14 nov 2022

GUIDE PRATICHE PER METALLARI: IL ROCK PROGRESSIVO ITALIANO




Non chiedetemi perché, ma tutto ad un tratto mi è venuta voglia di scrivere qualcosa sul rock italiano, un qualcosa come "i dieci migliori album di sempre del rock italiano" (risate in sottofondo), ma ho dovuto mettere a freno la mia urgenza comunicativa perché, approssimandomi al tema, mi sono presto reso conto che bisognava fare chiarezza onde evitare minestroni indigesti. 
 
Si è reso inevitabile, tanto per iniziare, dedicare un primo spazio al rock progressivo italiano, fenomeno che merita, per importanza e contenuti, una trattazione a parte. 
 
Di solito si tende ad individuare il momento d'oro del rock progressivo italiano nel periodo 1971-1977. Si avevano avute le prima avvisaglie negli anni appena precedenti: in area beat e psichedelia iniziarono infatti ad emergere le prime divagazioni dal formato canzone, le prime sbornie di tastiere e sintetizzatori, i primi concept album, pur in un contesto ancora legato alla dimensione pop: prima i New Trolls con "Senza orario senza bandiera" (1968), poi i Formula 3 con "Dies Irae" (1970), i Delirium con "Acqua dolce" (1971), i Giganti con "Terra in bocca - Poesia di un delitto" (1971), ed infine Le Orme con "Collage" (sempre del 1971), con cui per convezione si fa coincidere l'inizio ufficiale del movimento del rock progressivo in Italia. Il fenomeno avrebbe assunto presto contorni di assoluto rilievo, sia a livello di pubblico (certe band inglesi si sono ritrovate ad avere più ammiratori in Italia che in madrepatria) che a livello di produzione artistica (con musicisti eccezionali capaci di rivaleggiare con i colleghi di Oltre Manica). Accanto ai nomi noti si sarebbe sviluppato un sottobosco di band ed artisti figli di un fermento che in modo impetuoso sarebbe dilagato in tutti gli angoli della penisola: un numero impressionante di formazioni di assoluto valore fecero il loro ingresso in un affollatissimo mercato discografico, ma molte non ce la fecero, sfavorite da una industria discografica che andava a privilegiare altre estrinsecazioni della musica nostrana. Ecco dunque un mondo letteralmente sommerso in cui possono essere rinvenuti innumerevoli gioielli, molti di essi dimenticati, salvo poi essere rivalutati in anni successivi e divenuti oggetto di culto per addetti ai lavori e nerd del prog. 
 
Ma che peculiarità presentava il prog italiano? I punti di riferimento, quelli della scena britannica, rimanevano ben evidenti in produzioni che trovavano la loro originalità in una rilettura di quegli stessi stilemi in base alle specificità locali e territoriali. Inevitabile che i nostri musicisti propendessero per un approccio virtuoso e barocco (la nostra è pur sempre la terra di Vivaldi, Rossini, Verdi, Puccini) ed ancor più inevitabile che la loro musica confluisse in calde atmosfere mediterranee o divagasse in direzione jazz, folk e etnicismi assortiti. I testi venivano redatti prevalentemente in italiano ma rispetto ai canoni britannici mostravano una spiccata propensione allo scavo intimistico ed un maggiore radicamento nei temi dell'attualità, con frequenti sforamenti nella politica militante vera e propria. Ma per quanto suggestivi, poetici o anche impegnati fossero, spesso questi testi faticavano a calarsi nelle metriche richieste dal rock, fatta eccezione di casi isolati o di coloro che ricorrevano alle forme della canzone d'autore tanto in voga all'epoca (chi ha detto Battisti?). 

Più che altro, al prog italiano non sembrava piacere la chitarra elettrica. Se chiudo gli occhi e penso al passaggio idealtipico del nostro prog, penso ad un organo vorticoso, a fughe di pianoforte, ad un basso denso e puntuale che fa da contrappunto ad una vivace sezione ritmica, a voci efebiche che spuntano stentoree su tappeti di chitarra acustica e flauto traverso. Insomma, non è detto che il prog italico piaccia al primo colpo, e che tanto meno piaccia al metallaro. Per questo si è resa necessaria, da parte nostra, una trattazione bicefala del tema, con una selezione di dieci titoli che aiuti il neofita ad inquadrare l'argomento ed ulteriori dieci, invece, che abbiamo individuato appositamente per gli amici metallari
 
Dieci album per inquadrare il rock progressivo italiano: 
 
1) New Trolls - "Concerto grosso per i New Trolls" (1971) 
Quando diciamo che al prog italiano piace essere barocco non scherziamo: per farvi una idea buttate un orecchio su questo “concerto grosso” realizzato a “quattro mani” con il compositore argentino Luis Bacalov. Già noto per svariate colonne sonore, il maestro Bacalov inietta una bella dose di verve vivaldiana nel rock ruvido dei genovesi, fra i primi mover del movimento prog italico. Il concerto vero e proprio si sviluppa nei primi tre movimenti, sublime commistione fra orchestra e rock sulla falsa riga di quanto tentato dai Deep Purple qualche tempo prima (ma con risultati migliori, oserei dire, per la complessità con cui si vanno ad intersecare strumentazione classica ed elementi rock). Per il resto ci pensa la band da sola, prima con “Shadows (per Jimi Hendrix)”, un fumante assolo di chitarra di chiara ispirazione hendrixiana (non a caso dedicato al chitarrista, morto l’anno precedente), e poi con i venti minuti di improvvisazione di “Nella Sala Vuota”, ove tastiere e chitarre hard rock duellano ferocemente sorrette da una tempestosa sezione ritmica (ottimo, fra l'altro, l’assolo di batteria).
 
2) Premiata Forneria Marconi - "Storia di un minuto" (1972) 
Eccoci ad un’opera simbolo di una band simbolo del prog nostrano, quella che più di tutte è riuscita ad accattivarsi consensi anche al di fuori dei confini nazionali. E non poteva mancare il brano simbolo, quella “Impressioni di Settembre” (testo di Mogol) caratterizzata da un giro di moog a dir poco leggendario. Non è da meno il resto dell’opera, impregnata di una struggente emotività e caratterizzata da continui cambi di atmosfera (dal folk alla musica classica passando per suggestioni medievaleggianti). Vengono in mente i Genesis e i primi King Crimson, ma c'è da riconoscere alla band la capacità di esprimere in modo palese una forte personalità. Punti di forza sono un innato talento melodico ed una perizia tecnica di alto livello che permette di ammaestrare, con tocco gentile e vivace, lunghe porzioni strumentali. Ad animare il tutto, un concept esistenziale che intende descrivere la vita di un uomo nell’arco di una giornata. Per chi volesse approfondire, "Per un amico" (sempre del '72) e "L'isola di niente" (1974) sono altri due tomi imperdibili.  
 
3) Quella Vecchia Locanda - "Quella Vecchia Locanda" (1972) 
Altro nome storico del panorama prog italiano, i romani Quella Vecchia Locanda mettono a punto un sound che vede come peculiarità il ruolo significativo di violino elettrico e flauto, richiamando alla mente da un lato le derive folk di band come primi Genesis e Gentle Giant e, dall’altro, l'estro di Ian Anderson dei Jethro Tull. Il loro omonimo debutto è un concept che vede al suo centro il viaggio, l’idea di cambiare vita e gettarsi coraggiosamente nell’ignoto: un tema molto caro ai giovani dell’epoca e che rispecchia in pieno il sound vivace e libertario che il sestetto mette a punto per il proprio brillante esordio. Un suono coinvolgente che vede convivere momenti sinfonici, fiabeschi ed altri più duri ed arcigni, il tutto condito da una narrazione enfatica che prende spunto dall’opera di Verdi. Con solo due album all'attivo (due anni dopo sarebbe uscito "Il Tempo della Gioia") la band deciderà tuttavia di sciogliersi, scoraggiata dagli scarsi riscontri di vendite e critica.   
 
4) Il Balletto di Bronzo - "Ys" (1972) 
La storia de Il Balletto di Bronzo si era originata a Napoli alla fine degli anni sessanta all’insegna del beat, ma è con il secondo album “Ys” e soprattutto con l’ingresso del tastierista Gianni Leone che si compie, in modo convincentissimo, la svolta prog con un concept fantascientifico che racconta la storia dell’ultimo uomo sulla terra. La vicenda si sviluppa attraverso cinque movimenti (una introduzione, tre “incontri” ed un epilogo) che offrono un sound fiero ed epico che prosegue baldanzoso lungo i solchi tracciati dagli Emerson, Lake & Palmer. L’approccio è infatti emersoniano con un uso violento delle tastiere, sospese fra classicismi e sperimentazioni al limite del cacofonico. Il concept apocalittico esige anche toni dark e forse questo insieme di cose sancì di lì a poco lo scioglimento della formazione, che invero rimane una delle rappresentazioni più geniali ed irriverenti dell’epopea del prog italiano. 
 
5) Osanna - "Palepoli" (1972) 
Altro giro altro concept, questo volta un accorato j'accuse contro i brutali processi di urbanizzazione/disumanizzante che scuotevano all'epoca molti tessuti urbani del territorio italico. Al centro del tutto troviamo Napoli, base operativa del geniale quintetto: si guarda dunque al passato, ma abbracciando le correnti politiche antisistema del periodo. L’ambizione dell’operazione stava principalmente nel coniugare musica e teatro con una serie di spettacoli che prevedevano la presenza di attori e ballerini, cosa che – si dice – abbia avuto una influenza sulle future propensioni teatrali dei Genesis. Musicalmente parlando si hanno tre movimenti che vedono la copulazione selvaggia fra generi differenti con intrusioni frequenti da parte di jazz, blues e folclore meridionale a riscaldare un impianto hard-prog che mette in luce le eccelse capacità tecniche dei partenopei ed in particolare il ruolo dei fiati, centrali nel suono degli Osanna (una caratteristica in comune con i conterranei ed altrettanto fondamentali Napoli Centrale, più spostati sul versante jazz). 
 
6) Banco Del Mutuo Soccorso - "Darwin!" (1972) 
Premiata Forneria Marconi, Le Orme e Banco del Mutuo Soccorso compongono la sacra triade del prog italiano. Forti di un debutto con i fiocchi (l’omonimo “Banco del Mutuo Soccorso”) i romani ci riprovano pochi mesi dopo con il capolavoro “Darwin!”, un ambizioso concept che intende narrare le origini dell’uomo sul nostro pianeta, rifacendosi ovviamente alle teorie evoluzioniste, ma con forti implicazioni sulla sfera del sociale e dell’attualità. La forza dell’album sta nella perfetta compenetrazione fra musiche e testi, ma i pregi di “Darwin!” non stanno solamente nell'impianto concettuale, ma anche nella assoluta maestria dei musicisti (fra i più virtuosi dell’intero panorama italiano e non), abili nel domare passaggi strumentali intricatissimi ma sempre dotati di senso, sia da un punto di vista armonico che strutturale. Insomma, un’opera ambiziosa sotto tutti i profili che con grande equilibrio sa accostare tessiture intricate (le tastiere – a questo giro persino due – sempre sugli scudi) a momenti più quieti, folkish e densi di lirismo. Degno di menzione anche il capolavoro dell’anno successivo “Io sono nato libero”, ulteriore conferma dello stato di grazia dell'ensemble capitolino. 
 
7) Le Orme - "Felona e Sorona" (1973) 
Abbiamo menzionato Le Orme in apertura citando la loro opera seconda “Collage” (1971), da molti ritenuta l’avvio ufficiale della stagione del prog italiano. Sarebbe seguito il successo commerciale con “Uomo di Pezza” (1972), altro gran lavoro, mentre ai fini della nostra dissertazione optiamo per “Felona e Sorona”, da ritenere il capolavoro formale della band (tanto che in seguito ne venne fatta una versione in inglese, con tanto di testi curati da Peter Hammill dei Van der Graaf Generator). E proprio ai Van Der Graaf Generator più romantici e visionari guardano i veneti per il loro concept allegorico ove si raccontano le vicende di due pianteti, Felona e Sorona appunto, che, uno immerso nella luce, l’altro nelle tenebre, l’uno pervaso di gioia, l’altro sprofondato nella tristezza, ignorano la reciproca esistenza, salvo incontrarsi per un magico attimo. Il tutto reso da un’unica suite divisa in nove movimenti che si sviluppano in un continuo saliscendi emotivo dove le tastiere dominano in modo assoluto e la fragile voce di Aldo Tagliapietra fa loro da contraltare, innestando una commovente vena melodica ed introspettiva entro maestose architetture sonore degne degli Emerson, Lake & Palmer.
 
8) Area - "Arbeit Macht Frei" (1973) 
Da molti considerato uno dei migliori album di sempre mai uscito in ambito rock entro i confini italiani, “Arbeit Macht Frei” è il folgorante debutto degli Area, ensamble di extraterrestri che portò sulla terra una prodigiosa fusione fra rock ed avanguardia, facendo leva su capacità tecniche fuori dal comune e il carisma del mai troppo compianto Demetrio Stratos, da indicare fra le ugole più prodigiose di sempre, in ambito rock (e non solo), e la cui voce prodigiosa è da considerare uno strumento fra gli altri strumenti. Si possono tracciare delle analogie con i Soft Machine, e più in generale, con la scena di Canterbury, ma il sound della band è personalissimo: uno sfavillante meticciato fra jazz, musica etnica ed arrembante rock progressivo che mette in contatto mondi lontani (dal Medioriente ai Balcani passando per il Mediterraneo) e si fa portatore di un messaggio politico rivoluzionario, anticapitalistico, antiborghese, volto a scuotere le coscienze, in linea con lo spirito della contro-cultura italiana di inizio anni settanta. Musica militante, quindi, con una missione etica ma che non si ferma al messaggio lirico, ma anzi lo incarna con tutte le proprie forze nell'incontro-scontro di musicisti straordinari che prediligono, su tutto, l’impeto dell’improvvisazione.  
 
9) Arti e Mestieri - "Tilt (Immagini per un orecchio)" (1974) 
Si rimane in territori jazz-rock con una band che possiamo definire di seconda generazione, visto che i torinesi giungono al loro debutto solo nel 1974, quando il movimento progressivo italiano aveva già dato tantissimo fra il '71 e il '73. Ma gli Arti e Mestieri, formati da musicisti navigati e con alle spalle esperienze significative, esordiscono con grande maturità, incarnando alla perfezione l’evoluzione del rock progressivo in direzione jazz. I Soft Machine potrebbero essere ancora una volta un valido punto di riferimento, ma quelli meno dadaisti, surreali e figli della penna di Robert Wyatt. I torinesi viaggiano con grande maestria ed eleganza, intersecando sontuose partiture prog a fiati e tempi dispari che tracimano continuamente in territori jazz, in un impianto che, se non fosse per un paio di brevi interventi vocali, potremmo definire strumentale. Si è anche parlato nei loro confronti di jazz sinfonico, perché contrariamente agli Area, più vicini all’avanguardia, alla contaminazione di suoni ed alla provocazione tout court, gli Arti e Mestieri hanno la pomposità e i toni aristocratici di una grande orchestra jazz, cosa che non lede, ma anzi rende fluida, una indiscussa vocazione per la sperimentazione sonora più ardua, con grandi intuizioni melodiche ed arrangiamenti super-curati ad addolcire la pillola. 
 
10) Locanda delle Fate - "Forse le lucciole non si amano più" (1977) 
Questo album, alquanto lezioso e spesso tacciato di manierismo, è in genere considerato il canto del cigno del prog italiano. “Forse le lucciole non si amano più” innova poco, indugia sul gusto degli arrangiamenti e su melodie ad alto tasso di glicemia che potrebbero disturbare un certo tipo di pubblico, ma è anche un’opera matura, consapevole ed intrisa di una malinconia che si tinge di nostalgia in un momento in cui l’intero movimento si incamminava lungo la via del tramonto, funestato dalle tendenze musicali del periodo (punk in primis). Forse gli Yes più magniloquenti possono essere presi come ideale paragone, ma il suono degli astigiani si basa principalmente sulle evoluzioni di pianoforte e tastiere, incalzate da una fantasiosa sezione ritmica e dalla voce roca di Leonardo Sasso, dispensatore di visioni sospese fra sogno e realtà, illusione e disillusione: la perfetta colonna sonora per descrivere la fine di un’epoca...
 
Ulteriori ascolti consigliati: Raccomandata Ricevuta di Ritorno, "Per....un mondo di cristallo" (1972); Jumbo, "Vietato ai minori di 18 anni?" (1973); Perigeo, "Abbiamo tutti un blues da piangere" (1973); Opus Avantra, "Introspezione" (1974); Pierrotte Lunaire, "Pierrotte Lunaire" (1974), Napoli Centrale, "Napoli Centrale" (1975); Il Volo, "Essere o non Essere?" (1975); Picchio dal Pozzo, "Picchio dal Pozzo" (1976), Corte dei Miracoli, "Corte dei Miracoli" (1976), Latte e Miele, "Aquile e scoiattoli" (1976); Stormy Six, "L'apprendista" (1977). Da segnalare anche due autori come Franco Battiato, che all'origine della sua carriera dava alle stampe due geniali bozzetti di experimental-rock come "Fetus" (1972) e "Pollution" (1973), e Lucio Battisti, che con il celebre "Anima latina" (1974) avrebbe coraggiosamente preso le distanze dal formato canzone grazie al quale era divenuto un interprete di indubbio successo. 
 
Dieci album di prog italiano per gli amici metallari
 
1) Alan Sorrenti - "Aria" (1972) 
Molti associano il nome di Alan Sorrenti all’hit danceFigli delle stelle”, ma non tutti sanno che il cantante (di padre napoletano e madre gallese, per questo cresciuto nel Galles) vanta un passato di tutto rispetto nel rock progressivo, con almeno un paio di album clamorosi: il debut Aria” e il successivo “Come un vecchio incensiere all’alba di un viaggio deserto” (1973). In “Aria” il Nostro si impone sulla scena con una interpretazione vocale da brividi che sa mettere insieme il virtuosismo di Tim Buckley e l’espressività affranta di Peter Hammill. Nei fantasmagorici venti minuti della title-track accade di tutto. Il brano si presenta alle orecchie dell'ascoltatore come un impetuoso viaggio psichedelico, basandosi sull’intreccio fatale di chitarra acustica, violino, percussioni e la voce di Sorrenti che svetta su tutto ad altezze vertiginose: un falsetto poderoso, il suo, che ammantava di toni metafisici una musica dalla vocazione indubbiamente visionaria, e che successivamente sarebbe divenuto l'orpello stucchevole di certa disco music da alta classifica, alla quale il nome di Sorrenti sarebbe rimasto legato nell'immaginario collettivo. 
 
2) Jacula - "Tardo pede in magiam versus" (1972) 
Totalmente avulsa dagli umori del proprio tempo, la visione artistica di Antonio Bartoccetti affonda le grinfie nell’occulto, assumendo la forma di un dark-progressive dalle forti tinte metafisiche. Il progetto aveva discograficamente debuttato nel 1969 con “In cauda semper stat venenum”, la cui versione originale oggi è introvabile e quella rimasterizzata desta più di un sospetto per una serie di presunte sovra-incisioni effettuate successivamente sui nastri originali. Volgiamo quindi lo sguardo al secondo lavoro, che perseverava in una lettura estremamente personale del rock progressivo. Pressoché assente la sezione ritmica (e a questo giro anche la chitarra elettrica!), il sound di "Tardo pede in magiam versus" si basa principalmente sulle solenni movenze di un organo da chiesa funestato da invocazioni in latino e mesti recitati femminili (con la sola eccezione della opener "U.F.D.E.M", che possiamo definire l'unico brano propriamente rock del lotto, animato da un messaggio ecologista indubbiamente avanti con i tempi). Prog più nello spirito di ricerca e sperimentazione che nella forma, quella dei Jacula rimane una esperienza destinata al fallimento commerciale, ma dalle cui ceneri emergeranno i più fortunati Antonius Rex a portare avanti la missione artistico-esoterica del suo deus ex machina Bartoccetti.  
 
3) Metamorfosi - "Inferno" (1973) 
Dall’organo dei Jacula passiamo all’organo che introduce “Inferno”, opera seconda dei romani Metamorfosi e primo capitolo di una trilogia che, ahimè, avrebbe trovato compimento molti anni dopo con la reunion della band (che si sarebbe sciolta all’indomani dell'uscita dell'album). Come suggerito dal titolo, la prima cantica della Divina Commedia è al centro di un concept, che in verità si mostra più attuale che mai aggiornando l’Inferno dantesco e ricollegandolo ai mali della società del periodo. La musica si sviluppa nella dialettica virtuosa fra tastiere ed organo hammond da un lato (prodezze che ricordano da vicino un certo Emerson) e il canto teatrale di Davide “Jimmy” Spilateri, vera marcia in più per la formazione capitolina. Per gli amanti del timpano rovente non mancheranno misurati ma significativi interventi di sferragliante chitarra kincrimsoniana a rendere ancora più epico e minaccioso il sound maestoso della band. 
 
4) Museo Rosenbach - "Zarathustra" (1973) 
Finalmente le chitarre - parte prima. Si è detto che il prog italiano non si caratterizza certo per la presenza ingombrante della chitarra elettrica, cosa che però non si può dire per questo gioiello oscuro del prog italiano: un lavoro anomalo ma che tuttavia potrebbe presenziare benissimo nella top-ten che abbiamo sopra riportato. Preferiamo includere qui "Zarathustra" per il tiro hard-rock e per la spiccata vena sinfonica che non dispiacerà agli amanti di certo symphonic gothic metal di molti anni dopo. Insomma, fan degli Arcturus fatevi sotto e gettatevi nell’ascolto di questo capolavoro baciato da passaggi drammatici, chitarre taglienti, ritmiche impetuose e la voce calda e ruggente di Stefano “Lupo” Galifi, anch'egli una anomalia, considerato il suo stile più vicino al blues che al rock. Il concept nietzscheiano avrebbe tuttavia portato sfortuna alla band, presto tacciata di propensioni destroidi (in un periodo in cui in Italia il rock e il cantautorato impegnato andavano in tutt'altra direzione), quando invece la band si definiva apolitica. La scelta di trattare il “Così parlò Zarathustra” fu infatti dettata dalla esigenza artistica di supportare, a livello lirico, le atmosfere oniriche di cui si ammantavano i brani dell'album (composto da una incredibile suite di venti minuti divisa in cinque parti più tre brani canonici), ma purtroppo, una volta bollata dalla opinione pubblica, non c'è stato più nulla da fare per la formazione genovese, salvo poi riformarsi molti anni dopo, come spesso è successo alle band più sfortunate del movimento prog nostrano. 
 
5) Il Rovescio della Medaglia - "Contaminazione" (1973) 
Con il terzo album i romani Il Rovescio della Medaglia fanno centro e consegnano alla storia il loro capolavoro, da indicare senza se e senza ma fra le migliori estrinsecazioni del rock italiano. In un concept in cui si narrano le gesta di un compositore scozzese del ‘700 che si crede di essere la reincarnazione del ventunesimo figlio di Bach è evidente il tocco del compositore classico Enriquez Bacalov che abbiamo già conosciuto con i New Trolls. La forza del platter sta infatti, anche questa volta, nella compenetrazione fra musica classica e rock: un connubio che viene supportato da una tecnologia all’avanguardia, suoni potenti ed arrangiamenti raffinatissimi. L’opera si evolve e muta in modo fluido, come una lunga suite divisa in tredici movimenti dove non dimora la noia, anzi, l’ascoltatore si troverà schiacciato da una opprimente tensione che anima brani dinamici e ricchi di colpi di scena. I Nostri godranno di un discreto successo anche all'estero ed in particolare in Giappone, a dimostrazione di come le nostre band abbiano riscosso apprezzamenti anche al di fuori dei confini italiani.
 
6) Alphataurus - "Alphataurus" (1973) 
Gli Alphataurus sono un’altra - l’ennesima - band progressiva italiana che si è sciolta dopo aver rilasciato solo un album, per poi riformarsi in anni successivi. Ma a scapito degli scarsi riscontri commerciali, i milanesi sono autori di un album di esordio che, a parere di chi scrive, è da additare fra i vertici dell’epopea del rock progressivo nazionale (e non). L’ascolto spiazza continuamente, elargendo una dopo l’altra soluzioni che compongono un mosaico tanto vario quanto coerente. Dall’approccio tastieristico in stile EL&P a passaggi che (a mio modesto parere) sfociano nel kraut più allucinogeno, passando per arrembaggi di chitarra elettrica che evocano tanto i King Crismon quanto gruppi più tipicamente hard rock, tutto "Alphataurus" sembra essere, in definitiva, concepito per stuzzicare la sfera emotiva dell'ascoltatore. Il range espressivo dei nostri passa in rassegna diversi tipi di umori, dalla disperazione alla speranza, complice un concept esistenziale che descrive, attraverso cinque avvincenti brani, il faticoso percorso di rinascita di un uomo colpito da eventi nefasti (e in questo possono venire in mente certe ambientazioni care ai Fates Warning e a molti altri gruppi prog-metal). 
 
7) Pholas Dactylus – “Concerto delle menti” (1973) 
Altro giro altro flop commerciale, ma qui le ragioni dello scarso appeal nei confronti del pubblico sono evidenti: “Concerto delle menti” è un album assurdo che si distacca nettamente dal resto della scena progressiva italiana. La band lombarda è autrice di un ardito esperimento che intende mettere insieme musica e teatro, e il risultato è qualcosa di unico nel suo genere: l'album, infatti, si caratterizza per i versi declamati con enfasi da Paolo Carelli mentre sullo sfondo si alternano frammenti rock, bozzetti jazz e slanci di avanguardia minimalista. Il monologo di Carelli, più attore che cantante, più profeta che poeta, delinea scenari a dir poco apocalittici, intrisi di una narrativa criptica e visionaria che non può non colpire l’ascoltatore. Irrequieti movimenti di tastiere, scoppi di drumming intricato, affilati riff di chitarra creano un clima destabilizzante che si divide tra fasi di quiete apparente e momenti di improvviso caos: soundscape che generano visioni assurde e che spesso si allineano in modo didascalico alle parole, senza risparmiare quei virtuosismi che richiamano in causa il rock progressivo. 
 
8) Campo di Marte - "Campo di Marte" (1973) 
Campo di Marte” è un manifesto antibellico diviso in sette “tempi” che, paradossalmente, si fa infestare dal demone della guerra: il nemico che la band ferocemente intende attaccare. L’opera, musicalmente parlando, si rivela essere un riuscito mix fra diversi elementi, fra parti aggressive, parentesi bucoliche e grandeur sinfonico (centrale, come al solito, il ruolo di tastiere ed organo). I fiorentini probabilmente non realizzano il prodotto più originale che il panorama prog italiano abbia saputo offrire, ma il loro debutto (nonché unico album rilasciato) funziona e ha tutte le carte in regola per intrattenere l’amico metallaro in cerca di ambientazioni epiche, passaggi di grande pathos (evidenti le influenze morriconiane) e momenti più tirati (un plauso alle grintose sei corde, spesso prodighe in un riffing tipicamente hard rock). 
 
9) Biglietto per l'Inferno - "Biglietto per l'Inferno" (1974) 
Finalmente le chitarre - parte seconda. I Biglietto per l’Inferno avrebbero potuto presenziare nella lista di nomi più significativi del prog italico, ma noi preferiamo tenerceli stretti qua sotto perché fra tutte è la band che sa mostrare una maggiore disinvoltura nel confrontarsi con gli stilemi dell’hard-rock. Vengono in mente a più riprese gli Uriah Heep, vuoi per il riffing granitico della chitarra, vuoi per l'uso dei cori. A proposito di voce, come non menzionare quella di Claudio Canali, paroliere sopraffino ed ugola affilata, certamente fra le figure più carismatiche della scena (denominato “la voce del diavolo”, molti anni dopo si sarebbe fatto monaco benedettino). Fra invettive contro le autorità religiose, mal di vivere giovanile e fragile intimismo, la formazione di Lecco assesta un duro colpo allo stomaco dell’ascoltatore dell’epoca e non ci stupiamo del fatto che il loro debutto sia rimasto anche l’unico album rilasciato, visto che la band si sarebbe presto dissolta (salvo poi riformarsi molti anni dopo, ma in modo parziale e senza ripetere i fasti del magico debutto). 
 
10) Goblin - "Profondo Rosso" (1975) 
La nostra rassegna non poteva che concludersi con i grandissimi Goblin, celebri per le colonne sonore realizzate per i film di Dario Argento e per questo divenuti maestri indiscussi delle ambientazioni horror riversate in musica. “Profondo Rosso” (ed in particolare la title-track con il suo celebre giro di tastiere) mette in risalto la capacità della band di realizzare visioni sonore a dir poco terrorizzanti: un brivido che continua a correre sulla pelle anche al di fuori della sala cinematografica (a dimostrazione di come questa musica funzioni anche dissociata dalle immagini dei film). Molto del merito va alle tastiere del geniale Claudio Simonetti, ideale discepolo di Keith Emerson (anche se le sue intuizioni migliori provengono dalle note introduttive della "Tubular Bells" di Mike Oldfield, non a caso impiegata, qualche anno prima, come tema portante della colonna sonora de “L’Esorcista). Ma non sono da trascurare i ricami della chitarra ed una irrequieta sezione ritmica che aggiungono morbosità ad una visione artistica che sembra la rappresentazione in musica di un incubo.

Concludiamo con due menzioni speciali: due album di band che, sospese fra progressive e hard-rock, sono forse più protese verso il secondo. Il primo è "Frontiera", debutto dei torinesi Procession, anno 1972. Più che prog i Nostri sembrano proto-metal, forti di una formazione a cinque con ben due chitarre che si sentono tutte: il riffing è micidiale e gli assoli sono a dir poco fulminanti, un muro di suono dal tiro sabbathiano (cosa insolita per l'Italia del periodo) sconquassato da un drumming terremotante e cavalcato da un canto tagliente ed incisivo. Se si è soliti ricondurli al movimento prog è per una tecnica esecutiva superiore alla media, per strutture dei brani articolate, per frequenti interventi di chitarra acustica a smussare gli angoli più acuminati e per un concept impegnato che si incentra sui temi (anch'essi insoliti) dell'emigrazione e della integrazione. Il secondo album di cui vogliamo parlarvi è "Canti di innocenza, canti di esperienza", rilasciato  nel 1973: si tratta del frutto della scissione avvenuta in seno alla formazione originaria dei New Trolls. Se il marchio rimase in mano a Vittorio De Scalzi, l'altro troncone di band prese il nome di Ibis, immettendo sul mercato quello che sarebbe dovuto essere il nuovo album dei New Trolls. Come nel caso dei Procession, ci troviamo ai cospetti di una band hard-rock a tutti gli effetti. Qui il sound si incentra sull'indomita chitarra hendrixiana di Nico Di Palo e viene reso progressivo dai frequenti interventi di tastiera e pianoforte, con qualche rigurgito beat ad addolcire il tutto. Altro lavoro molto valido e caldamente consigliato ai nostri amici metallari...  

(Vai a vedere le altre guide pratiche per metallari)