20 gen 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: DISEMBOWELMENT



Puntata 0: Disembowelment - “Trascendence into the Peripheral” (1993) 

Disembowelment dentro o Disembowelment fuori? Alla fine li abbiamo lasciati sulla soglia. Di certo gli australiani furono fra coloro che seppero cogliere le potenzialità espressive del doom come “arma letale” da impiegare in ambito estremo, ma dall’altro lato un lavoro come “Trascendence into the Peripheral” ci sembra ancora troppo spostato sul versante del death metal per essere considerato funeral doom nel senso pieno del termine. 

Li trattiamo quindi in questa sorta di anteprima in quanto è innegabile che le loro sperimentazioni rimarranno di forte ispirazione per il movimento del funeral doom, che di lì a poco avrebbe mosso i primi passi. 

I Disembowelment (anzi dovremmo scrivere diSEMBOWELMENT, ad essere precisi) si sarebbero sciolti subito dopo l’uscita del loro esordio discografico, che vedeva la luce il primo settembre 1993 dopo quattro anni di gavetta, tre demo ed un EP. Oggi tutti si riempiono la bocca con i Disembowelment, rivalutati per via dell’ascesa, anni dopo, del fenomeno funeral doom, ma senza essere severi, o voler infierire sulla fine di una band pur meritevole, sono evidenti i motivi per cui i quattro di Melbourne non ebbero fortuna finché furono in vita. 

Intanto non ti chiami “sventramento” (o sVENTRAMENTO che dir si voglia) se come minimo non suoni il brutal/death più sanguinolento di questo mondo. E poi, se decidi di chiamarti “sventramento”, allora non intitoli un album “Trascendence into the Peripheral” e la butti sul metafisico. E se infine usi una drum-machine, e sei nel 1993, allora vuol dire che o sei ingenuo o che vuoi stare sul cazzo a tutti i costi! Insomma, l’impressione é che la band non avesse le idee molto chiare sulla direzione da intraprendere (carne o spirito?), ma per capire la causa dello scioglimento, basta gettare uno sguardo al contesto del periodo. 

Il 1993 è stato un anno chiave per varie evoluzioni di certo metal estremo che sembrava voler rinnegare le proprie origini efferate per spostarsi verso orizzonti - come dire - più atmosferici e suggestivi. Più o meno in contemporanea uscivano “Icon” dei Paradise Lost e “Turn Loose the Swans” dei My Dying Bride (qualche mese prima aveva invece visto la luce “Serenades” degli Anathema): tutti lavori, questi, che esprimevano una cosciente volontà di emancipazione dagli stilemi del death metal, da cui questi artisti provenivano. Nick Holmes aveva già abbandonato il growl e le composizioni dei Paradise Lost brillavano del talento melodico della chitarra solista di Gregor Mackintosh, che pescava a piene mani dalla tradizione della darkwave; i My Dying Bride introducevano un violinista in organico, il pianoforte figurava in più di un episodio e la voce di Aaron Stainthorpe si portava sempre più spesso sui registri di un bellissimo pulito. Ma era la maturità e l’equilibrio compositivo di queste band che stavano supportando l’ascesa di un nuovo genere, il gothic metal. Perché per avviare con successo un nuovo genere non basta solo inventare qualcosa di nuovo, ma bisogna anche far si che questa innovazione piaccia ad altri e possa essere replicata. 

Non è stato il caso dei Disembowelment, almeno nell’immeditato, visto che in un contesto del genere si presentavano come una improbabile via di mezzo fra gli Autopsy e i Cathedral di “Forest of Equilibrium”. Ingenuità? Voglia di stare sul cazzo? ….Forse un po’ tutte e due le cose: se “Trascendence into the Peripheral” presenta indubbiamente delle ingenuità a diversi livelli (dall’approccio generale alle specifiche scelte stilistiche, passando dagli arrangiamenti), è anche vero che i Nostri optavano per una formula che tendeva a mettere insieme due estremi (il death furibondo, il growl impastato delle band più arcigne da un lato; l’asfissiante lentezza del doom, qualche guizzo melodico del nascente gothic metal dall'altro) con l’obiettivo probabilmente di risultare destabilizzanti. Riuscendoci, peraltro.

E dire che ci aveva pure scommesso la Relapse su questi quattro debosciati, ma è anche vero che quelli erano tempi in cui il metal estremo aveva appena superato la propria fase classica e dunque si sperimentava in tante direzioni, chi in maniera vincente gettando i semi per nuovi sotto-generi, chi perdendo la propria scommessa con il Destino per poi dissolversi nel nulla. I Disembowelment, loro malgrado, appartenevano alla seconda categoria, ma avrebbero vinto qualche anno dopo, rivalutati in una fase in cui il metal estremo, consolidatosi nelle sue forme evolute, avrebbe potuto permettersi di consolidare certe tendenze malsane. 

Eccoli dunque accolti con affetto nella famiglia del funeral doom, al quale avrebbero portato in dote titoli altisonanti (“Il tuo profetico trono d’avorio”, “Funerale a Ornans” (che poi sarebbe un dipinto ad olio su tela di Gustave Courbertguarda lì che finezza…), “La caducità cerulea di tutte le mie coste immaginate”), brani dalla durata estesa (con punte di nove, dieci e quattordici minuti), un growl profondo e strascicato e porzioni di lentezza pachidermica che farebbero uscire di cervello anche Lee Dorrian e soci. Come se non bastasse, nel pacchetto troviamo anche soluzioni insolite, come la breve “Nightside of Eden”, interamente acustica e con tanto di voce femminile, o il violoncello impiegato nella già citata “Cerulean Transience of all my Imaginated Shores”. 

Ma in un modo o nell’altro i Disembowelment danno sempre fastidio: o troppo veloci o troppo lenti o estranianti nei momenti in cui ambirebbero a voler essere in qualche modo suggestivi. Esemplificano tutto i dieci minuti della superba openerThe Tree of Life and Death” (altro titolo supponente...): premi play e ti ritrovi investito da un deathaccio sporco e sparato a mille all'ora, ma che c’è qualcosa di strano lo capisci da un riff di chitarra insolito, melodico eppure ignorato dalle ritmiche lanciate nel più autistico dei blast-beat. Poi ad un certo punto subentra l’indole doom e quasi rimpiangi il piglio death con cui aveva esordito il brano: riff granitici, lenti e azzoppati, spezzati dal nervosismo della doppia-cassa….procedi a rilento, ricurvo, ti fermi un attimo e poi riparti ancora più perplesso di prima, lento, ma tanto lento, e senza nemmeno sognare, solo lento, con la voce gutturale che aggiunge balle di cemento sul groppone. 

Sono questi però i momenti in cui la visione artistica dei Nostri risulta più a fuoco nel suo essere estrema e contestualmente originale, come se quello “sventramento” richiamato dal monicker si verificasse a spese della "materia death metal", letteralmente sviscerata e ridotta in frattaglie. Anche perché appena i Nostri impugnano una chitarra acustica o vogliono cimentarsi in un assolo si fanno solo danni (ma che cazzo si erano bevuti quel giorno quelli della Relapse?). 

La cosa strana è che nonostante tutto “Trascendence into the Peripheral” funziona, ha un suo equilibrio perverso che in qualche maniera calamita l’attenzione dell’ascoltatore: l’avvicendarsi scriteriato di parti lenti e veloci è sicuramente un punto di forza, dove l’effetto suspense è dato dallo svolgimento meditabondo ed imprevedibile di brani belli lunghi che non si capisce mai dove vogliano andare a parare, ma che spesso fanno centro. Il songwriting, infine, è nel complesso buono e, a distanza di anni, il sound risulta straordinariamente fresco: si capisce dunque come mai un album del genere sia finito per divenire seminale per qualcuno. 

Lo riascoltavo l’altro giorno con mio figlio, e sebbene sia piccolino e non conosca ancora la differenza fra arte e rumore molesto, pareva comunque un po’ disturbato, senza forse esserlo coscientemente. Io stesso ho dovuto ad un certo punto spegnere per l’angoscia che mi stava assalendo, silenzando i Disembowelment ad un brano dalla fine del disco, cosa che dispiace sempre fare. Ma nella sua ora di durata “Trascendence into the Peripheral” sa mettere a dura prova la resistenza dell’ascoltatore, con quei riff ossessivi, con quella voce putrefatta, con quella pesantezza esagerata. Ed arrivare fino alla fine non è cosa da tutti. Insomma ragazzi, se questo era l’obiettivo, ci siete riusciti! 

Gli orfani e le vedove dei Disembowelment si potranno comunque consolare con un paio di spin-off. Da una costola della band scaturiranno gli Inverloch (ma con calma, quasi dieci anni dopo, nel 2011), nati come tribute-band dei Disembowelment stessi (scelta vincente) e che poi con coerenza porteranno avanti la causa del death/doom; mentre il cantante, cantastorie e chitarrista, nonché compositore principale di testi e musica Renato Gallina (ma dove vuole andare uno con un nome così?) si darà direttamente al folk/ambient con i Trial of the Bow. Evviva la vita!