21 dic 2020

THE BEGINNING OF THE END: APPENDICE


 


E siamo così giunti al termine della nostra Rassegna “The Beginning of the End”. Come avevamo anticipato nella nostra Anteprima, nei dieci capitoli che ci hanno accompagnato da febbraio a novembre, le band prese in considerazione sono state tutte dei Mostri Sacri del nostro Genere Preferito. Nate, cresciute e affermatesi tra la fine degli anni settanta e la decade ottantiana, si sono ritrovate, dopo la spiazzante svolta stilistica dei Metallica, l’avvento del grunge e la crisi dei generi classici, a confrontarsi col grande tema del potenziale cambiamento e/o della necessaria (?) evoluzione del sound che li aveva contraddistinti fino a quel momento. Un dilemma reso ancor più complicato dal fatto che le Nuove Leve nate nei nineties stavano facendo della “contaminazione” una bandiera, della promiscuità tra i generi e della spinta sperimentale la loro “normalità”.

Ma anche queste band, dopo l’affermazione e il riconoscimento ottenuto, hanno sentito il bisogno, fisiologico, di cambiare, provando nuove strade sonore rispetto a quella sulla quale avevano lasciato il proprio marchio indelebile. E andando incontro chi a inaspettati successi, di critica e di pubblico. E chi, invece, decretando l’inizio della propria fine.

Sulla base di queste considerazioni abbiamo deciso di utilizzare le nostre consuete Conclusioni per un'Appendice contenente una rapidissima carrellata di dieci band di primo piano, rappresentative della decade novantiana (e a cui in Redazione siamo particolarmente affezionati) che hanno affrontato “di petto”, a partire dalla seconda metà del decennio, il nodo del cambiamento e della propria evoluzione stilistica.

A volte con esiti, commerciali e artistici, di assoluto rilievo (e per i quali è più corretto parlare di The beginning of a new beginning); in altri casi, coerentemente col titolo della Rassegna, alquanto scadenti sotto entrambi i punti di vista. Ma vedremo anche altri casi particolari: e cioè band che hanno imboccato la china della crisi irreversibile NON quando hanno sperimentato o evoluto i propri stilemi, ma quando decisero di restaurare il sound col quale si affermarono (sarà il caso, ad esempio, di Moonspell e Dark Tranquillity)

Ecco quindi i nostri 10 album scelti per le glorie anni novanta, rigorosamente in ordine cronologico:

1)      ANATHEMA – “Eternity” (1996). Chi ci segue lo sa: amiamo alla follia i fratelli Cavanagh, celebrati più e più volte sul nostro Blog. L’album della svolta sonora, dal quale i Nostri non ritorneranno più sulle proprie, ottime, orme doom-death della prima fase di carriera, è anche, per chi scrive, il più grande capolavoro composto dai Nostri. “Eternity” è un disco enorme, in cui l’aura decadente a marchio Anathema, riconoscibile tra mille, si sposa alla perfezione con l’adozione di nuovi stilemi ambient, space e alt rock. Ancor prima, e meglio, di “Alternative 4”. Uno dei massimi esempi in cui evoluzione&coerenza si sposano alla perfezione. Per un risultato storico (e a distanza di quasi 25 anni dalla sua uscita piango ancora come un bambino all’ascolto di “Angelica”). 

2)      PARADISE LOST – “One second” (1997). La svolta elettronica di Holmes e Mackintosh non si lasciava presagire dopo i fasti doom/goth-metal di “Draconian times” (1995). Critiche a profusione per questa svolta dark-pop dalle chiare influenze depechemodiane, ma la classe compositiva dei P.L. non poteva essersi smarrita di punto in bianco: seppur al sottoscritto il platter non entusiasmi, va detto che la band dimostrò di sapere ancora comporre riff e scrivere brani degni di nota (la title track, “Blood of another, il singolone “Say just words”). Il pubblico decreta il successo; la EMI li recluta; risultato? Il vero passo falso: “Host”. La china è presa e le critiche per il troppo ammorbidimento del sound fanno optare i nostri a tornare sui propri passi, gradualmente già dal 2002 (“Symbol of life”) e in modo più deciso da “Paradise Lost” (2005) in avanti. Il resto, sul Paradiso Perduto, Metal Mirror lo ha già relazionato (leggi qui e qui). 

3)      ENTOMBED – “To ride, shoot straight and speak the truth” (1997). Se la svolta death ‘n’ roll vi era sembrata una bizzarria (ma validissima!), beh, dopo un paio di anni arriva questo disco a spiazzare definitivamente i fan dei padrini dello Swedish Death sound. L’amore di Andersson per il rock e lo stoner (ma anche per l’H.C. e il garage) si fanno sentire fottutamente (da notare che gli Hellacopters erano già stati formati e avevano debuttato l’anno prima). Anche qui piovono le critiche (ma è lo stesso gruppo di “Left hand path”?!?) ma il tiro di molti brani (la title track, “Lights out”, “Wreckage”) sono micidiali per potenza e tensione. Album di svolta, anche questa, a giudizio di chi scrive, riuscitissima (ribadita dal successivo “Same difference” per poi ritornare con “Uprising” al death n’ roll di “Wolverine blues”). 

4)      ULVER – “Themes from William Blake’s ‘The Marriage of Heaven and hell’” (1998). Scrivere ancora sul nostro blog dei Lupi può davvero sembrare ridondante, dato che il buon Rygg è ospite fisso da sempre sulle nostre pagine. E la sua Arte l’abbiamo sviscerata in lungo e in largo. Che dire? Mai catalogabili, sempre imprevedibili. Dopo la fucilata di “Nattens madrigal” (1997) che i norvegesi se ne uscissero con questo monumento all’avanguardia, in cui copulano allegramente, con credibilità e ispirazione massimali, ambient, elettronica ed industrial, beh…nessuno se lo sarebbe aspettato. E, da lì in avanti, non si sarebbe più tornati indietro…le sterili polemiche sull’”onestà” della band non hanno mai scalfito (per fortuna, aggiungiamo noi!) la volontà di Rygg di lavorare “in avanti” e senza paraocchi. Top… 

5)      MOONSPELL – “Sin/Pecado” (1998). Le avvisaglie le avevamo già viste nel mini”2econd skin” dell’anno prima (un titolo, un programma) in cui era contenuta anche la cover di “Sacred” dei Depeche Mode (una dichiarazione d’intenti). Ma la sterzata verso sonorità più marcatamente goth/dark-rock, con l’abbandono delle estreme asperità metal, lo abbiamo con “Sin/Pecado” che, lo chiariamo subito, è un album della madonna…(per chi scrive, nella discografia dei portoghesi, secondo solo a “Wolfheart”). Se cambiamento doveva esserci, questa fu la migliore risposta a un’esigenza di evoluzione che, lo si capisce conoscendo Ribeiro&co., è sempre stata nel DNA della band. “handmadeGod”, “Flesh”, “Magdalene”, “Let the children cum to me” (da brividi!), “The hanged man”…canzoni top una meglio dell’altra. Se “Butterfly effect” abbasserà la qualità della produzione, ma non il coraggio di sperimentare, sarà il nuovo Millennio a portare il vero beginning of the end per la band, con la restaurazione delle sonorità iniziali… 

6)      TIAMAT - “Skeleton Skeletron” (1999). Come abbiamo già avuto modo di dire sul nostro Blog, questo è senz’altro l’inizio della fine dei grandissimi Tiamat guidati da Johan Edlund. Ormai in silenzio, per fortuna, da 8 anni, gli svedesi non si sono mai saputi riprendere, nonostante i diversi tentativi, da quel clamoroso tonfo. Senza mai tornare ai fasti né della prima fase death-doom, che aveva trovato il suo apice in “Clouds” e “Wildhoney”, né della seconda dark-rock del grandissimo “A deeper kind of slumber”. “Skeleton Skeletron” (che quantomeno passerà alla storia del Metal per il titolo più osceno di sempre) marca l’apertura della pietra tombale per la band della capitale scandinava… 

7)      DARKTHRONE – “Ravishing grimness” (1999). Se “Goatlord” (1996) già non era di certo un passo in avanti (ma si trattava pur sempre di una riedizione di materiale inedito composto anni prima), il successivo “Ravishing Grimness” segna l’inizio della fine di quel sound neromarchio Darkthrone; un sound capace di afferrarti le budella e farti precipitare in un vortice di follia. Dopo il meraviglioso “Panzerfaust”, i Darkthrone non riusciranno più a ricreare quelle sensazioni. Nulla di inascoltabile, per carità (“The claws of time”, ad esempio, rimane un gran pezzo) ma i riffing maggiormente thrasheggianti, lo screaming meno lancinante, le composizioni più lineari e prevedibili e la produzione più pulita, segnano l’inizio della fine dei Nostri che, da allora, continueranno a produrre dischi in quantità (siamo arrivati a 18 a oggi!) ma senza quasi mai bucare il cuore degli ascoltatori… 

8)      DARK TRANQUILLITY – “Projector” (1999). Estasiato dall’immenso “The mind’s I”, mai mi sarei aspettato questa svolta synth-goth dalla premiata ditta Stanne&Sundin inc. Intendiamoci, il disco è ancora più che buono (l’accoppiata iniziale “FreeCard” e “ThereIn” è da pianti) e la band sa ancora piazzare staffilate melo-death di livello assoluto (“The sun fired blanks”) ma l’album col passare degli ascolti stanca e, in certe sue parti, annoia pure. Il mezzo passo falso è ribadito dal successivo, e decisamente inferiore, “Haven” (2000) che certificherà il TBofE dei Dark Tranquillity che, cercando di svoltare a U per tornare ai fasti passati, faranno ancora peggio con “Damage Done” (incredibilmente stralodato dalla critica). Ma, ormai, appunto, il… danno era fatto! 

9)      SATYRICON – “Volcano” (2002). Qualsiasi album composto dopo “Rebel extravaganza” sarebbe stato, probabilmente, un passo indietro (concettualmente e qualitativamente). “Volcano” è un buon disco ma confusionario, senza un fulcro o un’idea guida davvero riconoscibile. Ma senz’altro meglio di tutto quanto fatto dopo da Satyr&Frost. Per il resto, andate a rivedervi la Retrospettiva sugli svedesi del nostro Mementomori qui

10)   IN FLAMES – “Reroute to remain” (2002). I campioni del melo-death svedese cominciano a mostrare le prime “tendenze eretiche”, nonché i primi segni di stanca compositiva con “Clayman” (2000). Attenzione: per chi scrive, “Clayman” è un buonissimo disco, a tratti ottimo (il trittico iniziale è da top band, così come la sensazionale “Satellites and Astronauts”). Ma si intravedono quei segnali (inserimento di synth, compressione delle chitarre, mixaggio della batteria post-core oriented, cantato che vira dal growl al fry scream) che li porteranno, di lì a poco, a sganciarsi dagli stilemi che li avevano portati, a un certo punto, ad essere, senza esagerare, tra i gruppi-alfiere del Metal tutto. Ma se “Clayman” rimane un disco evoluto ma assolutamente coerente con il songwriting tipico della band di Gotheburg, il successivo “Reroute to remain” estremizza tutto quanto detto sopra, semplificando l’offerta e spostandola verso i lidi, per noi fan della prima ora, disastrosi: quelli del metal core. Non credete al titolo del disco…i Nostri “reindirizzano” non per “rimanere”, ma per cambiare residenza…per sempre…      

Eccoci giunti così, con tutti i piedi, nel Terzo Millennio…e qui si aprono nuovi scenari e altre categorie di analisi. Che però non sono oggetto della nostra presente dissertazione.

Quasi senza volere, mentre stavamo scrivendo questo post, ci siamo accorti che abbiamo chiuso un cerchio: se “Metallica”, infatti, è stato il disco simbolo di una scelta stilistica artisticamente involutiva, ma commercialmente azzeccata, per una band che aveva fatto la storia del Metal negli anni ’80, “Reroute to remain” potremmo davvero intenderlo come il suo gemello per chi la Storia l’ha fatta nella decade successiva. Un disco e una band simbolo della contaminazione anni novanta che, legittimamente, ha deciso di spostarsi su un versante che all’epoca cominciava a dare responsi clamorosi a livello commerciale E diventando un punto di riferimento in Europa e, soprattutto, negli States, dove quelle sonorità troveranno il loro mercato di aficionados e diventeranno idealtipiche di un certo modo, ahinoi, di fare metal nel nuovo Millennio
As I Lay Dying, Killswitch Engage, Avanged Sevenfold, Trivium, Bullet For My Valentine...tutte queste band, diventate culto per gli odierni metalhead under-30, devono ben più di qualcosa a “Reroute to remain” e agli In Flames… 
Invece noi, anziani e nostalgici metallari che hanno raggiunto da tempo gli “anta”, preferiamo andare a riascoltarci i “Lunar strain” e i “The jester race” di tanti, troppi, anni fa…

A cura di Morningrise