Per una volta tanto mi sento giovane a Londra. L’età media stasera all’O2 Shepherd’s Bush Forum è decisamente elevata: rocker decrepiti ed indefessi intorno a me, ovviamente, ma anche tanti tanti signori più o meno distinti che per l’occasione sfoggiano magliette d’epoca ed un look vagamente alternativo. Donne poche, pochissime, per lo più accompagnate ed anch’esse di età importante, ma mi sta bene: ho disertato lo scorso martedì il concerto dei Marduk proprio perché non avevo voglia di gente indisponente che manco ti ringrazia.
No, ci sono dei momenti della vita in cui hai bisogno di cuore, passione, energie positive: tutte cose che solo la Vecchia Scuola può darti. Per questo stasera, mentre un altro pezzo di Metal Mirror è a Genova a vedere il grande Geoff Tate, ho deciso di andare sul sicuro con gli Uriah Heep. E, vi anticipo, non rimarrò deluso.
Di supporto troviamo gli scozzesi Gun, a me ignoti fino ad un momento prima che salissero sul palco. Cantante e chitarrista hanno una certa età, ma il resto della band si approssima all’adolescenza, cosa che mi fa capire che i Gun sono la classica band che ha saputo brillare per una manciata di anni, raggiungendo il successo, ma non l’immortalità: quelli che sembravano avercela fatta, ma a cui qualcosa ad un certo punto è andato storto e che poi si riformano alla meno peggio per spremere fino in fondo quel passato che pareva tanto promettente. Un passato che tuttavia i signori intorno a me sembrano conoscere molto bene, visto che in più di una circostanza le canzoni vengono cantate in coro con grande partecipazione, fino al culmine toccato con l’anthemica “Shame on You” che strappa qualche grido di approvazione anche al sottoscritto, contagiato dall’entusiasmo generale.
Già: i Gun, apprenderò poi, si sono ritagliati il loro momento magico agli inizi degli anni novanta con una serie di hit di discreto successo. Da questo potrete intuire che le sonorità sono più o meno comprese fra rigurgiti glam-rock di ottantiana memoria ed influssi alternative della decade successiva. Completano il quadro iniezioni di U2 ad epicizzare il tutto ed una cadenza vocale à la Iggy Pop dovuta più che altro all'invecchiamento delle corde vocali. L'insieme, ad essere onesti, non ci dispiace affatto: come antipasto ci possiamo stare.
Siamo in attesa degli headliner. Realizzo che ci sono due tipologie di spettatori che non sopporto nei concerti: quella degli alti e quella delle persone per niente flessibili. Quanto alla prima categoria, non ci si può far nulla: in ogni concerto c’è sempre qualche spilungone del cazzo che con spalle e testa ti copre la visuale di metà palco. Certo, sei portato ad odiare quei buffi sedanoni e fai ironia interiore definendoli “grandi, grossi e coglioni”, ma alla fine capisci che non è colpa loro e che bisogna spostarsi. Quanto alle persone rigide, dure come il granito e poco disposte all’ironia ed alla comprensione, rischi di trovarne più di una se condividi la platea con molti over cinquanta.
Dovete sapere che io ai concerti sono particolarmente dinamico: ora mi trovo sotto il palco, un momento dopo sono al cesso a pisciare, quello successivo sono in fila al bar, e poi rieccomi di nuovo a guadagnare posizioni sotto il palco saltando, urlando e battendo le mani. Posso capire che tutto ciò sia inconcepibile per un signore di una certa età piantato nel suo metro quadrato come se fosse asserragliato in un fortino, ma quando mi sento bussare sulla schiena e uno di questi spettatori mi fa notare che sono passato avanti ad una “signora” (un barile di un metro e quaranta), non mi faccio sfuggire l’occasione per potergli dire quello che da sempre sogno di replicare in situazioni del genere. Ossia: "Siamo ad un concerto rock, amico mio, non in un teatro con le poltroncine prenotate!" La ferrea logica del vecchio tuttavia mi paralizza: “Si, ma tu sei più alto di lei”, mi risponde. Allora faccio pazientemente un passo indietro e poi rispondo al tipo “Va bene così? Tanto fra un minuto, quando gli Uriah Heep appariranno sul palco, tutto cambierà!”.
Purtroppo mi sbagliavo di grosso: niente cambierà. Gli spettatori conserveranno le loro posizione per tutta la durata del concerto, come se avessero i piedi in blocchi di cemento, complicando non poco i miei traffici, dannata terza età!
Ecco che le luci si spengono e dopo un breve intro compaiono i nostri eroi sul palco. Mick Box, sorriso stampato in faccia, capelli lunghi bianchi ed improbabili occhiali da sole a specchio, sembra Donatella Versace in acido. Phil Lanzon, dietro alle sue tastiere, ha l’imponenza del guru e certo guadagnerà la palma del più carismatico del lotto. Bernie Shaw sembra uscito fuori da un libro di Charles Dickens, ma la voce c’è, ed è questa la cosa fondamentale. Concludono il quadretto Davey Rimmer al basso e il potentissimo Russel Gilbrook dietro alle pelli, crapa pelata, tatuaggi e doppia-cassa. Quello che salva gli Uriah Heep è che hanno vissuto il ricambio generazionale molti anni fa, cosicché possiamo evitarci fanciulli sul palco a togliere poesia laddove c’è una storia cinquantennale da raccontare. E’ vero, Box è l’unico membro originario, ma Lanzon e Shaw sono in formazione da più di trent'anni, mentre è un bene che una nuova sezione ritmica sia subentrata successivamente ad iniettare forza e potenza.
Quel che è sicuro, infatti, è che agli Uriah Heep targati 2018 non manca il tiro: fra ritmiche dirompenti e vorticosi giri di hammond, irrompe con furia pristiana “Grazed by Heaven”, granitica opener dell’ultimo album. Nemmeno il tempo di riprendere il fiato, che la band ci conduce negli anni ottanta (per l'esattezza nel 1982, anno di uscita di "Abominog") con “Too Scared to Run”, che accolgo con una punta di delusione perché so che sta occupando quello che sarebbe dovuto essere il posto di “Return to Fantasy”, eseguito per secondo nelle serate precedenti. Ma è solo questione di un attimo: la band è troppo in palla stasera per seminare malcontento, e se non fosse per l'hammond che conferisce quell'inevitabile tocco vintage, sembrerebbe di essere ad un concerto dei Primal Fear, data la potenza messa in campo.
Shaw si mostra fin da subito loquace e prodigo di affetto per il pubblico, il quale appare scaldato a dovere dalla doppietta di brani appena eseguiti. Si può quindi tornare alla promozione dell’ultima fatica discografica con niente meno che la titile-track, epico mid-tempo con una coda strumentale letteralmente da brividi. Sono proprio contento di vedere gli Uriah in occasione di un album come “Living the Dream”, in cui ho trovato una band tonica, fresca ed un ispirato song-writing. Il singolone “Take Away My Soul”, altra fucilata che evoca l’heavy metal tellurico dei Judas Priest, conferma in pieno l’impressione.
Ma è con “Rainbow Demon”, dal capolavoro “Demons & Wizards”, che si entra nel vivo, facendoci penetrare nel cuore del repertorio di inizi anni settanta, che giustamente occuperà gran parte della seconda porzione dell’esibizione. Ma fortunatamente c’è ancora tempo per pisciare: sfrutto infatti la scialba “Water Flowin’”, trascurabile folk-song dell’ultimo lavoro, per correre al bagno e premunirmi di una nuova bevuta. Il mio rientro in scena avviene con “Rocks in the Road” (altro estratto dall’ultimo album), che mi dà il tempo per sistemarmi in posizione avanzata e godermi in tutta la sua potenza la grandiosa “Gipsy”, chiamata a rappresentare l’esordio “...Very ‘Eavy...Very ‘Umble”. Un po' per necessità, un po' per diletto, intono il falsetto del ritornello come lo canterebbe Araya, e devo dire che il risultato non è disdicevole, anche se mi sa che quelli accanto a me non apprezzino più di tanto.
Fa impressione, più che altro, pensare che questo brano, così cazzuto e squisitamente heavy metal, sia stato scritto nel 1970! In esso ovviamente è Lanson a spadroneggiare, strabiliante dietro ai tasti del suo organo. Quanto a Box, che non ha scritto riff celebri come i colleghi Blackmore e Iommi, c’è da dire che è sempre preciso e potente con le sue ritmiche martellanti. A proposito: il suo wah-wah, è stato a dir poco devastante per tutta la serata. Segue una gustosa doppietta estratta da “Look at Yourself”: la “purpliana” title-track e poi “July Morning”, dieci minuti di saliscendi emotivo in cui la band ha modo di sciorinare tutta la sua classe.
“We have an acoustic guitar, and we have a song”: giunge il momento di “Lady in Black”, che in verità ho grandemente temuto per tutto il tempo, in quanto facile a prestarsi a scene pietose tipo quella di orde di anziani che cantano in coro e battono le mani a tempo. Non ho niente contro il brano in sé, ma il ballatone di punta di quell’altro capolavoro che risponde al nome di “Salisbury” è troppo, troppo orecchiabile per i miei gusti, tanto che potrebbe essere stata scritta, a mio parere, da una band italiana degli anni settanta, se non da un Battisti, o, peggio ancora, dagli Eagles. E non a caso è tutto un battito di mani e “oooo oooo ooo”. Sul palco monta un personaggio improponibile che sulle prime parrebbe un fan di vecchia data o un amico, un parente o qualcosa del genere. Scopriremo poi che si tratta niente meno che del mitico Lee Kerlslake, storico batterista degli Uriah, da un po’ di anni fuori dalla band, e purtroppo oggi affetto da gravi problemi di salute. Rispetto ed applausi per Lee!
Terminato il “momento Sanremo”, eccoci di nuovo a noi. I bis si aprono con un'intensa riproposizione di “Sunrise” (dal sottovalutato “Magician’s Birthday”), ennesima grande interpretazione di uno Shaw che non ha ceduto per un istante. Ed ecco, infine, l’immancabile “Easy Livin’”, due minuti e mezzo per cui vale la pena vivere. Come “Paranoid” al termine di un concerto dei Black Sabbath, essa fugge via veloce senza che uno se ne possa rendere conto, fra l’adrenalina, i ricordi e le emozioni che si mescolano e confondono con i suoni pastosi di fine concerto e con i cori del pubblico che coprono tutto il resto.
Gli Uriah Heep sono considerati dei Deep Purple di serie B, e certo essi non si sono potuti avvalere dell’estro di un Blackmore o di un Lord, o dell’ugola affilata di Gillan. Tuttavia, quando vidi i Deep Purple nei primi anni duemila, ebbi l’impressione di avere a che fare con dei musicisti tirati fuori dalla formalina che cercavano di ridare vita al loro storico repertorio, con grande mestiere e con quei lunghi assoli (evitabile il medley svolto dal pur bravo Steve Morse) piazzati ad arte per far riposare le corde vocali di un Gillan che visibilmente non era più quello dei tempi d'oro. Insomma, frasi fatte, un copione a dettare i tempi e tanto tanto tanto blues e spirito passatista, contro l'heavy metal roccioso e spontaneo degli Uriah Heep, che stasera hanno dimostrato di essere una band viva e vegeta, con un repertorio recente che tiene testa ai classici del passato. Ma soprattutto una compagine di musicisti in stato di grazia che, scesi dall’empireo del Mito, si sono posati in carne ed ossa sulle assi del palcoscenico per darsi ancora una volta, con umiltà, sincerità e devozione, in pasto ai loro fan.
Chapeau!