire che una scaletta così povera non si vedeva da decenni. Quando le canzoni secondarie diventano classici, quando il bis è “As I Am”, quando non c’è una canzone da “Images and Words” significa che si è travalicata la misura.
Non per me s’intende, anzi felice di vedere canzoni ben interpretate come “Barstool Warrior” e “In the Presence of the Enemies pt. I” che di questo passo potrebbe essere più di un anthem, però qualcuno resta deluso e lo capisco. Un povero ragazzo di ventitré anni che ha fatto chilometri senza neanche “Pull me Under”... mi dispiace per lui e fisso Petrucci proprio nella parte finale dell'esibizione. Un coro a metà tra protesta e indignazione si è alzato mentre Mangini lanciava le bacchette per salutare tutti: “One more song! One more song!” e, nell’imbarazzo generale, ho notato Petrucci far capire a tutti gli altri del gruppo di voler andar via. Attenzione: sarebbero potuti restare ancora dieci minuti secondo le tempistiche del festival, ma Petrucci non ha voluto e ha scelto a mio modo di andar a letto.
Questo per dirvi che non ne aveva voglia e che ha concepito questo tour come una parentesi promozionale dopo le fatiche di "The Astonishing" e la riproposizione per intero di “Scenes from a Memory” in occasione del ventennale dall’uscita. Cosa gli costava una canzone in più? Non per me ripeto, ma per quella gente che avrebbe esultato come mai. Perché John?
Eppure Labrie aveva ancora qualche tonalità di voce, eppure gli altri erano disposti, Rudess perfino imbarazzato ti voleva invitare, ma tu hai deciso di andare, un giorno ti chiederò il perché.
Vado via con questo dubbio, ma sicuro che il prossimo live durerà tre ore…
(vedi la seconda e la terza giornata)