"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

5 ago 2020

DEFTONES: VENT'ANNI DI "WHITE PONY"


Si festeggia quest’anno il ventennale di “White Pony”, che usciva il 20 giugno dell’anno 2000. Se ne è parlato molto negli ultimi tempi, e se qui su Metal Mirror ne parliamo con un poco di ritardo, è perché il ventennale di “White Pony” non è una di quelle date che ci siamo segnati sul calendario. 

Leggendo tuttavia interviste e retrospettive celebrative, i Deftones mi sono ritornati di colpo nel “campo visivo”: perché dunque non spendere due parole su "White Pony"?

"White Pony", devo ammetterlo, l'ho comprato qualche anno dopo la sua uscita per pochi euro ad una fiera dell'usato, visto che nel 2000 ero francamente interessato ad altro. A dirla tutta, avevo accantonato un po' il metal, e se metal dovevo ascoltare, allora guardavo con interesse all'ascesa di gruppi come Opeth e Neurosis (che l'anno precedente se ne erano usciti, rispettivamente, con lavori del calibro di "Still Life" e "Times of Grace"). Questo per dire che, già distantissimo dalla dimensione della hit mordi-e-fuggi (il pur bel singolo “Change (in the House of Flies)” non mi spinse all’acquisto), abitavo in tutt’altro pianeta rispetto al nu-metal ed alle sue evoluzioni. Senza poi contare che, alla mia età, non ci poteva essere immedesimazione o partecipazione nell’estetica adolescenziale ritratta dai Deftones. Del resto appena vedo pantaloni corti, magliette da baseball e cappellini con visiera mi viene l’orticaria. A Sacramento, California, ho sempre preferito le foreste norvegesi, datemi pure dello scemo. 

Eppure la musica dei Deftones, rispetto a quella di altri alfieri di quelle medesime sonorità (Korn, System of a Down, Slipknot, che pure ho apprezzato agli inizi) ha sempre incarnato qualcosa di diverso, come se possedesse più umanità, più sincerità, quasi alla stregua di un gruppo grunge, genere da cui i Nostri peraltro avevano pescato a piene mani. Se tutto il nu-metal ha la missione di descrivere i problemi e il disagio dei giovani a cavallo fra i due millenni, i Deftones lo hanno fatto in modo meno artefatto e "pagliaccesco", raggiungendo più facilmente il cuore. Uno schiaffo emotivo che conobbi quella volta che ascoltai la mitica “Be Quite and Drive (Far Away)” (peraltro mentre guidavo): il canto sofferto di Chino Moreno, lo spleen delle chitarre dissonanti, come se Simon Le Bon cantasse le nevrosi dei Nirvana ed elevasse lo spirito angustiato e la voglia di "volare" dei giovani della sua generazione a vertiginose altezze metal. Era “Around the Fur”, anno 1997, ma “Be Quite and Drive (Far Away)” era l’unico pezzo che davvero mi piaceva. 

Non potetti dire la stessa cosa di “White Pony”, che ai miei orecchi suonò perfetto in tutto. Ripeto, i Deftones non sono la mia band preferita e “White Pony” non ha certo segnato in modo particolare la mia esperienza personale, ma se devo pensare in senso distaccato a quell’opera, mi viene in mente il concetto di perfezione, dove per perfezione intendo “tutto, ma proprio tutto, al proprio posto”: forma, sostanza, dettagli, sfumature, suoni a fuoco, band in palla, livello qualitativo medio altissimo e qualche acuto per meritare l’appellativo di capolavoro. Mi riferisco, fra gli altri brani, alla splendida “Digital Bath”, grazie alla quale capii fin da subito che si poteva andare ben oltre “Be Quite and Drive (Far Away)”. E non c’è niente di più bello di quando ascolti un album dove i primi brani ti esaltano tanto da creare in tempo reale grandi aspettative e quelle stesse aspettative vengono poi mantenute, o addirittura superate, durante il prosieguo dell’ascolto (chi ha detto “Passenger”, con la voce del supremo Maynard James Keenan ad aggiungere gloria alla gloria?). 

Certi album, del resto, sembrano predestinati a divenire pietre miliari ancora prima della loro realizzazione. Un po’ come “The Dark Side of the Moon”, “White Pony” portava con sé la caratura del capolavoro fin dal concept di copertina, tanto semplice quanto geniale: la silhouette di un cavallino bianco su sfondo grigio. Forse per il metallaro medio, avvezzo a copertine affollate di immagini e colori accesi, il modo in cui i Deftones hanno osato presentarsi per il loro terzo lavoro poteva apparire insulso o addirittura una cagata, eppure questa cover, riguardata oggi, conserva la freschezza di venti anni fa, con in più il fascino immortale del classico. 

Pare che la band avesse in mente la copertina prima ancora di comporre l’album, che, sempre a detta degli autori, è stato figlio di una libertà assoluta, della voglia di osare che possiedono solo le band giovani che si trovano in quella fase cruciale in cui, da un passato promettente, si palesa finalmente la possibilità di spiccare il volo. Ed infatti di scelte audaci ve ne sono in questo album, a partire dall’ingresso in pianta stabile del quinto elemento Frank Delgado, tastierista e manipolatore di suoni che amplierà ulteriormente il sound dei Nostri, rivelandosi una vera marcia in più, oltre ovviamente alla versatilità della voce di Moreno (strabiliante la sua prova vocale in queste undici tracce). 

In molti frangenti “White Pony” ha il sapore del “o la va o la spacca”, ma alla fine critica e pubblico apprezzeranno, e questo perché l’album cattura la band al top della forma e della maturità compositiva: un momento delicato in cui le scelte di indirizzo stilistico, di produzione e di marketing possono aiutare o risultare deleterie. Quante volte, oramai, le band più promettenti non sono in grado di centrare l’obiettivo dell’album della vita, girando intorno a quelle che sono grandi potenzialità, frenando le energie vive con scelte conservative, di consolidamento dello status quo dettate dal timore di deludere le aspettative dei fan

E’ bello ricordare oggi “White Pony” perché grazie ad esso possiamo rievocare un’epoca in cui uscivano capolavori degni di essere ricordati. Voglio essere chiaro: oggi non mancano affatto lavori superlativi nel metal, ma sono sempre di più appannaggio di artisti di nicchia che, ahimè, non raccolgono i meritati riconoscimenti da parte del grande pubblico. “Vulgar Display of Power”, “Chaos A.D.”, i fulminanti esordi di Rage Against the Machine e Korn rappresentavano ancora quei colpacci che in qualche modo riuscivano a modificare scenari, scombinare le dinamiche del mercato discografico, guadagnando spesso lo status di instant classic. E "White Pony", come gli album sopra citati, ebbe il pregio, fra le altre cose, di fotografare ed incarnare un preciso momento storico, parlando a nome dei giovani di quel periodo, svelando le loro insicurezze ma anche la loro forza. 

Lamb of God, Trivium, Avenged Sevenfold, gli In Flames della loro seconda parte di carriera, per esempio, sono band di grande successo fra i giovani, band che tuttavia non sembrano aver mai trovato il loro centro, oscillando continuamente fra brani riusciti ed altri meno, qualità e ruffianeria, in parte deludendo chi si aspetta da loro il tanto atteso salto di qualità. Gli stessi Mastodon, altro esempio, sembravano possedere le carte in regola per regnare nell’Olimpo del “Nuovo Metal”, ma dopo un inizio con il botto hanno continuato a lavorare assecondando un situazionismo creativo che ha mantenuto alto il livello qualitativo, ma non ha prodotto lavori epocali. 

Fra mestiere, pressioni delle case discografiche o forse semplice carenza di ispirazione o coraggio, è mancato nell’ultimo ventennio l’album che, nel metal, ha caratterizzato le ultime generazioni, che si sono viste rappresentare principalmente dal metal-core, genere che ha proliferato senza però mai veramente cambiare le regole del gioco. Con il passaggio di testimone dal nu-metal al metal-core (che, pur inasprendo i toni, fa uso di quella emotività esasperata che gli stessi Deftones avevano sdoganato) c’è chi dice che si è passati dalla padella alla brace, ma non è nostra intenzione oggi fare polemiche sul corso che il metal ha intrapreso nelle ultime due decadi: celebriamo piuttosto la grandezza di un album monumentale ed ancora attuale come “White Pony”, e con esso la grandezza dei Deftones stessi che hanno retto l’urto e saputo imbastire una carriera credibile e duratura anche dopo il loro insuperato capolavoro, con professionalità, ricerca ed onestà artistica. 

And I watched a change in you 
It’s like you never had wings 
Now you feel so alive 
I’ve watched you change