28 mag 2024

GUIDE PRATICHE PER METALLARI: NEIL YOUNG


Con le nostre Guide Pratiche per Metallari ci siamo per lo più orientati verso artisti che, pur non suonando metal, esercitano da sempre un fascino particolare sul popolo metallaro: Pink Floyd, The Cure, Nick Cave, Depeche Mode rappresentano entità spesso ben conosciute dai patiti del metallo. La sfida di oggi è parlare di Neil Young e renderlo appetibile ad un pubblico di metallari. 

Non si può certo affermare, infatti, che Neil Young occupi uno spazio centrale nel cuore del pubblico metal. Egli è indubbiamente fra i grandi del rock, ma non è stato affatto influente nella genesi e nello sviluppo del metal in quanto genere musicale. Conseguentemente non viene coverizzato dalle band metal (sebbene si abbia l'illustre eccezione dei Type O Negative che ne hanno riletto il classico "Cinnamon Girl"). Young viene in genere snobbato dal metallaro perché la sua figura viene irrimediabilmente legata all'universo del country-rock, ambito decisamente distante dai gusti del pubblico metal. La qui presente guida, pertanto, non è solo un modo pratico per presentarne il percorso artistico a chi ne ignora le gesta, ma anche e soprattutto un'opera di convincimento al fine di spingere i più scettici ad approfondire l'operato di questo artista imprescindibile. 

Molti si immaginano Neil Young con la classica camicia a quadri da boscaiolo, la chitarra acustica a tracolla e l'armonica a bocca appesa al collo. Questa tuttavia non è l'unica dimensione entro cui il Nostro si è mosso nella sua pluridecennale carriera: egli ha invero sperimentato molto in un continuo scambio con il mondo esterno, accogliendo via via nuove tendenze per inglobarle coerentemente in una solida visione artistica. In questo virtuoso gioco dialettico egli ha marchiato a fuoco più di cinquant'anni della storia del rock, fra cantautorato di protesta ed inquietudini personali, sospeso continuamente fra un messaggio pacifista, ecologista, uno sguardo utopico rivolto ad un mondo migliore (come insegnava il suo mentore Bob Dylan) e l'abisso di una interiorità martoriata da dipendenze, lutti, fallimenti personali e professionali. 

Fra struggenti ballate, furiosi tour de force elettrici e quella voce nasale, sgraziata, strascicata che traballa costantemente lungo il filo della stonatura, verrà a plasmarsi il profilo del "loner" ("The Loner" era un brano del suo primo album solista). Young è infatti il rocker solitario che avrebbe ispirato molti cantori del rock più intimista e - se mi passate l'espressione - tendente al depresso. La sua è un'arte grezza, tutt'altro che perfetta e rifinita, egli sarebbe stato considerato non a caso fra i precursori del punk prima e il profeta del grunge successivamente. Più in generale la sua è una figura di peso nella configurazione di un certo tipo di rock indipendente che sarebbe sbocciato a cavallo fra anni ottanta e novanta: un universo sonoro non del tutto estraneo a quei metallari che non nutrono pregiudizi negativi nei confronti di sonorità alternative

Classe 1945, canadese di nascita, dopo i primi passi con gli Squears (la sua prima esperienza musicale degna di nota) avrebbe trovato la terra promessa nella leggendaria west coast, dove insieme a Stephen Stills (lo stesso Stills di Crosby, Stills & Nash) avrebbe fondato i Buffalo Springfield, band dalla storia tanto breve (dal '66 al '68) quanto significativa per il consolidarsi del country-rock. Young debutterà da solista nel 1968 con l'omonimo album avviando una epopea che, fra alti e bassi, cadute ed incredibili resurrezioni, arriva ai nostri giorni. 

La nostra ricostruzione, in questo caso, sarà estremamente parziale, non solo perché opereremo dal punto di vista inusuale del metallaro, ma anche perché si parla di una discografia sconfinata con quasi cinquanta album all'attivo, peraltro non sempre imprescindibili. Per un metallaro la faccenda si fa ancora più spinosa perché se becchi la canzone sbagliata di Young rischi di bollarlo per sempre come merda fumante. Almeno questo è quello che è capitato a me, salvo poi fortunatamente ricredermi. La chiave di volta è stato vederlo dal vivo: mi aspettavo un vecchio con la chitarra acustica a tracolla e mi sono ritrovato un rocker travolgente che si è preso sulle spalle due ore di concerto, fra ritmiche martellanti, assoli torrenziali, ritonelli anthemici e derive psichedeliche al limite del noise

Il rischio più grosso è fidarsi della critica o dei fan, essere attirati dalle lodi sperticate attribuite a certi lavori della prima ora per poi ritrovarsi a scappare a gambe levate. Senza mancare di rispetto ad un artista gigantesco (che peraltro oggi riesco ad apprezzare in tutte le sue sfaccettature), rivolgersi ad un pubblico di metallari impone un approccio diverso rispetto a quello tradizionale. Per questo sarà utile, a questo giro, partire dalla fine, o quasi. 

Il nostro viaggio a ritroso nel tempo parte nel 2012, anno di uscita dell'ottimo "Psychedelic Pill", che ci riconsegna un artista in forma smagliante accompagnato dalla sua storica formazione, i Crazy Horse. Si tratta di un doppio album contenente tracce lunghissime dove spiccano la travolgente opener "Driftin' Back" (27 minuti!), "Ramada Inn" (quasi 17 minuti) e "Walk like a Giant" (16 minuti). È un lavoro particolarmente indicato al neofita perché mostra Neil Young all'apice del suo "titanismo rock", nonostante all'epoca avesse già 67 anni suonati. La lunghezza dei brani non porta con sé virtuosismi, escursioni psichedeliche (come suggerito dal titolo) o contaminazioni fra generi, ma l'ossessività e l'ostinazione delle migliori cavalcate di Young. Gli stilemi sono quelli di sempre: una base ritmica implacabile (tanto semplice quanto efficace), riff ariosi, assoli commoventi, il tutto marchiato a fuoco da quell'inconfondibile voce che compensa con il cuore le molte stecche (non è una questione di vecchiaia, è sempre stato così...). 

Un bel colpo di coda "Psychedelic Pill", il quale veniva dopo una ventina di anni in cui non vi erano stati particolari acuti. Da un punto di vista discografico Young si è dimostrato molto prolifico, continuando a sfornare con esiti variabili i suoi dischi, un giorno più inclini al folk, l'altro più vicini al rock, rivolgendosi più che altro al suo pubblico. Fra le molte cose pubblicate in questi venti anni, due soste significative potrebbero essere fatte nel 1996 e nel 1995, rispettivamente in occasione della colonna sonora del film noir-western "Dead Man" di Jim Jarmusch (improvvisazioni di chitarra elettrica inframezzate da dialoghi tratti dal film) e di "Mirror Ball", realizzato a quattro mani con i discepoli Pearl Jam (niente di indispensabile, ma un'operazione che va ad esplicitare ulteriormente l'affiliazione di Young al movimento grunge).

La nostra tappa successiva è il 1990, anno di pubblicazione di "Ragged Glory", album solido, "metallico", vibrante, dove spiccano brani come la martellante e nevrotica "Fuckin' Up", ponte ideale fra l'hard rock settantiano e il rock alternativo degli anni novanta, e l'epica cavalcata "Love and Only Love", che con i suoi dieci minuti rappresenta uno dei momenti più entusiasmanti del canzoniere di Young. "Ragged Glory" va a consolidare le intuizioni introdotte l'anno precedente con "Freedom" (1989), capitolo discografico con cui il Nostro rialzò prepotentemente la testa dopo un decennio non proprio esaltante (gli anni ottanta). Per intenderci, "Freedom" contiene la celeberrima "Rockin' in a Free World", inno anthemico che probabilmente costituisce il brano maggiormente conosciuto di Young (sistematicamente coverizzato dagli stessi Pearl Jam nei loro concerti, nonché storpiato nel titolo dai Carcass in "Keep on Rotting in the Free World" - ma questa è un'altra storia...). 

Si tratta di una seconda giovinezza artistica che riabilita la figura di Neil Young, sebbene questo passaggio avesse comportato una energica virata rock che non piacque a tutti. In particolare risultarono fastidiose le rumorose esibizioni dal vivo caratterizzate da volumi assordanti ed un impiego vigoroso della strumentazione elettrica. Si pensi solo al fatto che i Sonic Youth (all'epoca non ancora famosissimi) furono assoldati per aprire i concerti di Young: scelta questa che creò più di un disappunto fra i fan della prima ora, ma che dimostrava la malleabilità della concezione artistica di Young e la sua disponibilità a farsi influenzare dalle nuove leve. Per un metallaro questa è la fase più interessante e il tutto è felicemente rappresentato dal ruvidissimo doppio live-album "Weld" (1991). 

Voltiamo adesso pagina. Gli anni ottanta sono stati un periodo di crisi artistica per Young, un periodo di sbandamento che in genere viene raccontato con due tomi controversi come "Trans" (1982), in cui il Nostro sperimentava soluzioni elettroniche, e "Re-ac-tor" (1981) addirittura giudicato heavy metal! Nel primo il Nostro si reinventa in salsa Kraftwerk/Moroder attraverso sintetizzatori, drum- machine e vocoder, con esiti davvero poco convincenti e a dir poco snaturanti. Nel secondo, francamente parlando, di heavy metal non c'è assolutamente nulla, ma almeno quel che offre qui Young è un passabile hard-rock con qualche episodio interessante come l'epica "Surfer Joe and Moe the Sleaze" e la conclusiva "Shots", quasi otto minuti di bordate elettriche sconfinanti nel rumore puro. 

Episodi minori, quelli appena descritti, che oltretutto venivano dopo il decennio d'oro di Young: i famigerati anni settanta. "Rust Never Sleeps", del 1979, chiudeva in bellezza quel decennio compiendo la sintesi perfetta fra la dimensione acustica e quella elettrica, consegnandoci uno Young al top sia come cantautore che come rocker. L'album, da considerare fra i massimi capolavori del canadese, prevede infatti un lato A acustico dove fra le varie ballate brilla "My My, Hey Hey (Out of the Blue)", ed un lato B elettrico che oltre a "Powderfinger" (altro classicissimo) sa graffiare con una rivisitazione in chiave punk dell'opener, ribattezzata "My My, Hey Hey (Into the Black)". Nello stesso anno usciva "Live Rust", considerato uno delle migliori testimonianze live di Young. Partire da qui potrebbe essere per il neofita una saggia idea. 

Procediamo oltre, ossia indietro! Il 1975 vede l'uscita di due album tanto diversi quanto complementari. "Zuma" è fra i lavori più graditi dal mondo grunge, mostrando un approccio scanzonato, a tratti quasi solare, fatta eccezione per l'intensa "Cortez the Killer", sette sublimi minuti di pura malinconia squarciata dall'ispirato lirismo delle sei corde di Young: un brano che da solo vale il prezzo del biglietto. L'album portava con sé un mood più positivo rispetto alle prove immediatamente precedenti e fu come una specie di rinascita spirituale dopo l'abisso scavato qualche mese prima con l'oscuro "Tonight's the Night": un album teso, irrequieto, registrato in nervose sessioni notturne e marcato da dipendenze, disperazione e il lutto di due colleghi/amici portati via dell'eroina. E' visto come il primo concept-album in cui il rock piange se stesso, denunciandone gli eccessi ma risultandone anche schiavo. Qualcuno vi ha persino visto l'anticipazione di certi umori punk, ma onestamente parlando per il metallaro questo lavoro non ha molto di interessante da offrire, muovendosi fra le consuete ballate country ed un blues isterico che vede coesistere falsetti, pianoforte, un bel basso in evidenza e contrappunti di chitarra (meno invadente del solito). 

Quanto ai lavori della prima fase, il metallaro deve stare molto attento perché qui si sdrucciola in modo rovinoso in pericolosi territori country-folk, vale a dire: languide chitarre slide, violini sornioni ed armonica a bocca. È una componente, questa, che ritroveremo come costante in tutta la discografia del Nostro, ma se in certi episodi l'abbiamo digerita meglio, in questi primi lavori potrebbe risultare indigesta. 

"On the Beach" (1974) è a mio avviso un album bellissimo, crepuscolare: rispetto al suo successore, andava ad incarnare una espressione più intima del dolore, attraverso delicate ballate di piano e chitarra acustica. "Harvest" (1972), dal canto suo, è l'opera più celebrata e nota dell'autore canadese. Esso risente del fatto che è stato registrato nei noti studi di Nashville, spostandosi prepotentemente sul versante folk. Pur contemplando qua e là delle parentesi elettriche, il capolavoro di Young inanella per lo più struggenti ballate, vuoi a base di pianoforte ed orchestrazioni come "A Man Needs a Maid", vuoi trasportate dalla corde della consueta chitarra acustica come il super-classico "Heart of Gold". Qui emerge lo Young autore di melodie tanto semplici quanto memorabili. Nel 1970 era uscito un altro capolavoro, "After the Gold Rush", a cui tuttavia i metallari dovranno avvicinarsi con grande circospezione considerato il fatto che qui il Nostro si muove in una dimensione di cantautorato molto lontano dalla sensibilità di chi ascolta heavy metal, soprattutto per l'abbondanza di ballate sornione, falsetti, cori melensi ed arrangiamenti tributari della tradizione country. Non mancano comunque colpi micidiali come il classico "Southern Man", linee vocali irresistibili e le sei corde a fare faville: quella che, in definitiva, è e sarà la cifra stilistica di Young.

Da segnalare a questo punto l'esperienza sotto l'insegna Crosby, Stills, Nash & Young, dove il Nostro si univa al famigerato trio. "Deja-vu" (uscito qualche mese prima, nel marzo del 1970), non è solo uno degli album più acclamati di quella stagione del rock, ma sfoggia anche il contributo autoriale di un giovane ma brillante Young, vero valore aggiunto nell'operazione (si pensi alla bellissima "Country Girl" che svetta senza rivali fra le altre tracce del disco). 

Concludiamo la nostra carrellata nella carriera solista di Young con i suoi due primi lavori, "Everybody Knows This is Nowhere" (1969) e "Neil Young" (1968): lavori in parte acerbi ma che già raccontano la grandezza di Young sia come autore che come interprete. Testimonianze di questa grandezza sono brani come "The Old Laughing Lady" e "The Last Trip to Tulsa" (dal primo), "Down by the River", "Running Dry (Requiem for the Rockets)" e "Cowgirl in the Sand" (dal secondo) che ci mostrano uno Young a suo agio nella dimensione del brano lungo, indeciso fra intimità e slancio epico. Senza contare classici della prima ora come le già citate "The Loner" e "Cinnamon Girl". 

Il resto è preistoria: vi sono i tre godibili album dei Buffalo Springfield (dove tuttavia la vena creativa di Young doveva fare i conti con le personalità ingombranti dei suoi compagni) e le prime registrazioni con gli Squires, quando il Nostro ancora operava al di là del confine con il Canada, sua terra natia. 

Dunque ricapitolando: volete approcciarvi al migliore Young country-folk? Provate con "Harvest". Volete confrontarvi con lo Young più rock? Allora dirigetevi verso "The Rust Never Sleeps", "Ragged Glory" o "Psychedelic Pills". Meglio ancora sarebbe partire direttamente dal live "Weld", che offre un compendio esauriente del repertorio più "heavy" di Young, permettendo di saggiarne le potenzialità sul palco - dimensione ideale per il Nostro - dove i brani si espandono ed acquisiscono ulteriore forza e vigore. 

Rompete dunque gli indugi una vola per tutte e gettatevi nel tormentato mondo di Neil Young: non ve ne pentirete!  

Playlist essenziale: 

1) "Mr. Soul" ("Buffalo Springfield Again" con i Buffalo Springfield, 1967) 

2) "Cowgirl in the Sand" ("Everybody Knows This is Nowhere", 1969) 

3) "Southern Man" ("After the Gold Rush", 1970) 

4) "Country Girl" ("Dèjà Vu" con Crosby, Stills, Nash & Young, 1970) 

5) "Heart of Gold" ("Harvest", 1972) 

6) "Cortez the Killer" ("Zuma", 1975) 

7) "My My, Hey Hey (Out of the Blue)" ("The Rust Never Sleeps", 1979) 

8) "Rockin' in a Free World" ("Freedom", 1989) 

9) "Love and Only Love" ("Ragged Glory", 1990) 

10) "Ramada Inn" ("Psychedelic Pill", 2012) 

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