I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL
INTERMEZZO I: “WE, THE GODS” (ANATHEMA)
Conclusa
la nostra rassegna sui migliori brani lunghi del metal classico,
ci apprestiamo dunque a compiere la medesima impresa in ambito
estremo: doom, black, tutti generi che del formato
XXL hanno saputo fare un uso sapiente. Ma prima di procedere
ci concediamo un momento di ristoro, andando ad analizzare tre
brani a nostro giudizio meritevoli, ma che per diversi motivi non
siamo riusciti ad includere nelle due classifiche ufficiali.
Apriamo
l'intermezzo con “We, The Gods” degli Anathema: un
brano che avrebbe meritato di presenziare ai piani alti della
classifica dei migliori dieci brani lunghi del metal estremo. Come
mai allora la releghiamo in questo limbo? Non per demeriti artistici,
ma per questioni prettamente metodologiche. Nell’anteprima,
infatti, avevamo dettato le regole ed era stato deciso come assunto
di base che i brani scelti avrebbero dovuto durare almeno dieci
minuti: un metro indispensabile per navigare ed orientarsi nel mare
magnum del metal. Ebbene, “We, The Gods” dura “solo” 9
minuti e 59 secondi: un fottuto secondo in meno rispetto al
minimo che ci siamo imposti. Sembra una beffa da giuria corrotta e
tendenziosa, ma invece si tratta proprio del contrario: la giuria è
in questo caso inflessibile, tanto inflessibile da escludere
impietosamente il brano per mancanza di un requisito necessario. Ma
Metal Mirror ha un cuore grande come il mondo intero ed è per
questo che abbiamo deciso di dedicare questo spazio agli Anathema ed alla loro "piccola lunga" "We, The Gods".
In
realtà avevamo già avuto modo di parlare della band inglese,
analizzando “Lights Out” degli Antimatter (progetto
del fuoriuscito bassista Duncan Patterson) e “Weather Systems” degli Anathema stessi. In entrambi i casi abbiamo
visto però quella parte della loro carriera che si è sviluppata
fuori dal Regno del Metallo, accennando solo brevemente ai
trascorsi doom/death che vedevano come elemento caratterizzante la
voce cavernosa di Darren White, il primo cantante della
formazione (poi sostituito da Vincent Cavanagh, promosso dalla
seconda chitarra al microfono).
Sappiamo
come è andata a finire: a partire da “The Silent Enigma”
la band si porterà progressivamente fuori dal metal, toccando
diverse fasi, per poi approdare al rock sofisticato dei giorni
nostri. I lavori con Darren White, tuttavia, non sono affatto
malvisti nell’ambiente ed un album come “Serenades”
rimane tutt'oggi da annoverare fra le pietre miliari di quel doom
dalle forti venature death che germogliò nelle brumose lande inglesi all'inizio degli anni novanta. L'ultimo lavoro con Darren in formazione
fu proprio “Pentecost III”, EP mastodontico dalla
durata superiore ai quaranta minuti (bonus-track inclusa).
Era il
1995: gli Anathema suonavano ancora indubbiamente doom, ma lo
facevano in maniera totalmente diversa dai compari Paradise Lost
e My Dying Bride, presentandosi con un suono grasso, sfumato,
illuminato continuamente dall’estro solistico di Daniel
Cavanagh, chitarrista/compositore sempre più attratto dalla
psichedelia visionaria dei Pink Floyd. Il sound
rimaneva indubbiamente “heavy”, pesante, ma già acquisiva quel
carattere di flusso emozionale che in seguuito sarebbe divenuto
centrale negli sviluppi del metal in direzione post.
Nella
classifica relativa al metal classico ci siamo imbattuti in suite
o in canzoni in versione ampliata, ma mai nella composizione che si sviluppa in modo incrementale lungo lo schema del crescendo emozionale.
Un qualcosa del genere, nel metal, lo iniziamo ad incontrare proprio
con gli Anathema di “Pentecost III”: in un mondo in cui il
post-rock strumentale dei Mogwai doveva ancora essere
inventato e il post-hardcore dei Neurosis non era stato
innalzato a genere, gli Anathema parlavano già un linguaggio che
potremmo definire “post”. Un sound maestoso che passava dagli
intrecci sublimi delle chitarre dei fratelli Cavanagh, dai rintocchi
melodici del basso del carismatico Duncan Patterson, dal
drumming rarefatto di
John Douglas. Ed ovviamente dalla poesia di Darren White.
Nel
corso della parte di rassegna dedicata al metal classico abbiamo incontrato
molti poeti: Omero, Dante, Coleridge. Il metal,
del resto, quando decide di fare le cose in grande, non si tira
indietro di fronte alla necessità di appellarsi alle autorità
letterarie più illustri. Eppure di poeti veri nel metal classico non
ne incontriamo molti, cosa che invece capita spesso, chissà perché,
nel mondo estremo. Uno di questi era proprio Darren White: se le
corde vocali del suo successore si dimostreranno più versatili, per
quanto riguarda i testi non c’è proprio confronto. White era un
poeta puro, intenso, romantico, di energica estrazione anticlericale
(il nome della band lo scelse non a caso proprio lui). Spesso i suoi
testi vertono sull’inaccettabilità della figura di Dio,
senza scadere mai nel “trucemente blasfemo”, bensì arricchendosi
di immagini suggestive, simboli, valenze spirituali, tutto
perfettamente integrato nei landscape sonori messi insieme dai
suoi compari: suggestivi sottofondi per il reading ispirato di
White, che in questa release si assestava
principalmente su un lacrimevole recitato, pur non rinunciando egli a
fare la voce grossa di tanto in tanto.
L’EP,
composto da cinque tracce, ne contiene tre decisamente lunghe, a
partire dalla bellissima opener “Kingdom” (9:31).
Ma il nostro riflettore è stato rivolto contro il terzo
brano, la già citata “We, The Gods”. Avete mai pianto
per una canzone? Ascoltare il brano in questione può essere un
buon banco di prova per testare la vostra tenuta emotiva!
Ad
aprire le danze troviamo il passo elefantiaco delle quattro corde di
Patterson, che all'epoca si ispirava principalmente alla
monumentalità dei Celtic Frost di “Into the
Pandemonium”. Sopraggiungono immediatamente le chitarre dei
fratelli Cavanagh, che si fondono in malinconici intrecci: un tappeto ideale per la
sofferente evocazione di Darren White, cantante ruvido, ma molto
espressivo.
In
“Pentecost III”, salvo qualche passaggio nella conclusiva
“Memento Mori”, vengono abbandonati gli ultimi retaggi
death, i quali lasciano il campo libero ad una ricerca melodica che
assume i contorni soffusi del sogno: da qui in poi i feedback, gli
strascichi di chitarra inizieranno ad aggrovigliarsi e fiorire in
quei tragici slow-motion che caratterizzeranno la fase di
mezzo della carriera degli inglesi. Tutta la prima parte di
“We, The Gods” si baserà sulle parole e sulle carezze vellutate
delle chitarre che le accompagnano.
Poi
tutto rallenta, la batteria sospende il suo tragico battito, tutto si
irrigidisce per un lunghissimo istante di tensione, quando, l'attimo successivo, un potentissimo riff impone la sua marcia trionfale,
cambiando il volto del brano ed aprendo di fatto la sua fase più
intensa. Le chitarre, dopo essersi compattate, si sciolgono
nuovamente in mille rivoli di lucente bellezza; il ticchettio della cassa incalzante spiana la via a White ed alle sue grida colme di ferocia e disperazione che irrompono liberatorie. Siamo noi gli Dei!
C'è un
senso di rivalsa in questa parte del brano, in cui tutta il
potenziale emotivo fino a quel momento trattenuto viene finalmente
sprigionato: è di nuovo violenza, riff rocciosi si affacciano
per poi turbinare nuovamente lungo lo scivolo delle emozioni, la
cassa incalza ancora, le chitarre si fondono in impasti struggenti,
ma la voce è assente. Negli Anathema di quel periodo il concetto di
assolo è anomalo: non vi era nei loro brani “il momento
dell'assolo”, in quanto le chitarre tessevano continuamente sinuose
trame melodiche.
Chiusa
questa fase, il brano assiste ad una nuova interruzione: è
nuovamente il basso di Patterson che, pachidermico, detta i tempi,
presto seguito dagli altri strumenti che convergono in un'inaspettata
coda epica che evoca dichiaratamente gli Iron Maiden (altra
influenza basilare per i primi Anathema): riff cavalcanti,
suoni corposi, il materializzarsi dell’oscuro recitato di White,
fino al degno finale.
Il 1995
rientrava in un periodo d’oro per il metal estremo, anni in cui il
black metal, il melodic death metal e il gothic metal vivevano la
loro fase di massimo splendore. Ma laddove, proprio in quell’anno,
i Paradise Lost di “Draconian Times” si
consacravano al formato canzone e i My Dying Bride di “The
Angel and the Dark River” lavoravano su un approccio tecnico
che ovviamente non sacrificava l’emotività, gli Anathema già
puntavano esclusivamente su quest’ultima. E lo facevano fuori dagli
schemi spigolosi e pragmatici del metal, con suoni caldi ed
avvolgenti, e strutture che assumevano le fattezze mutevoli ed
irregolari di un fiume in piena.
“We,
The Gods”, nel suo dispiegarsi, è semplicemente splendida, non
abbisognando di ritornelli, né, più in generale, di una tecnica
sopraffina. Essa non vive di chirurgici cambi di tempo à-la
My Dying Bride, né di refrain orecchiabili in stile Paradise
Lost: come le emozioni più spontanee ed istintive, “We, The Gods”
assume le forme vibranti ed imprevedibili di un vero e proprio stream
of consciousness.