31 dic 2021

AARON TURNER, SUMAC: RETROMARCIA VERSO L'ABISSO (SENZA SPECCHIETTO RETROVISORE)



A seguito di uno dei miei tipici editoriali negativi di inizio anno, mi ero ripromesso di approfondire qualche realtà di spicco che mi ero perso lungo l’anno precedente. Non ho tuttavia tenuto fede a tali buoni propositi, bensì mi sono chiuso a riccio rivolgendo gli aculei verso la contemporaneità e, supportato dalla pandemia, ho deciso di approfondire un genere come l’atmospheric black metal che ben si presta agli umori ed alle sensazioni di questo specifico momento storico

Esaurita la mia missione, scritta la mia rassegna, completamente svuotato ho girovagato senza meta per qualche tempo e solo di recente mi è tornato alla mente quell’antico proposito, ed eccomi qua a parlare dei Sumac

Quei Sumac che hanno sistematicamente trovato posto nelle classifiche di fine anno con “May You Be Held” (bellissimo titolo, soprattutto se associato alla suggestiva copertina), soprattutto in quelle di testate estere. Quei Sumac che vedono in formazione niente meno che Aaron Turner (ex Isis, pure in Old Man Gloom e Mamiffer), spalleggiato al basso da Brian Cook (Russian Circles, Botch) ed alla batteria da Nick Yacyshyn (Baptists). Un po’ più di un progetto estemporaneo visto che il monicker Sumac raggiunge il ragguardevole traguardo del quarto album. 

“May You Be Held” conta cinque brani per un’ora di durata, con picchi di sedici e diciannove minuti: quali migliori premesse per l’operato di una formazione che annovera nell’organico un paio di illustri esponenti del post-metal? Ed invece l’incauto ascoltatore si troverà ad annaspare nelle spire di un sound vischioso e granitico al tempo stesso (se le due cose posso coesistere), monolitico, anzi monocolore, nero come la pece. L’imponenza delle cattedrali post-metal (se vogliamo vederci questa continuità) viene qui rimodellata nelle forme di un anfratto scavato nella pietra, di una caverna per uomini primitivi o di un cratere che dà su un abisso senza fondo. 

E dunque mi interrogo: ma che cazzo di involuzione ha colto la penna di Aaron Turner, il raffinato interprete del post-metal più raffinato che vi potesse essere? Tutti noi ci ricordiamo perfettamente le evoluzioni aeree, celestiali, oceaniche, panoptiche (se vogliamo) dei grandissimi ed indimenticati Isis. Gli Isis poi si sono sciolti, anzi implosi, e posso capire la voglia di ripiegare su qualcosa di nicchia, di guardare ad un pubblico selezionato, la necessità di uscire dal cono dei riflettori e non avere più sul collo il fiato di fan e critica in occasione di ogni uscita discografica. 

Ma possibile che non sia rimasto nulla, ma proprio nulla, del glorioso post-metal che fu? Volete dirmi che Turner era l’anello debole della catena? E che a Bryant Clifford Meyer, Jeff Caxide ed Aaron Harris si dovessero le migliori intuizioni, e progressive e melodiche, degli Isis? No dai, non facciamo i cattivi, nemmeno loro riuscirono a brillare con i Palms (altra propagazione post-Isis, con niente meno che Chino Moreno dei Deftones dietro al microfono). A volte, piuttosto, ho come l’impressione che Turner abbia voluto virare verso qualcosa di oggettivamente brutto, quasi egli voglia essere lasciato in pace. 

Davvero, andate via, lasciatemi in pace!, sembrano implorare le lunghe, asfissianti e a tratti inconcludenti composizioni dei Sumac. Del resto il mondo della musica è strano, e può capitare che anche una proposta cosi programmaticamente ostica sappia incontrare i gusti di una certa generazione di ascoltatori. Certo, non sono tempi bellissimi quelli che viviamo, e in un ascolto come “May You Be Held” potremmo trovarvi lo specchio di un’epoca, ma quanto ci si vuole far male oggi ascoltando questa musica! 

Sembra che in essa si voglia accatastare, a mo’ di area-deposito per container, tutto quello che di fastidioso possa esser prodotto dal metal di ultima generazione (pur puzzando di stantio): lunghe assenze che non portano a nulla, passaggi puramente rumorosi, riff singhiozzanti, ritmi incespicanti, faticose costruzioni math-rock, qualche inspiegabile accelerazione, ripetizione, tanta ripetizione, assenza di strutture, assenza di melodia, e meno male che alla fine Turner ha il buon cuore di buttare dentro anche l'organo della moglie Faith Coloccia (una nota, chevuoichesia, ma a questo punto a noi basta...).  

E poi, dulcis in fundo, c'è la voce cavernosa di Turner, che nei panni del cantante non si è mai calato fino in fondo. Eppure quello stesso growl che emergeva sempre più sporadicamente nelle suite degli Isis, adesso lo troviamo ad imperversare in lungo e in largo in queste tortuose divagazioni soniche, propria ora che Aaron, sgravato dalle pressioni, poteva rilassarsi, darsi direttamente alla musica strumentale o assoldare un cantante vero per fargli fare il lavoro sporco. Ma se a lungo andare il latrato ottenebrante di Turner può avere più senso qui che altrove (con punte di disumanità non indifferenti - a tratti sembra di sentire gli Asphyx...), il dubbio più spiacevole è che alla fine della fiera si tratti solo di sessioni di improvvisazione compiute da musicisti navigati che, grazie al mestiere, sanno distribuire le suggestioni con equilibrio, aiutati dall'assenza di binari che la dimensione free-form può garantire. 

Chiariamoci: non è musica banale questa, ed anzi, se mi trovavo nella giornata giusta, oggi ero ad incensare questo disco, ma al di là dei gusti personali, non si può negare l’oggettiva volontà di disturbare l’ascoltatore. Qui non si ricorre neppure a quell’ “estetica del brutto” a cui ambivano act come Khanate o i Sunn O)), nelle cui proposte brillava anche una certa dose di edonismo. Nei Sumac vedo piuttosto un ripiegamento verso se stessi, un metal autoreferenziale che sembra lavorare solo per riduzione, togliendo ogni elemento accattivante, rifuggendo ogni forma di esibizionismo, di narcisismo, di voglia di apparire o piacere. Volevate esprimere disagio? Bravi ragazzi, ci siete riusciti! 

L’Aaron Turner dei Sumac, in definitiva, sembra essere uno di quegli ex manager che, nati come ingegneri, dopo aver brevettato idee vincenti, lanciano una start-up di successo, ma che, schiacciati dallo stress del business che va a gonfie vele, ad un certo punto si guardano allo specchio stravolti, con le occhiaie e la camicia stropicciata, e decidono di cedere le proprie quote alla multinazionale di turno e mettersi in proprio, avviando una società più piccola dove essi possano tornare a fare quello che più gli piace, svestendo i panni del manager e, per reazione, anelando persino di svolgere lavoretti manuali.

Signora, il suo cesso è intasato, ha forse ascoltato i Sumac?
No, meglio, mi correggo: signora, il suo cesso è intasato, proviamo a sturarlo con i Sumac...