Sono
un ragazzo prolisso, ma non amo assecondare questo mio difetto, semmai cerco di
sfidarmi proprio su terreni a me ostili. Prendo dunque una delle band che più
amo e mi getto in una dissertazione a rotta di collo, superficiale, o meglio,
essenziale.
I Cathedral:
tutti li conoscono, tutti li ballano! Ma ci sono i più giovani, ed anche i
distratti, e poi parlare dei Cathedral non è mai tempo sprecato, tanto più che
si sono sciolti e ci mancano tanto tanto tanto.
"Forest
of Equilibrium", 1991.
Cosa
vuol dire essere post-sabbathiani? Vuol dire non inventare nulla, non
andare oltre il cerchio di fuoco tracciato da Iommi e compagni. Però, a
guardar bene, in questo folgorante debutto i Nostri qualcosa di nuovo lo
dissero per davvero: rallentare. Esagerare. Anche a costo di
apparire grotteschi, e senza rinunciare ad una certa dose di humour nero
e gusto per l’eccesso: aprendo di fatto nuove vie nel doom. I Cathedral degli
inizi, infatti, possedevano una certa consapevolezza, un'ambizione concettuale,
non accontentandosi del mero revival, ma proponendosi di essere i più
estremi, nella pesantezza, nella lentezza. Cosa aspettarsi del resto da Lee
Dorrian, che veniva dalla band metal più estrema del mondo, i Napalm
Death? Un plauso inoltre al degno compare Garry “Gaz” Jennings, di
professione chitarrista: una fucina inesauribile di riff. Ma "Forest
of Equilibrium", più che brillare di questi due talenti, riluce di una
attitudine: essere fottutamente doom, più di chiunque altro lo fosse
stato fino ad allora, Candlemass, Pentagram o chi diavolo volete.
Appena addolcita dalla variopinta e visionaria copertina in stile Hieronymus
Bosch e dall'introduzione acustica con tanto di flauto traverso, l'opera è un
macigno nel vero senso della parola. E se "Soul Sacrifice" si
permette di durare nemmeno tre minuti, i rimanenti sono brani lunghi, lenti ed
infestati da una spossatezza che mai si era udita prima. Di questi saggi di
sublime afflizione esistenziale, tutti di altissimo livello, vorremmo ricordare
perlomeno "Celebrating The Commiseration" ed "Ebony
Tears", da annoverare fra i classici del doom metal tutto.
Voto:
9
The
Ethereal Mirror", 1993.
Varcato
il Limite con l'impareggiabile opera prima, i Nostri fanno marcia
indietro e si riappropriano degli umori freak di quella magica stagione
del rock che aveva brillato fra la fine degli anni sessanta e gli inizi della
decade successiva. Perché non solo di doom i Nostri, evidentemente, si sono
cibati. Il sound rimane granitico, e lo dimostra il singolone
"Midnight Mountain", adrenalinico e dotato di un groove
di derivazione hard-rock sconosciuto fino ad allora alla formazione di
Coventry. Certo, non mancheranno i proverbiali rallentamenti, ma è lampante che
il doom degli inglesi si venga qui a tingere di nuove ed inedite sfumature:
colori progressive, accenni psichedelici ed acid/folk,
come insegnato dal folto stuolo di band più o meno underground che
compongono il background culturale ed artistico dei Nostri. Per
l'occasione la voce al vetriolo di Dorrian non è più quel rantolo vischioso (un
growl riprodotto al rallentatore?) che aveva incatramato le composizioni
dell'album precedente, ma si avvicina alla voce di un cantante
"normale", pur non perdendo la ruvidità e il piglio teatrale che la
distinguerà fra le mille voci nasali di "ozzyana" memoria che
inflazionano il genere. E in brani come "Fountain of Innocence"
(bislacca semi-ballad dagli imprevedibili cambi di rotta) ed "Imprisoned
in Flesh" (inaspettato gioiello acustico chiamato a chiudere le danze)
quella stessa voce (incredibile ma vero!) si farà persino carezzevole e
vellutata.
Voto:
8
"The
Carnivale Bizarre", 1995.
La
svolta intrapresa con "The Ethereal Mirror" si fa solida
certezza con questa terza superlativa prova che a ragion veduta potrebbe essere
vista come il capolavoro della maturità della band. Tutto funziona alla
perfezione in questa decina di brani al fulmicotone che sfoggiano il lato più
diretto e hard-rock della Cattedrale, sacrificando però quello più prog
e visionario (che invece sembrava dover prendere piede con il precedente EP
"Statik Majik", che annoverava in sé persino una suite
di oltre venti minuti, la "The Voyage of the Homeless Sapien"
di cui abbiamo già avuto occasione di parlare). "Vampire Sun",
il super-classico "Hopkins (The Witchfinder General)", "Utopian
Blaster" (con tanto di Tony Iommi a dare una mano), "The
Night of the Seagulls" e la title-track sono la più
fiera rappresentazione di questo nuovo corso, portato avanti con determinazione
da una line-up rivoluzionata per metà: accanto agli immancabili Dorrian
e Jennings (che, dietro consiglio di Iommi, si farà carico dell'intero lavoro
di chitarra), troviamo la travolgente base ritmica di Leo Smee (basso) e
Brian Dixon (batteria), che completano una formazione al top
della forma ed in stato di grazia compositiva.
Voto:
8,5
"Supernatural
Birth Machine", 1996.
Senza
sminuire la portata artistica dei Nostri, che non confezioneranno mai un album
al di sotto della sufficienza, potremmo affermare che il nocciolo della loro
carriera risiede nei primi tre album e che tutti quelli che seguiranno non
costituiranno altro che variazioni sul tema. Con "Supernatural Birth
Machine", forte di un concept fantascientifico (perché non solo
di horror si vive, se si è amanti della filmografia e della letteratura di
genere degli anni sessanta e settanta), i Nostri decidono di proseguire sulla
via tracciata dal brillante predecessore, indurendo ulteriormente i suoni, ma
battendo la fiacca in certi episodi che sembrano ricalcare senza eccessiva
fantasia i soliti schemi. Ma i fan della band non avranno certo da
lamentarsi con brani portentosi come "Cyclops Revolution",
l'orrorifico doom di "Nightmare Castle" e la formidabile
"Birth Machine 2000", che con il suo giro di basso sembra
voler mimare la celeberrima "Heaven and Hell", a dimostrazione
di come i Cathedral non sappiano, possano o vogliano uscire dal solco tracciato
dai padri Black Sabbath nella loro seminale carriera.
Voto:
7
"Caravan
Beyond Redemption", 1998.
A
completare una trilogia ideale iniziata con "The Carnival Bizarre"
ecco un altro album che ripropone le stesse caratteristiche dei due che l'hanno
proceduto: il solito inesauribile rifferama di Jennings si plasma fluidamente
sul compatto assetto ritmico allestito dagli inaffondabili Smith e Dixon,
mentre Dorrian continua a fare l'istrionico Caronte chiamato a traghettarci
lungo l'ennesimo folle viaggio firmato Cathedral. E’ semmai la formula a
battere la fiacca e a mostrarsi logora, tanto che in oltre settanta minuti, i
momenti memorabili si conteranno sulle dita di una mano: la travolgente opener
"Voodoo Fire" (con tanto di inserto tribale e coro di mortacci),
"The Caravan" (non altro che un interludio acustico) e "The
Omega Man", l'immancabile pezzo melodico che interrompe il tripudio
"stoner" (perché ormai di questo si parla) dei
"nuovi" Cathedral. C'è bisogno di un cambiamento.
Voto:
7
"Endtyme",
2001.
Il
cambiamento giunge ed assume le sembianze di un brusco ritorno al doom tout-court
delle origini. Aiutato dall'oscura copertina (per motivi di budget, non
realizzata dal fido Dave Patchett), l'album si impone come un minaccioso
monolite, tanto da meritarsi l'appellativo di "Forest of Equilibrium"
del nuovo millennio. Forse la magia degli esordi è irraggiungibile, ma il
lavoro rimane di pregevole fattura, con brani mediamente lunghi e lenti che
portano con sé un qualcosa di malsano che è proprio di tutte quelle realtà
dark/prog, dark/metal e doom che fanno da sempre parte del DNA degli inglesi.
La ballata cosmica "Astral Queen" (sullo stile di "Planet
Caravan", tanto per cambiare) apre uno spiraglio psichedelico in un
oscuro rituale fatto di tempi cadenzati e riff neri come la pece. Una
fiera riaffermazione di identità.
Voto:
7,5
"The
VIIth Coming", 2002.
Da
molti visto come un mezzo passo falso, questo settimo full-lenght
rappresenta in verità un buon mix di tendenze, ponendosi a metà strada
fra il mood catchy della "fase di mezzo" ("Resisting
the Ghosts") e l'affossante doom degli inizi ("Halo of Fire"),
senza dimenticare qualche guizzo melodico (la ballata "Aphrodite's
Winter"). Sarà inoltre un piacere rinvenire qua e là tracce di Celtic
Frost a rievocare una componente estrema che certo è stata di fondamentale
importanza nella formazione artistica di Dorrian e soci. E se l'ispirazione non
è alle stelle, nel complesso rimane un bel sentire.
Voto:
6,5
"The Garden of Uneartly Delights", 2005.
Dopo
un album vario e minato da qualche incertezza compositiva, i Cathedral decidono
di puntare nuovamente sul groove, confezionando una nuova schiera di
brani tosti e diretti, con Dixon a picchiare duro e i riff di Jennings a
spaccare le ossa come sempre. L'impressione, però, è che i quattro si siano
affidati più del solito al pilota automatico: del resto lo status di culto
e il rispetto acquisito negli anni permette loro di essere se stessi senza
tante complicazioni. E comunque, a dimostrazione che i Nostri non si sono certo
adagiati sugli allori, arriva sul finale "The Garden", mega-suite
di ventisei minuti, con all'interno inediti soluzioni folk (fra cui un
violino ed una leggiadra voce femminile): una traccia emblematica che
risolleverà, almeno nelle intenzioni, le sorti di un album che rischiava di
impantanarsi nelle solite soluzioni di sempre.
Voto:
7
"The
Guessing Game", 2010.
Questo
doppio-album rialza con decisione le quotazioni della band e si pone
come il perfetto compendio della carriera della band. Come in tutti gli album
doppi, qualcosa poteva essere cestinato, ma forse il fascino dell’operazione
risiede proprio nell'idea di raccogliere tutto quello che passava per la testa,
con risultati persino a tratti esaltanti, perché in questa foga libertaria la
fiamma dell'ispirazione sembra rianimarsi rispetto alle prove appena
precedenti. Ottantacinque minuti di musica e visioni fantastiche in cui
la multiforme natura della Cattedrale trova piena e completa
manifestazione: hard-rock, doom, prog, psichedelia, atmosfere vintage ed
ambientazioni da film horror di serie B, tutto filtrato dalla poetica
visionaria della band, che in questo maelstrom maledetto sa far
confluire tutte le sfumature di venti anni di carriera.
Voto:
8
"The
Last Spire", 2013.
Eccoci
al capitolo finale, pubblicato già quando lo scioglimento della band era
stato ufficialmente annunciato. Che dire, non potevamo desiderare commiato
migliore: il cerchio si chiude con un simbolico ritorno alle origini,
con un album così greve da trovare come unico termine di paragone
l'inarrivabile debutto, visto che anche il grigio "Endtyme"
impallidisce innanzi alla pesantezza di questo maestoso canto del cigno.
I Nostri (orfani di Leo Smee, sostituito per queste ultime registrazioni da Scott
Carlson) decidono di salutarci con quelle sonorità plumbee e funeree che
erano state la ragion d'essere del progetto nella sua genesi. Qua e là
sopravvivono spunti freak, ma il salto indietro compiuto è brusco e
brutale, riconducendo nuovamente la musica della band all’interno di un'epoca
in cui i Nostri dividevano il palco con brutti ceffi come Carcass, Entombed
e Confessor, e il loro doom flirtava ancora con il death metal (e
non a caso nell'album presenzierà anche Chris Reifert degli Autopsy).
Pachidermi sonori come "Tower of Silence" e "This
Body, Thy Tomb" sono monumenti doom con cui vorremo ricordare per
sempre questa unica ed inimitabile band, che ha deciso di ritirarsi appena in
tempo, prima di scolorirsi nell'inevitabile decadenza che trascina via tutte le
cose.
Voto:
8