I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO METAL”
3°
CLASSIFICATO: “PANOPTICON”
Pelican,
The Ocean, Rosetta, Buried Inside, Red Sparowes, Battle
of Mice, A Storm of Light, Callisto... e la lista potrebbe
andare ben oltre. Esteso, infatti, è il novero delle band e degli artisti che
possiamo contemplare nel vasto calderone del post-metal. Troppo esteso,
questo elenco, per noi che abbiamo il compito di individuare solo dieci titoli che rappresentino le nuove tendenze del Metal Odierno. Non è una
forzatura, tuttavia, racchiudere tutte queste entità sotto la copertura di
un'unica bandiera di rappresentanza: quella degli Isis.
Bisognerebbe
però spendere prima due parole sugli svedesi Cult of Luna, che con gli
Isis sostanzialmente se la sono sempre giocata alla pari. Se gli Isis si
formavano nel 1997, i Cult of Luna lo facevano nel 1998. Quando gli Isis davano
alle stampe lavori come “Celestial” (2000) ed Oceanic” (2002), i Cult of Luna
rilasciavano l'omonimo debutto (2001) e “The Beyond” (2003). Una “sfida” a
distanza, dunque, che ha rappresentato un formidabile botta-e-risposta
fra le due band che prima di tutti seppero raccogliere l'eredità della
formazione che sconvolse, sul finire degni anni novanta, la musica pesante: i Neurosis
(i poveri Breach, che si sciolsero precocemente nel 2001, dopo gesta
grandiose, non li possiamo più considerare ai fini delle nostre dissertazioni).
Più saldamente ancorati alla dimensione hardcore (come da buona tradizione
svedese) i Cult of Luna hanno saputo progredire costantemente, sviluppando un
suono personale ed affinando, di album in album, la loro proposta: un
post-hardcore che nel tempo ha saputo ingerire dosi maggiori di melodia e
raggiungere traguardi invidiabili quanto a complessità concettuale,
penetrazione sociologica e varietà stilistica (finendo per toccare i lidi del
folk e dell’elettronica minimale). A conti fatti, la compagine di Umea ha
sfornato solo ed esclusivamente capolavori e giunge senza fallo ed in
inesorabile ascesa ai nostri giorni con un lavoro superlativo come “Vertikal”
(uscito nel 2013).
Il
destino degli americani Isis è stato diverso: la band si sciolse infatti nel
2010, ma nel corso della poco più che decennale esistenza, la formazione di
Boston ha consegnato ai posteri cinque lavori, tutti significativi, nell'arco
dei quali si è venuta a completare la transizione da post-hardcore a
post-metal, di cui gli Isis sono a tutti gli effetti i padri. E' per questo
che scegliamo loro, e non i pur ottimi Cult of Luna, quali degni rappresentanti
del filone all'interno della nostra rassegna.
Generalmente
il primo caso di post-metal viene fatto coincidere con “Oceanic”, loro
secondo lavoro, nel quale la matrice neurosiana veniva arricchita con nuovi
importanti elementi. I suoni erano ancora esplosivi, la voce strillata e di
derivazione hardcore, le composizioni estese nel minutaggio e torrenziali nel
loro incedere. Eppure tutto assumeva una fisionomia più composta, persino le
barbe dei musicisti sembravano meglio pettinate e le camicie a quadri stirate.
Più che altro iniziavano ad emergere quegli elementi distintivi che
caratterizzeranno la genesi del post-metal, che diverrà genera a parte: momenti
più rarefatti e distesi, dalla forte valenza emotiva e paesaggistica,
precedevano e preparavano immani detonazioni, evocanti i crescendo tipici del post-rock
strumentale dei Mogwai (ovviamente in una versione più pesante e
catastrofica). Il seme fu dunque gettato: con l'album successivo il percorso
volgerà al suo compimento.
Anno
2004: “Panopticon”. Gli Isis si ripresentano sul mercato
discografico con trame strumentali sempre più raffinate e complesse in cui
convivono pacificamente Neurosis, Tool (Justin Chancellor prestava
il suo basso ad un brano), i citati Mogwai e persino gli Opeth,
pionieri nel coniugare metal pesante e rock progressivo. Il risultato è un
gioiello fra i più brillanti del firmamento del “Nuovo Metal”: per certi
aspetti ne costituisce la migliore testimonianza, perché in esso vanno a
confluire le più importanti tendenze che hanno caratterizzato gli anni zero.
Il sound
di “Panopticon” è potente e trascinante come il post-hardcore dei Neurosis.
All'interno
di queste mastodontiche architetture, brulica un'attività che invece segue le
linee-guida definite dai Tool, presenti nei pattern chitarristici, nel drumming
dinamico ed ossessivo di Aaron Harris.
Su
queste basi si innesta il bel basso in evidenza di Jeff Caxide, che per
approccio ricorda il basso arpeggiato di Simon Gallup (i Cure, del resto, sono
indicati fra le influenze del musicista), conferendo al tutto inedite sfumature
dark. E' chiaro, dunque, che la dimensione melodica acquisisce spazi crescenti,
costruita sull'onda dirompente di ispirati arpeggi, preziosismi armonici,
stratificazioni che si aggiungono progressivamente, l’ottimo lavoro, in
definitiva, di chitarre e tastiere, spesso utilizzate, quest'ultime, in chiave
ambientale. C'è da ricordare infatti che fra i cinque componenti campeggia un
tastierista, Bryant Clifford Meyer, che aggiunge colori e sfumature ad
una tavolozza già di per sé ricca.
Le
chitarre di Michael Gallagher ed Aaron Turner, infine, conducono
il gioco in perfetta sinergia, coprendo gli spazi con i chiaroscuri emozionali
che sono tipici del post-rock, ma anche con trame che introducono un misurato
tocco progressivo. Che si scelga una via o l'altra od entrambe (perché
spesso le due dimensioni si rincorrono e compenetrano), l'obiettivo è il
medesimo: generare quel climax emotivo, sospeso fra tensione e rilascio, che
trova il suo orgasmo in sublimi eruzioni di metallo incandescente.
Giungiamo
dunque alle note dolenti, anzi alla nota dolente, l'unica di un lavoro
pressoché impeccabile: la voce di Aaron Turner. Se sulla dimensione del
pulito guadagna spazi crescenti, fra l'altro con risultati passabili, sul
fronte del growl proprio non ci siamo. Al di là che, per oscure ragioni
(dato che la produzione è perfetta), la voce passa regolarmente in secondo
piano rispetto alla musica, il suo gorgogliare ripetitivo e monocorde soffre il
contrasto con una musica dinamica e ricca di sfumature. Probabilmente, lui che
cantante non lo è stato mai, non aveva più voglia di strillare, trovandosi in
estrema difficoltà un po' ovunque ed in particolare laddove la controparte
musicale diveniva più elaborata.
Potevano
esserci diversi modi per ovviare al problema: dal reclutare un altro cantante,
al ritocco in studio delle parti vocali, o anche lasciare tutto strumentale e
buonanotte (soluzione per altro sfiorata, visto che i passaggi cantati sono
sporadici e marginali all’economia complessiva del suono). Ma non è il caso di
crucciarsi oltremodo: il risultato è superlativo comunque, tanto che potremmo
definire “Panopticon” l’album metal “più bello” degli anni zero.
Esagero? Forse, eppure è difficile trovare un piatto così forte ed al tempo
stesso preparato con cura. Laddove i maestri Neurosis regredivano a forme più
scarne e primitive, finendo per sfiorare il cantautorato tout-court
(genere essenziale per eccellenza), gli Isis progredivano ammassando suoni
sempre meglio tagliati, stratificati, sfumati. Inventare, negli anni zero, non
significa del resto coniare nuovi linguaggi (come accadeva ai tempi dell'heavy metal
classico, del thrash o del black), bensì mescolare. E gli Isis mescolano bene,
lo fanno per giunta non perdendo di vista quello che è l’obiettivo di ogni
forma d’arte che si rispetti: dare emozioni.
Si
parla dunque di amori infranti, di lutti terribili, di fratture insanabili?
Niente di tutto questo. Non vi poteva essere, invero, tema più algido per “Panopticon”,
che è un concept il cui punto focale è il concetto di “prigionia”, concetto
esplorato su più livelli: dal sistema carcerario definito nel 1791 dal filosofo
e giurista inglese Jeremy Bentham (da cui l’album prende il titolo),
all'analisi sociale più ampia che viene effettuata tramite questa metafora. Il
velato totalitarismo che si può nascondere dietro il paravento della democrazia
è sicuramente il nocciolo della questione, e non è un caso che, nel corso del
2004 (anno di uscita dell’album), veniva da un lato rieletto George W. Bush
(il guerrafondaio Bush, sentinella dell'occidente e dei patri confini, considerata
l'ossessione che il suo programma ha riservato sui temi della sicurezza),
dall'altro veniva lanciato Facebook (il dilagare dei social forum
come forma di invisibile controllo sociale, altra sfumatura del tema
principale).
Eppure
“Panopticon” non è un album claustrofobico, labirintico, non intende tradurre
gli argomenti trattati con una musica soffocante e disturbante.
All’espressionismo non-sense od alle contundenti spigolosità di molte
proposte musicale incaricate di farsi carico di un certo disagio generazionale,
subentra un moto ondivago dove i brani sfumano l'uno nell'altro dolcemente: uno
struggente romanticismo che ci consegna quel senso di vastità che
era stato proprio di opere come “Celestial” ed “Oceanic”, fin dai titoli
evocanti l’immensità della volta celeste e delle masse oceaniche. E sebbene
“Panopticon” porti il nome di un sistema carcerario, le composizioni degli Isis
continuano a definire spazi ampissimi, un dolore gigantesco grande quanto
l’universo, profondo quanto l’animo umano: sono montagne imponenti, correnti
impetuose, onde potenti, un grido che proviene direttamente dal cuore, urlato a
squarciagola quello che ci descrivono le avvolgenti spire di questo post-hardcore
che di ancestrale conserva un'emotività frustrata che è fuori dal tempo
e dallo spazio, ma che nella forma calza le vesti eleganti e raffinate di un
metal oramai post, non solo perché annette gli stilemi del post-rock, ma
anche perché si pone come superamento/espansione del tipico modus operandi
dell'heavy metal classico. Se carcere dev’essere, allora che lo sia microscopico,
ripreso dall’alto, da incommensurabili distanze, come accade nella suggestiva
copertina.
“Panopticon” fu una vetta
impossibile da superare, anche dagli stessi Isis. I due lavori licenziati
successivamente, (che precederanno l'inevitabile scioglimento della band, come
se l'implosione dell'organico fosse l'unica via d'uscita possibile per la
troppa tensione accumulata), non saranno all'altezza di questo capolavoro, pur
conservando l'elevata caratura artistica che contraddistinguerà fino alla fine
la formazione di Boston. Il lascito, tuttavia, sarà enorme ed importantissimo
per gli sviluppi del metal del terzo millennio. Basta tornare alla lista
riportata all'inizio...