Chi ci legge abitualmente sa che amiamo spesso camminare lungo e oltre i confini del Reame del Metallo: a noi le nette separazioni non piacciono, per noi il metal, certamente, è un macro-mondo dotato dei suoi innegabili tratti distintivi, ma anche un organismo che in modo fluido si integra con altri sistemi in un quadro più ampio. Da qui, senz’altro, passa anche la nostra passione per artisti che non sono certo da reclutare nelle Armate del Metallo, ma che per tutta una serie di ragioni possono andare incontro a certe esigenze del metallaro: quel metallaro che ovviamente non vede la propria passione per il suo genere preferito come un atto di fede incondizionato, bensì come un percorso di conoscenza, piacere ed arricchimento che può toccare tappe anche non preventivate.
Non definirei i King Crimson una mappa così fuori dal tracciato, non solo per la popolarità della band che, considerata fra gli esponenti più importanti del progressive rock, ha sicuramente incrociato il cammino dell’appassionato di prog-metal, ma anche per la pubblicità fatta da parte di artisti “nostrani” (e di tutto rispetto) come Voivod e Tool. Con oggi vogliamo offrire una guida pratica ai metal-head che non hanno ancora avuto modo di addentrarsi nella discografia dei King Crimson ed approfondirla. Benvenuti quindi nella Corte del Re Cremisi!
Per permettere al neofita di orientarsi, diremo subito che la carriera cinquantennale dei King Crimson (ma segnata da soli dodici full-lengh) è suddivisibile in tre macro-sezioni che noi denomineremo molto semplicemente: 1) dalle origini alla fine degli anni settanta; 2) gli anni ottanta; 3) dagli anni novanta ai giorni nostri. Per motivi che presto scoprirete, il nostro interesse si soffermerà principalmente sulla prima fase, non solo quella più feconda creativamente e storicamente importante, ma anche quella che può più facilmente incontrare il gradimento del metallaro.
Senza perdersi in contestualizzazioni storiche troppo articolate, ci basti dire che i King Crimson esordirono con il botto, in quanto il loro primo album “In the Court of the Crimson King” (anno 1969) è comunemente considerato il loro capolavoro, nonché l’opera che ha dato l’avvio alla felice stagione del rock progressivo (certi vedono nei Nice la prima vera incarnazione di questo genere, ma sono questioni di lana caprina che non intendiamo assecondare).
Quello che i King Crimson fecero, guidati dal geniale chitarrista Robert Fripp (destinato a rimanere nel corso degli anni il leader indiscusso, nonché l’unico membro stabile di una mutevole formazione) fu di ampliare, anzi superare, il concetto tradizionale di “canzone rock”, utilizzando elementi di jazz e musica classica, il tutto incorniciato da un indomito spirito di ricerca, attenzione per le nuove tecnologie, cura dei suoni ed ovviamente perizia tecnica. Nascevano dunque le suite infinite che, tramite l’impiego di strumenti non comunemente associati ad un ensemble rock (come fiati, tastiere e quello stesso mellotron che i King Crimson contribuirono a sdoganare) espandevano i confini del rock. E il rock, grazie al progressive, in un certo senso, usciva dalla sua condizione di irascibilità giovanile (presupposto da cui si era originato) per divenire finalmente maturo e pienamente consapevole delle proprie potenzialità.
Attenzione però, la chitarra di Fripp graffiava, eccome, e non è un caso che l’irruente opener “21st Century Schizoid Man”, sorretta da un riff a dir poco granitico, può essere vista a tutti gli effetti come un brano metal, forse il primo brano metal della storia, se non ci fossero le fughe di fiati e i tempi jazzati a confondere le idee. Non vi è da escludere che gli stessi Black Sabbath (che avrebbero debuttato l'anno successivo) si siano lasciati influenzare dalla potenza di questo brano, che nel corso dei decenni successivi sarebbe stato rivisitato da una miriade di band metal, dai Forbidden agli Entombed, dai Voivod agli Shining. A dimostrazione che l'embrione del metal si sviluppava già alla fine degli anni sessanta, non solo come frutto dell'indurimento dei suoni, ma anche come atto di avanguardia da parte di arditi sperimentatori che intendevano oltrepassare i confini del rock.
Le altre quattro tracce dell’album preferiranno adagiarsi su toni più pacati ed atmosfere fiabesche (significativo il contributo del paroliere visionario Peter Sinfield), ma anche in questo caso il metallaro non rimarrà indifferente: basti citare due leggendarie ballate come “Epitaph” e “The Court of the Crimson King”, drammatiche quanto epiche, saggi sopraffini di ricerca melodica e struggente emotività. Roba da far venire l'acquolina in bocca ai cultori di epic-metal e prog-metal, ovviamente. Ma al di là dei gusti e del background di provenienza, chiunque voglia approcciarsi alla musica dei King Crimson, dovrà necessariamente partire da qui.
Le altre quattro tracce dell’album preferiranno adagiarsi su toni più pacati ed atmosfere fiabesche (significativo il contributo del paroliere visionario Peter Sinfield), ma anche in questo caso il metallaro non rimarrà indifferente: basti citare due leggendarie ballate come “Epitaph” e “The Court of the Crimson King”, drammatiche quanto epiche, saggi sopraffini di ricerca melodica e struggente emotività. Roba da far venire l'acquolina in bocca ai cultori di epic-metal e prog-metal, ovviamente. Ma al di là dei gusti e del background di provenienza, chiunque voglia approcciarsi alla musica dei King Crimson, dovrà necessariamente partire da qui.
Fa coppia con il debutto il secondo immaginifico “In the Wake of Poseidon” (1970), molto simile come sonorità e struttura, e gemellato con il predecessore per l’eccelsa prestazione dietro al microfono del cantante/bassista Greg Lake (il quale durante la lavorazione dell’album lascerà la band per fondare, insieme agli altrettanto virtuosi Keith Emerson e Carl Palmer, i fenomenali Emerson, Lake & Palmer, altra pietra angolare del progressive rock settantiano). E cosi “Pictures of a City”, con il suo riff potente e i fiati baldanzosi, ricalca le movenze di “21st Century Schizoid Man”, mentre la title-track rievoca l’impeto epico di “Epitath”, fungendo essi da punti cardine di un’opera di elevatissima caratura che paga solo lo scotto di arrivare dopo un capolavoro inarrivabile quale era stato il debutto.
I successive “Lizard” (1970) e “Islands” (1971) concludono degnamente il periodo “classico” della band, sviluppando ulteriormente il medesimo linguaggio introdotto dal folgorante esordio, arricchendolo di ulteriori elementi ed accentuando la vena sperimentale. Dissonanze ed aritmie irrompono a sconquassare quadri di idilliaca bellezza, ancora dominati da mellotron, archi e fiati. Si pensi, per farsi un'idea del grandeur kingcrimsoniano, alle due rispettive title-track: ai ventritre minuti di saliscendi emotivo, fra irruzioni jazz e sontuose partiture orchestrali, della mastodontica “Lizard” (divisa in quattro sezioni e con l'apporto vocale di Jon Anderson, in prestito dagli Yes) e ai nove altrettanto bei minuti di “Islands”, dai toni elagici e con la sua coda di piano e tromba (poesia allo stato puro).
In cabina di regia c’è sempre Robert Fripp, diviso fra mellotron e la sua chitarra sempre pronta a sbucare fuori e scombinare le carte in tavola. C’è da dire che il Nostro raramente si prodiga in smancerie o ama perdere tempo nella perfezione dell’assolo, e rispetto ai colleghi Steve Howe (Yes) e Steve Hackett (Genesis) la propensione al rumore ed alla contorsione dissonante finisce innegabilmente per prevalere sulla grazia melodica: lo dimostrano le brusche impennate cacofoniche in “Cirkus” (“Lizard”) e “Ladies of the Road” (“Islands”), non altro che degli antipasti per la successiva tripletta di album che per il metallaro costituiranno la porzione più prelibata del menu crimsoniano.
“Larks’ Tongues in Aspic” (1973) setta nuovi standard e introduce scenari inediti per la band inglese, disfacendosi del folk bucolico che aveva ancora influenzato i lavori precedenti, per farsi avanguardia noise. La chitarra di Fripp sfiora l’hard-rock indugiando spesso e volentieri su un riffing sporco ed ossessivo che certo inspirerà più di un artista degli anni novanta. La formazione si compatta intorno ad un trio di ferro completato da John Wetton (basso e voce) e Bill Bruford (batteria), mentre il violinista David Cross (che compare in organico anche nel successivo “Starless and Bible Black", del 1974) ha un ruolo marginale, ma comunque utile ad edificare un sound meno pomposo e incommensurabilmente più spigoloso e moderno. Le cavalcate chitarristiche delle due parti della title-track sono quanto di più audace la band avesse osato imbastire fino ad allora e lanciano un ponte verso le deflagrazioni elettriche delle estenuanti “Starless and Bible Black” e “Fracture” (rispettivamente nove ed undici minuti) dell’album successivo, che per certi aspetti suonerà ancora più aspro e cruento.
La summa di questo percorso, tuttavia, sarà il successivo “Red” (sempre del 1974), mix di pesantezza e oscurità, dove la strumentale title-track apre le danze a suon di accordi doppiati e ricorsivi, mentre il capolavoro “Starless” le chiude all’insegna di un portentoso crescendo che trasforma la suite (tredici minuti) da elegante ballata ad apocalisse sonora con la chitarra di Fripp a disseminare note tanto incisive quanto essenziali. In altre parole, in anni in cui l'heavy metal si stava faticosamente smarcando dal retaggio blues secondo le coordinate indicate dai classici Black Sabbath, Led Zeppelin e Deep Purple, i King Crimson, pur giocando in un altro campionato, erano promotori di sonorità altrettanto dure che, svincolate dal formato canzone, costruivano un linguaggio che avrebbe insospettabilmente influenzato molte entità del metal a venire (e non solo). Sono questi, indubbiamente, i King Crimson che piacciono ai fan di Tool e Voivod.
La nostra dissertazione potrebbe finire anche qui, non perché la band abbia smesso di realizzare lavori degni di nota, ma perché forse la storia successiva della band risulterà meno interessante per il patito del timpano rovente. Gli anni ottanta hanno certo rappresentato un momento di grande crisi identitaria per l'intero movimento prog settantiano, e non è un caso che molte glorie della decade precedente si sarebbero goffamente snaturate prodigandosi in sonorità influenzate dal punk e dalla neonata new wave.
Fripp visse anche quell’epoca con grande inventiva, ripresentandosi con la sua band madre dopo un lungo iato di sei anni (nel frattempo aveva prestato le sue sei corde ad artisti del calibro di Brian Eno, Peter Gabriel e David Bowie – suo il riff nella mitica “Heroes”) forte di una formazione rimaneggiata che vedeva ancora Bill Bruford sedere dietro alle pelli (sebbene il suo stile, convertito ai suoni minimali della new wave, risultasse estremamente mutato), il mostruoso Tony Levin al basso (un nome noto agli ambienti metal, quello di Levin, in quanto anni dopo il Nostro avrebbe offerto il suo valido contributo a John Petrucci e John Portnoy nel progetto Liquid Tension Experiment) e come front-man il cantante/chitarrista Adrian Belew, tributario dell’estro bizzarro di David Byrne e dei suoi Talking Heads.
Tracce brevi, suoni sintetici e gusto per lo sberleffo sono quindi il nuovo verbo per il Re Cremisi, francamente irriconoscibile dopo questa operazione di re-styling. Ma almeno il primo “Discipline” (1981) ce la sentiamo di consigliare, non fosse altro per il sempiterno genio compositivo della band, che mantiene un alto profilo sul fianco della ricerca sonora (immutata la tendenza a sperimentare con la tecnologia), fra fini tessiture di chitarra arpeggiata e suoni manipolati (da segnalare inoltre le sferragliate chitarristiche della strumentale title-track). Sui successivi “Beat” (1982) e “Three of a Perfect Pair” (1984) io sorvolerei, a meno che le sonorità inaugurate con “Discipline” risultino irresistibili alle vostre orecchie (ma non credo…).
A mio modesto parere, risulteranno più interessanti le mosse successive della band, che, affacciatosi alla decade novantiana, mostrerà di non essersi affatto seduta, bensì di voler continuare ad evolvere quel sound che tante mutazioni aveva vissuto nel corso dei decenni precedenti, anticipando spesso vere e proprie ere musicali. Tornano a ruggire le chitarre nei portentosi “THRAK” (1995), “The ConstruKtion of Light” (2000) e “The Power of Believe” (2003), album complessi, ricchi, stratificati e finemente costruiti. Abbandonato l’approccio minimale che aveva in un certo senso penalizzato i lavori “siliconati” degli anni ottanta, questi tre nuovi capitoli della saga kingcrimsoniana mostrano una band ancora decisamente in forma e capace di osare, dove i ricercati soundscape di Fripp, la voce stralunata di Belew e le esuberanze ritmiche (provvidenziale il lavoro del percussionista Pat Mastellotto) dominano scenari di grande creatività, baciati da suoni più profondi ed attuali.
Sebbene l’ultimo lascito discografico risalga al 2003, il Re Cremisi è ancora vivo e vegeto. I King Crimson, infatti, pur lontani dallo studio di registrazione, si concedono ancora molto generosamente al loro pubblico mediante una intensa attività live che li vede, fra nuove e vecchie conoscenze, incessantemente sul palco di tutto il mondo ad allestire show lunghi, intensi, spettacolari, dove incredibili wall of sound si alternano a quelle splendide ballate senza tempo che hanno costellato la loro lunga storia.
Lunga vita al Re (Cremisi)!
Lunga vita al Re (Cremisi)!
Playlist essenziale:
1) “21st Century Schizoid Man” (“In the Court of the Crimson King”, 1969)
2) “Epitaph” (“In the Court of the Crimson King”, 1969)
3) “The Court of the Crimson King” (“In the Court of the Crimson King”, 1969)
4) "In the Wake of Poseidon" ("In the Wake of Poseidon", 1970)
5) “Cirkus” (“Lizard”, 1970)
6) "Sailor's Tale" ("Islands", 1971)
4) "In the Wake of Poseidon" ("In the Wake of Poseidon", 1970)
5) “Cirkus” (“Lizard”, 1970)
6) "Sailor's Tale" ("Islands", 1971)
7) “Larks’ Tongues in Aspic, part one” (“Larks’ Tongues in Aspic”, 1973)
8) “Starless” (“Red”, 1974)
8) “Starless” (“Red”, 1974)
9) “Discipline” (“Discipline”, 1981)
10) “Vrooom” (“THRAK”, 1995)