Se
devo dare un nome a questo 2016
in merito al mio rapporto con il metal direi "l'anno
in cui mi chiedo dove diavolo va il metal". Mi aggiro in maniera
furtiva, butto un orecchio sulle novità che mi sembrano più interessanti, cerco
di carpire tendenze, scosto un attimo il tappeto e guardo sotto casomai vi
fossero tracce dell’avvenire del metal, poi scendo in strada ed appena vedo un
tipo sospetto lo prendo per il bavero e gli chiedo: "Quale sarà il fottuto futuro del metal?"
Domande
oziose, perché è un po' come guardarsi allo specchio ogni santa mattina e
cercare di scorgere i segni dell'invecchiamento, di cogliere le differenze
rispetto al giorno prima. Impossibile, anzi inutile. Eppure quest'anno mi è
presa così e per questo mi avventuro in mari sconosciuti alla ricerca del
vascello che ci può condurre oltre le Colonne d'Ercole della nostra
epoca. Mari, vascelli, ok: solo degli artifici retorici per introdurre, ricollegandomi
alla scena ritratta nella copertina dell'album, "Paradise Gallows
", rilasciato uno o due mesi fa dagli Inter Arma. Però la premessa
rimane valida: vediamo che risposte ci danno gli Inter Arma relativamente alle
sorti del nostro genere preferito.
Americani,
relativamente giovani, giungono alla loro quarta prova in studio dopo gli album
"Sundown" (2010) e "Skyburial" (2013) e
l'elefantiaco Ep "The Cavern" (2014): un solo brano di oltre quaranta
minuti. Siamo dalle parti di "una delle tante possibili variazioni sul
tema Neurosis" e gli Inter Arma, per differenziarsi, scelgono i
Pink Floyd, la psichedelia e lo stoner. Non è che questa
sia la via più originale, ma i Nostri la battono con onestà ed ispirazione, e
quindi non starei a fare troppo il difficile, anche perché la formula funziona.
Sopratutto alla luce delle origini della band, che nasceva sì nel pentolone del
post-hardcore/sludge, ma mantenendo importanti collegamenti con i
retaggi del death e del black metal, cosa non così frequente
nell'ambito. Retaggi che la band non ha deciso di disconoscere nell'ultima
fatica discografica, conservando, fra le varie cose, ritmiche impastate in
stile Morbid Angel, sfuriate con tanto di blast-beat, un growl
profondo e luciferino, e persino un orripilante (nel senso positivo del
termine) screaming: pennellate che danno inedite sfumature al post-hardcore
di vocazione settantiana dei Nostri.
Attenzione
però: stiamo parlando ancora di sfumature, perché non è questa la peculiarità
degli Inter Arma, i quali, superando sia i Mastodon che i Baroness
(ma guardando ad entrambi), approdano ai Pink Floyd, dilatando la loro musica
(l'album dura più di settanta minuti!) e condendola con ispirati assolo di
marca gilmouriana. Se gli ascoltatori più smaliziati non faranno di
certo un salto dalla sedia, gli intellettualmente onesti perlomeno dovranno
ammettere che come amalgama quello degli Inter Arma non è male. Si fossero
portati su un'impostazione acida e settantiana, magari sacrificando il growl,
i ragazzi sarebbero stati più scontati e sicuramente meno interessanti ai
nostri occhi. L'essersi invece ben posizionati su un solido baricentro fatto di
Neurosis vecchia maniera (con tanto di ritmi tribali) e l'aver conservato
persino le reminiscenze black/death, rende più audace la commistione con il
lato più dolce e sognante della band di Waters e Gilmour.
Anche
perché nella sua praticamente ventennale vita il post-hardcore ha finito quasi
per dimenticarsi di dover descrivere la furia degli elementi, di
rappresentare montagne che crollano, vulcani che eruttano, fiumi impetuosi che
travolgono gli argini: il post-hardcore sembra essersi dimenticato di tutto
questo per spostarsi su lidi più intimi e minimali, sposando a volte la causa
del cantautorato americano (con egregi risultato, peraltro). Gli Inter Arma ci
riportano invece a quella bella concezione di una volta di un post-hardcore
titanico, grandioso, magniloquente. E Lo fanno compiendo un passo indietro
(non rinnegando certe prerogative del metal estremo), uno in avanti (concedendo
considerevoli spazi alla psichedelia spaziale dei Pink Floyd) ed uno laterale (in
direzione stoner: uno slancio che conferisce fascino senza appiattire il tutto
nella solita sagra del "come si stava bene negli anni settanta!”).
Vediamo
infine i momenti più significativi del platter: "Nomini"
è una strumentale di due minuti e mezzo che apre l'album con un assolo
iper-melodico che in effetti spiazza. "Transfiguration", già
in rete da qualche tempo, è forse un brano che a prima vista può sembrare
scontato, con il suo riffing ossessivo e le ritmiche tribali, eppure con
il trascorrere degli ascolti diverrà letteralmente irresistibile, esprimendo in
modo semplice e diretto la freschezza e la verve di una band che non ha
nemmeno dieci anni di vita. La componente più spiccatamente "prog"
degli Inter Arma viene invece perfettamente descritta dalla sensazionale
accoppiata composta da "Potomac" e dalla title-track:
la prima è un altro coinvolgente brano strumentale con tanto di incipt di pianoforte,
la seconda un viaggio psycho-rock di quasi dodici minuti che parte lento
per tramutarsi presto in un saliscendi emotivo che ben esplicita le
potenzialità del combo americano. Concludono la faccenda i toni distesi e
crepuscolari della ballad "Where the Earth Meets the Sky",
fra folk apocalittico, spaghetti-western e Von Till e Kelly solisti.
Se
questa doveva essere una recensione (ma non lo era), essa finisce qui. Torniamo
invece alla questione iniziale, tracciando qualche conclusione di carattere
generale. Gli Inter Arma rappresentano un metal che si muove
circospetto in una fase di assestamento: la band ha ampie vedute e nel suo
operato, senza compiere prodigi, tiene fede alle aspettative che si possono
nutrire nei confronti di una creatura di ultima generazione. Non vi è tuttavia
il coraggio che è necessario per lanciarsi in quella fuga in avanti che stiamo
cercando con tanto ardore (beninteso, se questa fuga in avanti avesse
comportato l'approdo ad un rock psichedelico tout court, non avremmo
nemmeno considerato l'album in questione, perché per noi la sfida è far
evolvere il metal, non abbandonarlo). È come se vi fosse un timore di fondo
che trattiene i Nostri dallo "sbracarsi": quando ciò avviene,
succedono cose clamorose, ma per il resto del tempo dobbiamo accontentarci di
ordinario post-hardcore.
È un
peccato, perché a conti fatti gli Inter Arma, a queste condizioni, non possono
far altro che ambire allo status di "interessante variante dei Neurosis",
con l'aggravante però che la "tribù" di Oakland erigeva le fondamenta
del genere più di venti anni fa. Il paradosso è dunque il seguente: ci si lamenta
che oggi tutto è più veloce e frenetico, che non c'è tempo per far sì che un
genere possa attecchire, e poi consideriamo ancora fresca la musica di una band
che propone post-hardcore: un genere che, dopo vent'anni, pare non sia ancora
andato a male.
Strano,
no? Nel "bel mondo antico", dove tutto era "statico",
"inamovibile", "eterno", il thrash metal nella sua forma
classica (una delle rivoluzioni nel metal più importanti) non resse dieci anni,
scavalcato già ad inizio anni novanta dal "metal pimpante" dei vari Pantera,
Sepultura e Machine Head, che al thrash avrebbero cambiato i
connotati per sempre.
E
dunque? Siamo alle solite: è come mettere un bambino al muro ogni santo giorno
e fare una tacca per vedere quanto è cresciuto in altezza. Primo: i progressi
non si vedono giorno per giorno. Secondo: evidentemente sta cambiando il
concetto di evoluzione. Come nella scienza si vive per anni con una certa
concezione delle cose e poi, all'improvviso, una teoria che fino ad un secondo
prima sembrava un errore, o addirittura una eresia, diventa di colpo la regina
di un nuovo paradigma, così evidentemente il metal vive la sua fase di stallo,
rimescolando gli elementi di cui è fatto: una composizione che da più o meno
venti anni vede dentro di sé il ricollocarsi senza posa degli stessi
ingredienti, con qualche inevitabile pizzico di novità qua e là, che non basta
per stravolgere gli scenari. Ma ciò non vuol dire che il metal sia morto. Forse
non vive il suo periodo migliore, ma c'è del movimento dietro a questo stato di
cose: è un equilibrio dinamico alimentato da un brulicare di energie che
si attorcigliano più o meno felicemente, ma da cui non si dipana nessun guizzo
dalla gittata degna di nota.
In
questo rimescolio gli Inter Arma sono degli onesti, con la sola sfortuna
che non si è creato un hype intorno a loro (maledetto marketing!)
o, più semplicemente, per un discorso di infelice e sfortunata
intempestività (essendo arrivati un cicinino in ritardo, e senza
novità rilevanti, difficilmente si potranno creare un varco per inserirsi nella
fascia di "quelli che contano"). Ma se per ascoltare serenamente il
metal in questo 2016 non bisogna essere pungolati dalla necessità di imbattersi
nella nuova next big thing, allora ben venga anche questo "Paradise Gallows", che certo non vi negherà delle belle sensazioni. Ascoltatelo.