15 apr 2023

PRIMA DEL FUNERAL DOOM: ASPHYX



Meno otto: Asphyx - "The Rack" (1991) 

Si era cercato di spiegare il funeral doom come l’incontro fra il doom e il death metal, ma sotto sotto si è più o meno insinuato, fatto intendere, che fosse il doom a prevalere geneticamente sul secondo, prendendone in prestito certi elementi, come la scorza brutale e il canto in growl. Nel pazzo scenario del metal estremo di inizio anni novanta, tuttavia, non è vietato neppure ipotizzare una visione più lineare in cui l’unione fra i due generi si sia compiuta a metà strada grazie ad un progressivo avvicinamento dell’uno verso l’altro. Se infatti è vero che il death metal all’epoca suonava come una estremizzazione del thrash ottantiano, tendendo a conservarne la velocità (o estremizzandola con persistenti up-tempo e blast-beat), non è falso affermare che diversi nomi di spicco del death metal contemplavano nel loro suono passaggi lenti: escamotage, il più delle volte, utilizzato per alimentare il lato macabro e morboso della propria proposta. 

Classici esempi di questo tipo di death metal sono stati i Bolthrower e gli Obituary ma non credo che il funeral doom sia passato da quelle parti o perlomeno non direttamente. Una affiliazione più diretta, semmai, sembrerebbe esserci stata con le atmosfere asfissianti e pestilenziali messe in atto dagli olandesi Asphyx, il cui suono, indubbiamente, avrebbe mostrato una connessione più intima con il potenziale catartico del doom. Concediamoci dunque una boccata di ossigeno (espressione quanto mai fuori luogo in questo contesto...) con un po' di death metal d'annata prima di immergerci nuovamente nella lentezza più esasperante... 

Voglio partire recitando un mea culpa. Ho sempre snobbato gli Asphyx considerandoli un gruppo di serie B: tecnicamente non eccelsi e da sempre portatori di una proposta semplice e di facile esecuzione, gli Asphyx, in fondo, si sono affermati come dei rozzi artigiani che hanno saputo lavorato con onestà - per carità – all’ombra tuttavia di giganti del calibro di Death, Morbid Angel, Deicide, i già citati Obituary e molti altri che sono stati in grado di consolidare il profilo del death metal in quanto genere a sé stante. Dai, non rompetemi i coglioni con gli Asphyx, avete mai sentito parlare di “uno stile Eric Daniels” o di come Bob Bagchus abbia rivoluzionato il drumming nel death metal? No, nessuno ha mai sentito echeggiare questi nomi nei salotti bene del death metal, perché quelli che erano rispettivamente il chitarrista e il batterista degli Asphyx al tempo del loro full-lengh di debutto non hanno rappresentato nulla di particolarmente significativo o seminale nella genesi stilistica del death metal. 

Semmai avrete sentito parlare di Martin Van Drunen, ma solo perché era stato cantante dei Pestilence nei primi due album. Ma anche questo, in fondo, andava ad avvalorare lo status di serie B della band, visto che, mentre gli ex colleghi Pestilence decollavano in alto fra le stelle del death metal iper-tecnico e sperimentale con capolavori come “Testimony of the Ancients” (1991) e “Spheres” (1993), il Van Drunen si cimentava nel “death metal sempliciotto” degli Asphyx: una scelta decisamente al ribasso (sebbene coerente con la brutalità della sua visione artistica, professata fin dagli esordi). Complice anche il fatto che le copertine dei loro album mi han sempre fatto cagare, io gli Asphyx non li ho mai presi troppo seriamente (il marroncino che pervade la copertina di “The Rack”, in fondo, mi ha sempre evocato – probabilmente a torto – quelle moquette polverose di certi uffici pubblici che ti fanno tossire solo al pensiero). 

Eppure, eccoci ancora nel 2023 a parlarne. Questo sicuramente perché la band giunge ai giorni nostri in ottima forma (si pensi all’ultimo buon “Necroceros” del 2021) con alle spalle una sequela di lavori solidi, massicci, che hanno consolidato il nome della band nel corso degli anni, laddove molti altri sono caduti o spariti dalla circolazione (e vincendo, ahimè, la sfida a distanza con i Pestilence, scomparsi sul più bello per poi riformarsi in tempi recenti ed avviare un nuovo corso per nulla convincente). Ma gli Asphyx resistono alla ruggine (o nonostante la ruggine) anche perché viviamo in tempi in cui a) essere vecchi e coerenti è figo; 2) essere semplici ed avere l’attitudine è figo; 3) essere seminali è facile perché nel frattempo è stato suonato un po’ di tutto e ci si può ritenere precursori di qualsiasi cosa. E così, quel death dalle venature doom che sembrava la soluzione di ripiego di gente che non eccelleva nei rispettivi strumenti, che preferiva andare lentamente invece che impazzire dietro a cambi di tempo o soluzioni progressive, oggi è una proposta solida, frutto di una visione artistica a fuoco e non funestata dal trascorrere del tempo, ma anzi valorizzata dal trascorrere dello stesso, apparendoci oggi più monumentale ed imponente che mai! 

Gli Asphyx suonano death metal, non giriamoci intorno, e con i primi due lavori, il già citato “The Rack” del 1991 e l’acclamato “Last One on Earth” dell’anno successivo (l’apice artistico degli olandesi), i Nostri non disdegnavano certo la velocità (solo a partire dal terzo omonimo “Asphyx” i Nostri avrebbero sterzato in modo più pronunciato verso lidi doom), ma se li trattiamo nella nostra rassegna sul funeral doom un motivo ci deve essere. Anzi, di motivi ce ne sono almeno due. Uno, quello già anticipato, è che i Nostri suonano death-doom metal (da contrapporre al doom-death che nasceva nel medesimo periodo con i Paradise Lost): un death metal che, per esigenze di atmosfera, non disdegnava partiture lente, asfissianti, un aggettivo che viene evocato dal monicker stesso della band. Due, c'è la voce di Van Drunen, fra le più terribili e mostruose mai partorite dall’universo del death metal: già nel mitico “Consuming Impulse” dei Pestilence ci eravamo accorti di quella voce strascicata, scossa, isterica, tossica (si ascolti l’incipit di “Trauma”), ma qui il Nostro supera se stesso, stirando ulteriormente le corde, portandole ad un attimo prima dello strappo. 

Ad ascoltare un album come “The Rack” c’è da interrogarsi sulla salute del cantante. Il tasso di agonia è sopra il consentito e l'immagine che si para innanzi agli occhi è che qualcuno sia vomitando sangue. La sensazione di soffocamento (asfissia!) è reale e rende questi trentasette minuti tutt’altro che un bicchier d’acqua da bersi in serenità. Salvo la title-track di nove minuti (che costituisce un caso a sé stante), i brani sono brevi e si aggirano intorno ai due/tre minuti, eppure la loro letalità è tale che ci appaiono molto più lunghi e dolorosi da ascoltare. Senza perdersi in inutili fronzoli, il death metal degli Asphyx procede con passo incerto, disorganico, intervallando momenti di furia cieca a calate in abissi fangosi in cui i riff di chitarra si fanno vischiosi, impastati, appiccicosi. Ascoltare “The Rack” è come passeggiare sulle sabbie mobili: siamo lontani, molto lontani, dalla chirurgia estetica di certo death metal del periodo. E siamo lontani anche dalla carne: la lentezza non va ad evocare i miasmi della carne in corso di putrefazione (qualità che per esempio potremmo attribuire alla musica degli Autopsy). Come i Pestilence, gli Asphix offrono un death metal metafisico, pervaso da visioni inquietanti ma anche da uno slancio che intende squarciare il velo della schietta materialità. 

Il bellissimo titolo dell'intro “The Quest of Absurdity” (una cupissima introduzione di sole tastiere) già rende l'idea di quello che  ci dobbiamo aspettare. Si corre, dunque, ma all'improvviso si aprono falle in cui non è piacevole sprofondare: già la terza traccia “Diabolical Existence” presenta passaggi lenti dove la voce straziata di Van Drunen disegna paesaggi a dir poco desolanti; la successiva “Evocation”, addirittura, presenta al suo interno fasi in cui chitarra e batteria si trascinano avanti con estrema fatica, con andamento singhiozzante, snervante per l'ascoltatore, tracciando nuovi standard di brutalità che, non a caso, verranno bissati dagli alfieri del funeral doom. Si riprende a correre, ma con l'incipit di "The Sickening Dwell" si ritorna al doom più criptico, come se la velocità fosse continuamente schiacciata verso il basso da mostruose forze di gravità. Un plauso all’accoppiata “Ode to a Nameless Grave” / “Pages in Blood”, altro colpaccio trucemente visinario, con la prima – strumentale - che si stempera, sfumando, in assoli apocalittici e la seconda che, emergendo dal silenzio, riprende i medesimi stessi assoli per poi abbandonarsi ad uno sconsolato mid-tempo. Dei nove turbolenti minuti di "The Rack", fra violenza cieca e melmosi intermezzi, preferiamo tacere, consigliandone direttamente l'ascolto.  

Insomma, chi ama il death metal non è in genere alla ricerca di queste sensazioni. La musica degli Asphyx sembra votata a far del male all’ascoltatore, sebbene, paradossalmente, assuma le sembianze della vittima (considerato il tasso di sofferenza portato in dote dallo stile canoro di Van Drunen): in altre parole, sembra animata proprio da quello slancio  sadico che diverrà caratteristico di chi, qualche anno dopo, vorrà cimentarsi nel funeral doom...