"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

20 set 2019

TOOL: L'IMPOSSIBILITA' DI RECENSIRE "FEAR INOCULUM"


Tanto lunga è stata l'attesa per questo sospiratissimo ritorno dei Tool che l'uscita di "Fear Inoculum" ha avuto un effetto quasi traumatico per tutti noi. Il mondo si è dimostrato impreparato a gestire adeguatamente un evento di tal portata: un po' come quando un caro amico che non vedevi da tanto tempo ti si presenta a casa e tu sei in cucina con le mani avvolte nel polpettone oppure al bagno sulla tazza del cesso pronto per confezionare, con tua grandissima soddisfazione, la cagata del secolo. 

Più che una recensione questa vorrebbe essere una riflessione sul fenomeno "Fear Inoculum". Ci eravamo infatti talmente abituati ad aspettare che avremmo preferito fluttuare ad infinitum in questo confortevole e frizzantino limbo fatto di ipotesi e di scherno: scherno verso una band che dall'empireo del Mito rischiava di scivolare nella palude del ridicolo. E invece...

C’è chi ha espresso delusione, chi si è accontentato a denti stretti e chi si è sforzato di dare un giudizio obiettivo, come se si trattasse dell'ultimo album degli Hammerfall. Gli approcci sono stati i più disparati: dal serioso che non ammette obiezioni all'ironico da schiaffi sui denti, passando per il visionario galoppante.

Alcuni si sono incentrati sugli elementi tecnici e formali (riempendosi la bocca di nozioni non proprio alla portata di tutti - ed ecco che all'improvviso sono diventati tutti esperti di solfeggio!); altri invece si sono rifugiati nell’evanescenza delle emozioni ed altri ancora l'hanno buttata sull'esoterismo, dando letteralmente i numeri. Per non citare la schiera dei complottisti, ossia quelli che hanno capito prima di tutti gli altri che l'album non era altro che lo "scongelamento" di materiale ibernato composto decenni prima.

Tutti tentativi comprensibili, considerato lo stato di disorientamento collettivo, anche se ho apprezzato davvero poco l'orgasmo precoce di coloro che hanno preteso di sparare cazzate appena poche ore dopo che la versione digitale dell'album venisse condivisa in rete, un paio di giorni prima della data dell’uscita ufficiale. Che fretta c'era, maledetta primavera? (Tanto più che siamo a fine estate…) Dopo tredici anni il minimo che si potesse fare prima di dare fiato alle trombe sarebbe stato di aspettare e far fermentare la musica.

Il fatto è che proprio questi tredici anni di attesa sono stati il fattore extra-musicale che ha reso vano ogni tentativo di comprendere l'opera, almeno nell'immediato.  

Da un punto di vista psicologico tredici anni di attesa implicano che oramai ognuno di noi si era fatto la sua idea personale di come sarebbe dovuto essere il nuovo album dei Tool. In questi suoni, poi, abbiamo riflesso noi stessi, i nostri desideri, le nostre speranze, finendo per leggere l'opera attraverso il parziale metro del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto

Da un punto di vista creativo, tuttavia, un lasso di tempo di gestazione così lungo non garantisce in automatico un impiego di risorse direttamente proporzionato ad esso. Per questo sentenze del tipo “dopo tredici anni ci si aspettava di più” sono prive di senso. E' vero che in così lungo periodo un artista in secca creativa può accumulare tanti spunti da mettere insieme un’oretta dignitosa di musica, ma non è detto che un artista possa comportarsi in modo così razionale e giudizioso, anzi, è lecito pensare proprio il contrario. 

Da un punto di vista storico, infine, tredici anni significano tantissimo: il mondo è cambiato e con esso il modo di comunicare, sbilanciato sempre di più verso Internet, con i social media a spadroneggiare a livello di interazioni personali. La realtà oggi, tramite una compulsiva sequenza di tweet, post e dirette Facebook,  viene costruita ogni istante, mentre l’istante successivo viene dimenticata, soppiantata da una nuova rappresentazione della stessa. Vince chi si fa notare, anche solo per cinque minuti, e la politica ne sa qualcosa. La musica, come l'arte in generale, non è altro che un sotto-prodotto delle medesime dinamiche: essa si diffonde e viene fruita "a pezzetti" (e spesso con la dubbia qualità acustica di un laptop o di un cellulare) su piattaforme come YouTube e Spotify

Se i Tool avessero stravolto/decostruito/mutato la loro visione artistica, saremmo qui a godere di questa fatua fiammata, perché la novità oggi è più importante dell’effettiva qualità della novità stessa.

Come si sono invece mossi i Tool? In apparenza si sono rivelati essere portatori di un approccio tradizionale, sorpassato, obsoleto, ripresentandosi – pensate voi! – con un “normale album”, per giunta stratificato e richiedente attenzioni. Non solo: nel suo essere un flusso (laddove “10,000 Days” viveva di momenti), esso intende fare un discorso articolato, non partendo con il botto, ma anzi in sordina, per poi giungere in crescendo alle tempestose evoluzioni della suite finale, memore dei vecchi Tool. Insomma, "Fear Inoculum" lo devi ascoltare tutto e più di una volta: troppa fatica per noialtri che al massimo abbiamo il tempo di mettere un like su uno scatto di Instagram?

Ampliando ulteriormente il discorso, potremmo concludere che i Tool hanno assunto una forte posizione ideologica, opponendosi fieramente alla vacuità dei tempi odierni con un album poco eclatante ma di sostanza. Ponendo dunque in essere le premesse per una nuova era di fruizione musicale: cioè tornare alla dimensione di un ascolto attento e consapevole, un po’ come suggeriva John Petrucci con il mastodontico “The Ashtonishing”, con il quale egli intendeva inchiodare l’ascoltatore all’ascolto. A questa visione, probabilmente, si lega l’idea di vendere l'album in un cofanetto ultra-lussuoso: l’apoteosi del supporto fisico in una industria discografica sempre più evanescente e "vaporizzata" nella rete. Provaci tu, dopo aver speso ottanta euro, a dare due ascolti distratti all’album! 

In tutto questo, al netto del fattore ispirazione (solo il tempo potrà dirci qualcosa al riguardo), la condotta della band è stata irreprensibile, bisogna prenderne atto. Con la stessa determinazione con cui si dice alla bella moglie del neo-eletto presidente “Sii elegante, perfetta in ogni tuo gesto e parola, non parlare a sproposito e non dare mai adito al minimo dubbio sulla moralità del tuo comportamento”, alla stessa maniera i Tool, fra le molte vie che avrebbero potuto imboccare, hanno optato, non tanto per quella meno rischiosa, ma per la soluzione più intelligente e rispettosa della loro illustre storia: non hanno cercato aiuto con la “telefonata da casa”, hanno bensì guardato in se stessi, provando a ripartire da loro stessi, riuscendo quindi a blindare il proprio marchio, che non è poco. 

L'album, che è indubbiamente a trazione Adam Jones, gode soprattutto dei virtuosismi di Danny Carey, mostruoso dietro alle pelli e protagonista nei momenti più interessanti del platter: su questo asse si sviluppa essenzialmente il Tool sound targato 2019, un sound che si dimostra incredibilmente fresco, scorrevole, ancora più progressivo e psichedelico che in passato, impreziosito talvolta da inserti di synth e persino da qualche assolo di chitarra (nel suo piccolo una novità in casa Tool!). Justin Chancellor quasi stucca da quanto è puntuale, mentre non delude Maynard James Keenan che a tratti persino ci commuove (più dimesso che in passato, ma comunque coerente con quanto fatto di recente in seno ai suoi progetti paralleli). E non ci è dispiaciuta la vocazione in prevalenza strumentale dell’opera, seppur con qualche passaggio a vuoto disseminato qua e là. La produzione, infine, è in grado di valorizzare il minimo dettaglio (e solamente per i suoni della batteria l'album meriterebbe la massima attenzione!).

"Fear Inoculum" si colloca quindi con credibilità nella "geografia discografica" dei Tool: suona come l'espansione / dilatazione / stemperamento in direzione rock di "Lateralus" e, in quanto avamposto di umanità, esso costituisce un episodio isolato da cui poter ripartire, nonché un dignitoso epitaffio qualora i Nostri decidessero di sciogliersi. 

Sia quel che sia, è ancora presto per parlare di “Fear Inoculum”: bisognerebbe ascoltarlo, anzi, bisognerebbe prima di tutto abituarsi all’idea che sia uscito... 

To be continued...