Uno degli aspetti positivi
dell’invecchiamento, a livello di fruizione musicale, è quello di non avere più bisogno di numerosi passaggi nel lettore,
come accadeva in gioventù nei primi anni degli ascolti metallici, per inquadrare un
album e farsene un parere chiaro, ben sedimentato.
L’orecchio è più smaliziato, le
categorie mentali, utili alla catalogazione, sono rodate, il cervello capace di
assorbire più velocemente e con meno impegno la proposta sonora in arrivo.
Il lato negativo di tutto questo
è la minor predisposizione alla sorpresa, la maggiore difficoltà ad
emozionarsi, l’anelito, più o meno consapevole, alla ricerca di un
qualcosa di “nuovo” ma pur sempre qualitativo, capace di sorprenderci.
Tutto questo per dire che, dopo
un quarto di secolo passato quasi giornalmente ad ascoltare Heavy Metal in tutte le sue forme e
sottogeneri, sono arrivato a una conclusione: non ho più voglia di ascoltare albumicchi,
per usare un neologismo di ispirazione camilleriana. Cosa intendiamo per
“albumicchi”? Quei dischi carini, ben suonati, ben prodotti, composti da canzoni
più che sufficienti…insomma, gli album cui daremmo un voto oscillante tra il “6” e il “7”.
Se poi, quel tipo di album li pubblica
un monicker sacro del Metal mondiale, beh…l’insofferenza, scusate, ma è maggiore rispetto a una band giovane e/o di secondo piano.
L’esempio più recente? I Queensrÿche.
Oddio, i Queensrÿche…dei Queensrÿche come li abbiamo conosciuti e amati,
sull’ultimo “The Verdict” (2019), non è rimasto nessuno dei tre
pilastri storici della band: né DeGarmo, né Tate. E neppure Rockenfield. Jackson e
Wilton mantegono il marchio, coadiuvati egregiamente da Todd La Torre che, per
l’occasione, si mette anche dietro al drum-kit.
Ora, per carità, nessuna
schifezza, nessuna canzone da definire “indegna”: i 44 minuti scorrono via
senza intoppi, seppur la voce di Todd sia fastidiosamente simile a quella di Geoff. Ma
il fatto è un altro. Il fatto è che già dai primi passaggi dell’opener, “Blood
of the Levant” (peraltro, assieme alla conclusiva “Portrait”, probabilmente il
pezzo più trascinante del lotto) hai già chiaro in testa, grazie alle “qualità”
di cui all’inizio del post, dove andranno a parare i restanti 40 minuti del
platter.
E, infatti, così è.
Con un paio di negative eccezioni (le alquanto
inutili “Propaganda Fashion” e “Inner Unrest”) gli altri brani, come detto,
filano via positivamente, recuperando lo stile anni ottanta della band (quello
dei primi due full lenght, tanto per intenderci), rivisto alla luce del nuovo millennio e quindi, con chitarre più compresse e una produzione di ottimo
livello (garantisce Century Media).
Si arriva alla fine lisci lisci,
senza sussulti dello spirito (e manco delle chiappe). Dò al disco diverse chance, per deformazione professionale e adesione a un mio codice morale verso la musica: lo ascolto 6-7 volte nel giro di un paio di settimane, ma nulla.
L’impressione dei primi 2’ del primo ascolto è confermata.
E arrivo alla conclusione che mi
ha spinto a scrivere questo post.
Senza tirare in ballo albumoni
stratosferici come quelli dei Tool o di Townsend (dischi di cui cominci a
capire la grandezza, rimanendo a bocca aperta, solo al decimo ascolto) alla nostra età non vogliamo più ascoltare
dischi “discreti”, carini, appunto. Se una band storica deve pubblicare, come
hanno fatto i Queensrÿche, un album “sufficiente”, con tutto il rispetto per i
musicisti della band, allora è meglio che evitino. Non dico di tacere per 13 anni come qualcuno di nostra conoscenza, ma neppure di pubblicare dischi a
cadenza biennale per adagiarsi, con mestiere, in una mediocrità che non aggiunge nulla alla sua Arte. Anzi, semmai toglie. Non c’è un’urgenza
comunicativa, non c’è una particolare ispirazione artistica e, allora,
preferiamo il silenzio discografico e/o l’ascolto dei classici di 30 anni fa.
No, abbiamo bisogno di qualcosa
che ci smuova le budella, qualcosa di originale per i nostri padiglioni
auricolari o quantomeno che sappia rimescolare le carte stilistiche in modo fresco e
convincente.
Ecco, a proposito di originalità e "rimescolamenti" (nonchè di prospettive future per il nostro Genere Preferito), e rimanendo tra le uscite del 2019, vado ad ascoltarmi “Sulphur English” degli Inter Arma…
Come dite? Che voto diamo a “The
verdict”? Ah si…album sufficiente. Un bel “6”…
A cura di Morningrise