"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

16 mar 2017

GUIDE RAPIDE PER CHI VA DI FRETTA: I CATHEDRAL




Sono un ragazzo prolisso, ma non amo assecondare questo mio difetto, semmai cerco di sfidarmi proprio su terreni a me ostili. Prendo dunque una delle band che più amo e mi getto in una dissertazione a rotta di collo, superficiale, o meglio, essenziale.

I Cathedral: tutti li conoscono, tutti li ballano! Ma ci sono i più giovani, ed anche i distratti, e poi parlare dei Cathedral non è mai tempo sprecato, tanto più che si sono sciolti e ci mancano tanto tanto tanto.

"Forest of Equilibrium", 1991.
Cosa vuol dire essere post-sabbathiani? Vuol dire non inventare nulla, non andare oltre il cerchio di fuoco tracciato da Iommi e compagni. Però, a guardar bene, in questo folgorante debutto i Nostri qualcosa di nuovo lo dissero per davvero: rallentare. Esagerare. Anche a costo di apparire grotteschi, e senza rinunciare ad una certa dose di humour nero e gusto per l’eccesso: aprendo di fatto nuove vie nel doom. I Cathedral degli inizi, infatti, possedevano una certa consapevolezza, un'ambizione concettuale, non accontentandosi del mero revival, ma proponendosi di essere i più estremi, nella pesantezza, nella lentezza. Cosa aspettarsi del resto da Lee Dorrian, che veniva dalla band metal più estrema del mondo, i Napalm Death? Un plauso inoltre al degno compare Garry “Gaz” Jennings, di professione chitarrista: una fucina inesauribile di riff. Ma "Forest of Equilibrium", più che brillare di questi due talenti, riluce di una attitudine: essere fottutamente doom, più di chiunque altro lo fosse stato fino ad allora, Candlemass, Pentagram o chi diavolo volete. Appena addolcita dalla variopinta e visionaria copertina in stile Hieronymus Bosch e dall'introduzione acustica con tanto di flauto traverso, l'opera è un macigno nel vero senso della parola. E se "Soul Sacrifice" si permette di durare nemmeno tre minuti, i rimanenti sono brani lunghi, lenti ed infestati da una spossatezza che mai si era udita prima. Di questi saggi di sublime afflizione esistenziale, tutti di altissimo livello, vorremmo ricordare perlomeno "Celebrating The Commiseration" ed "Ebony Tears", da annoverare fra i classici del doom metal tutto.  
Voto: 9

The Ethereal Mirror", 1993.
Varcato il Limite con l'impareggiabile opera prima, i Nostri fanno marcia indietro e si riappropriano degli umori freak di quella magica stagione del rock che aveva brillato fra la fine degli anni sessanta e gli inizi della decade successiva. Perché non solo di doom i Nostri, evidentemente, si sono cibati. Il sound rimane granitico, e lo dimostra il singolone "Midnight Mountain", adrenalinico e dotato di un groove di derivazione hard-rock sconosciuto fino ad allora alla formazione di Coventry. Certo, non mancheranno i proverbiali rallentamenti, ma è lampante che il doom degli inglesi si venga qui a tingere di nuove ed inedite sfumature: colori progressive, accenni psichedelici ed acid/folk, come insegnato dal folto stuolo di band più o meno underground che compongono il background culturale ed artistico dei Nostri. Per l'occasione la voce al vetriolo di Dorrian non è più quel rantolo vischioso (un growl riprodotto al rallentatore?) che aveva incatramato le composizioni dell'album precedente, ma si avvicina alla voce di un cantante "normale", pur non perdendo la ruvidità e il piglio teatrale che la distinguerà fra le mille voci nasali di "ozzyana" memoria che inflazionano il genere. E in brani come "Fountain of Innocence" (bislacca semi-ballad dagli imprevedibili cambi di rotta) ed "Imprisoned in Flesh" (inaspettato gioiello acustico chiamato a chiudere le danze) quella stessa voce (incredibile ma vero!) si farà persino carezzevole e vellutata.
Voto: 8

"The Carnivale Bizarre", 1995.
La svolta intrapresa con "The Ethereal Mirror" si fa solida certezza con questa terza superlativa prova che a ragion veduta potrebbe essere vista come il capolavoro della maturità della band. Tutto funziona alla perfezione in questa decina di brani al fulmicotone che sfoggiano il lato più diretto e hard-rock della Cattedrale, sacrificando però quello più prog e visionario (che invece sembrava dover prendere piede con il precedente EP "Statik Majik", che annoverava in sé persino una suite di oltre venti minuti, la "The Voyage of the Homeless Sapien" di cui abbiamo già avuto occasione di parlare). "Vampire Sun", il super-classico "Hopkins (The Witchfinder General)", "Utopian Blaster" (con tanto di Tony Iommi a dare una mano), "The Night of the Seagulls" e la title-track sono la più fiera rappresentazione di questo nuovo corso, portato avanti con determinazione da una line-up rivoluzionata per metà: accanto agli immancabili Dorrian e Jennings (che, dietro consiglio di Iommi, si farà carico dell'intero lavoro di chitarra), troviamo la travolgente base ritmica di Leo Smee (basso) e Brian Dixon (batteria), che completano una formazione al top della forma ed in stato di grazia compositiva.
Voto: 8,5

"Supernatural Birth Machine", 1996.
Senza sminuire la portata artistica dei Nostri, che non confezioneranno mai un album al di sotto della sufficienza, potremmo affermare che il nocciolo della loro carriera risiede nei primi tre album e che tutti quelli che seguiranno non costituiranno altro che variazioni sul tema. Con "Supernatural Birth Machine", forte di un concept fantascientifico (perché non solo di horror si vive, se si è amanti della filmografia e della letteratura di genere degli anni sessanta e settanta), i Nostri decidono di proseguire sulla via tracciata dal brillante predecessore, indurendo ulteriormente i suoni, ma battendo la fiacca in certi episodi che sembrano ricalcare senza eccessiva fantasia i soliti schemi. Ma i fan della band non avranno certo da lamentarsi con brani portentosi come "Cyclops Revolution", l'orrorifico doom di "Nightmare Castle" e la formidabile "Birth Machine 2000", che con il suo giro di basso sembra voler mimare la celeberrima "Heaven and Hell", a dimostrazione di come i Cathedral non sappiano, possano o vogliano uscire dal solco tracciato dai padri Black Sabbath nella loro seminale carriera.
Voto: 7

"Caravan Beyond Redemption", 1998.
A completare una trilogia ideale iniziata con "The Carnival Bizarre" ecco un altro album che ripropone le stesse caratteristiche dei due che l'hanno proceduto: il solito inesauribile rifferama di Jennings si plasma fluidamente sul compatto assetto ritmico allestito dagli inaffondabili Smith e Dixon, mentre Dorrian continua a fare l'istrionico Caronte chiamato a traghettarci lungo l'ennesimo folle viaggio firmato Cathedral. E’ semmai la formula a battere la fiacca e a mostrarsi logora, tanto che in oltre settanta minuti, i momenti memorabili si conteranno sulle dita di una mano: la travolgente opener "Voodoo Fire" (con tanto di inserto tribale e coro di mortacci), "The Caravan" (non altro che un interludio acustico) e "The Omega Man", l'immancabile pezzo melodico che interrompe il tripudio "stoner" (perché ormai di questo si parla) dei "nuovi" Cathedral. C'è bisogno di un cambiamento.
Voto: 7

"Endtyme", 2001.
Il cambiamento giunge ed assume le sembianze di un brusco ritorno al doom tout-court delle origini. Aiutato dall'oscura copertina (per motivi di budget, non realizzata dal fido Dave Patchett), l'album si impone come un minaccioso monolite, tanto da meritarsi l'appellativo di "Forest of Equilibrium" del nuovo millennio. Forse la magia degli esordi è irraggiungibile, ma il lavoro rimane di pregevole fattura, con brani mediamente lunghi e lenti che portano con sé un qualcosa di malsano che è proprio di tutte quelle realtà dark/prog, dark/metal e doom che fanno da sempre parte del DNA degli inglesi. La ballata cosmica "Astral Queen" (sullo stile di "Planet Caravan", tanto per cambiare) apre uno spiraglio psichedelico in un oscuro rituale fatto di tempi cadenzati e riff neri come la pece. Una fiera riaffermazione di identità.
Voto: 7,5

"The VIIth Coming", 2002.
Da molti visto come un mezzo passo falso, questo settimo full-lenght rappresenta in verità un buon mix di tendenze, ponendosi a metà strada fra il mood catchy della "fase di mezzo" ("Resisting the Ghosts") e l'affossante doom degli inizi ("Halo of Fire"), senza dimenticare qualche guizzo melodico (la ballata "Aphrodite's Winter"). Sarà inoltre un piacere rinvenire qua e là tracce di Celtic Frost a rievocare una componente estrema che certo è stata di fondamentale importanza nella formazione artistica di Dorrian e soci. E se l'ispirazione non è alle stelle, nel complesso rimane un bel sentire.
Voto: 6,5

"The Garden of Uneartly Delights", 2005.
Dopo un album vario e minato da qualche incertezza compositiva, i Cathedral decidono di puntare nuovamente sul groove, confezionando una nuova schiera di brani tosti e diretti, con Dixon a picchiare duro e i riff di Jennings a spaccare le ossa come sempre. L'impressione, però, è che i quattro si siano affidati più del solito al pilota automatico: del resto lo status di culto e il rispetto acquisito negli anni permette loro di essere se stessi senza tante complicazioni. E comunque, a dimostrazione che i Nostri non si sono certo adagiati sugli allori, arriva sul finale "The Garden", mega-suite di ventisei minuti, con all'interno inediti soluzioni folk (fra cui un violino ed una leggiadra voce femminile): una traccia emblematica che risolleverà, almeno nelle intenzioni, le sorti di un album che rischiava di impantanarsi nelle solite soluzioni di sempre.
Voto: 7

"The Guessing Game", 2010.
Questo doppio-album rialza con decisione le quotazioni della band e si pone come il perfetto compendio della carriera della band. Come in tutti gli album doppi, qualcosa poteva essere cestinato, ma forse il fascino dell’operazione risiede proprio nell'idea di raccogliere tutto quello che passava per la testa, con risultati persino a tratti esaltanti, perché in questa foga libertaria la fiamma dell'ispirazione sembra rianimarsi rispetto alle prove appena precedenti. Ottantacinque minuti di musica e visioni fantastiche in cui la multiforme natura della Cattedrale trova piena e completa manifestazione: hard-rock, doom, prog, psichedelia, atmosfere vintage ed ambientazioni da film horror di serie B, tutto filtrato dalla poetica visionaria della band, che in questo maelstrom maledetto sa far confluire tutte le sfumature di venti anni di carriera.
Voto: 8

"The Last Spire", 2013.
Eccoci al capitolo finale, pubblicato già quando lo scioglimento della band era stato ufficialmente annunciato. Che dire, non potevamo desiderare commiato migliore: il cerchio si chiude con un simbolico ritorno alle origini, con un album così greve da trovare come unico termine di paragone l'inarrivabile debutto, visto che anche il grigio "Endtyme" impallidisce innanzi alla pesantezza di questo maestoso canto del cigno. I Nostri (orfani di Leo Smee, sostituito per queste ultime registrazioni da Scott Carlson) decidono di salutarci con quelle sonorità plumbee e funeree che erano state la ragion d'essere del progetto nella sua genesi. Qua e là sopravvivono spunti freak, ma il salto indietro compiuto è brusco e brutale, riconducendo nuovamente la musica della band all’interno di un'epoca in cui i Nostri dividevano il palco con brutti ceffi come Carcass, Entombed e Confessor, e il loro doom flirtava ancora con il death metal (e non a caso nell'album presenzierà anche Chris Reifert degli Autopsy). Pachidermi sonori come "Tower of Silence" e "This Body, Thy Tomb" sono monumenti doom con cui vorremo ricordare per sempre questa unica ed inimitabile band, che ha deciso di ritirarsi appena in tempo, prima di scolorirsi nell'inevitabile decadenza che trascina via tutte le cose.
Voto: 8