"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

14 ott 2015

TIAMAT: TRA SOGNO E DORMIVEGLIA


I MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL

3° CLASSIFICATO: “A DEEPER KIND OF SLUMBER”

Giugno 1997: usciva “One Second” dei Paradise Lost. Con questo album la band inglese imprimeva un’altra drastica svolta alla propria carriera: abbandonato da tempo il death-doom che aveva caratterizzato le origini, e lasciato alle spalle anche il pregevole gothic-metal di capolavori come “Icon” e “Draconian Times”, il Paradiso Perduto decise di approdare ai lidi della dark-wave ottantiana e del pop oscuro dei Depeche Mode. Il passaggio non fu da poco, dato che i Paradise Lost iniziarono a suonare improvvisamente diversi, più moderni, più paraculi: le eleganti e stratificate costruzioni sonore del recente passato lasciavano spazio a riff semplici e diretti, mischiati ad arrangiamenti di tastiere, pianoforte e pattern elettronici, con la voce oramai pulitissima di Nick Holmes a far loro da contorno.

Il cambio di rotta fu traumatico, ma nessuno si sconvolse. O meglio: io non mi sconvolsi. Come mai? Perché circa un mese prima era uscito, nel medesimo ambito, un album ancora più sconvolgente e portatore di drastici cambiamenti nel Mondo Metal. Maggio 1997: usciva “A Deeper Kind of Slumber” degli svedesi Tiamat.


Un utile esercizio per descrivere le distanze navigate da questi audaci esploratori che osarono, prima di tutti gli altri, spingersi oltre le Colonne d’Ercole del Metallo (vedi introduzione), è contrapporre, uno contro l'altro, l'album di approdo alla dimensione Non-Metal (da un lato) e quello che ha incarnato la forma più brutale nel passato metal (dall'altro). Nel caso dei Tiamat (nati dalle ceneri del temibili Treblinka) questa forma brutale è rappresentata dal full-lenght d’esordio “Sumerian Cry” (1990), in cui i Nostri erano dediti ad un ruvido e feroce death metal di marca svedese, che fra l'altro non nascondeva le sue simpatie per certe morbosità black metal (retroterra da cui provenivano i Treblinka). Insomma, rispetto ai Tiamat di oggi, una band completamente diversa.

Che le vesti del metal estremo stessero strette al leader e fondatore Johan Edlund fu chiaro fin dagli album appena successivi, l’ancora rozzo e claudicante “The Astral Sleep” e il già migliore “Clouds”, opera che si imponeva con prepotenza nel panorama gothic-metal dell’epoca (era il 1992), grazie ad un inedito e massiccio impiego di tastiere e voci pulite. Ma il bello sarebbe arrivato dopo: usciva nel 1994, sotto la sapiente guida di Waldemar Sorichta (già produttore di altre realtà in forte evoluzione come Moonspell e Samael), il capolavoro assoluto “Wildhoney”, ancora ascrivibile alla categoria metal, ma giusto per qualche potente riff di chitarra e per il growl di Edlund che sopravviveva sporadicamente in certi episodi. Per il resto i Tiamat avevano spostato il loro sguardo altrove: fra i primi estimatori, nel metal, dei Pink Floyd, e proprio grazie ai loro ascolti extra-metal, i Tiamat seppero portarsi avanti a tutti nel percorso di emancipazione dal metal, annettendo al loro sound la fluida psichedelia e le sontuose costruzioni sonore della gloriosa band inglese, rilette in un’ottica squisitamente dark. Il manifesto di tutto questo era la visionaria ballata “Gaia”, vertice assoluto della produzione della band, sospesa fra imponenti sinfonismi e struggenti dilatazioni chitarristiche di chiara ispirazione gilmouriana: mai il metal estremo si era spinto oltre.

Ma era ancora il 1994. Tre anni più tardi Edlund avrebbe fatto di “peggio”, dando alla luce quello che potremmo definire il suo personale capolavoro. I Tiamat di “A Deeper Kind of Slumber” non erano infatti più una band vera e propria (l’ultimo superstite dotato di intelletto era stato il bassista Johnny Hagel, che aveva cambiato casacca qualche anno prima per confluire nei Sundown, mediocre progetto electro-goth diviso a metà con Mathias Lodmalm, leader dei defunti Cemetary). Edlund, oramai padre-padrone indiscusso e detentore del più assoluto controllo sulla direzione artistica da intraprendere, decise di dare sfogo, senza più argini e barriere, al fiume in piena della sua creatività. Una creatività pungolata e sospinta da una pressante urgenza comunicativa che traeva origine da vicende biografiche: il Nostro, infatti, usciva da una importante relazione sentimentale, e come spesso capita in questi casi, si piange, ma poi ci si lascia alle spalle la vecchia vita, ci si taglia i capelli e ci si rimette a trombare. Hedlund non è da meno: si rasa a zero (che volesse voluto dimostrare di non avere le corna?) ed esce fuori dal metal. Anzi, già che c’è (fanculo tutto!) esce direttamente fuori dal rock. Del resto, per un dolore finalmente reale, vivido, non più romanzato, c’era bisogno di un nuovo medium, meno artefatto, meno plateale, più adulto ed adatto ad esprimere quel disagio.

“A Deeper Kind of Slumber”, per quanto portatore di drastici cambiamenti, fu dunque lo sbocco naturale di un’evoluzione che era partita da lontano (per questo l’album è stato compreso dai fan). L’album è infatti perfettamente coerente con quanto l’ha preceduto, perché la musica dei Tiamat, al netto del doom, del growl, dei riff imponenti, è sempre stata descrizione di sogni. E’ il mondo onirico, la dimensione privilegiata di Edlund, menestrello visionario, regista e conduttore di una vera e propria orchestra dei sogni: i Tiamat.
In occasione di “A Deeper Kind of Slumber”, egli si contorna di fedeli ed onesti mestieranti, che poco aggiungeranno in termini di estro e scrittura, ma che hanno avuto per lo meno il pregio di far sì che le visioni del mastermind potessero fluire liberamente. Il drumming cadenzato di Lars Skold (reduce dalle registrazioni di “Wildhoney”, allora presente in veste di semplice session-man) è elementare, ma è l’ideale per accompagnare le languide ballate dei Tiamat 2.0; il basso di Anders Iwers (che proveniva dagli appena dissolti Cemetary, dandosi praticamente il cambio con Hagel) è di mero accompagnamento; dietro alla seconda chitarra, infine, si nasconde il redivivo Thomas Petersson, chitarrista dei Tiamat fino ai tempi di “Clouds” (gli sarà stato sul cazzo Hagel?). Ma si parla di ruoli di contorno, poiché tutto è sorretto dalle forti spalle di Edlund, impegnato dietro al microfono (sfoggiando fra l'altro un bel canto baritonale, monotono ma espressivo), alle chitarre, alle tastiere ed alle parti di elettronica (tutto suonato con approssimazione, questo va detto, ma con gran sentimento), nonché autore di musica e testi.

La musica dei Tiamat, come si diceva, è descrizione di sogni, e proprio come un flusso onirico si sviluppa e procede “A Deeper Kind of Slumber”: un’ora di immagini soffuse dove realtà e sogno si confondono, tredici brani, tutti concatenati fra loro, come già era successo in “Wildhoney”. Solo l’openerCold Seed” emerge come un corpo estraneo: scelta non a caso come singolo apri-pista, questa rock-song dalle forti venature dark, è l’episodio più catchy, diretto ed easy-listening del lotto e tutto sommato il meno coinvolgente. Sono i Tiamat più vicini ai Sisters of Mercy quelli che meno ci piacciono: peccato che la produzione futura della band innalzerà a modello da seguire proprio questo brano.

È dalla seconda traccia, la bella “Teonanactl”, semmai, che il vero viaggio inizia, per mutarsi in un continuum di atmosfere sognanti in cui vengono amalgamate le ben note atmosfere pinkfloydiane con inediti rimandi ai Depeche Mode e suggestioni derivate dall’universo dark. La gamma di generi esplorati, in realtà, è ben più ampia, visto che con gran disinvoltura si passerà dal trip-hop fangoso di “The Desolate One”, alle intense aperture melodiche di un brano evocativo come “Atlantis as a Lover” (con il suo ritornello barrettiano e il bell’assolo di violino nel finale, essa è l’erede diretta dell’inarrivabile “Gaia”, nonché unico punto di contatto con il passato della band). Senza particolari stridori ci imbatteremo inoltre nelle divagazioni etniche di “Four Leary Biscuits” (con tanto di sitar indiano, flauto traverso e gorgheggi femminili), nel techno-pop depechemodiano dell’ottima “Only in my tears It Lasts” (uno dei momenti più intensi dell’album, forte di un pregevole assolo che evoca ancora una volta il fantasma di Gilmour), nell’EBM danzereccia di “The Whores of Babylon”.

La primaverile “Kite” (breve interludio strumentale) apre alla fase finale dell’album, composta da un trittico di brani al cardiopalma, specchio ideale dei dolori del giovane Edlund: si passa così dagli uccellini alla pioggia battente, dalla bucolica “Phantasma de Lux” (folk-ballad dai risvolti apocalittici), alla lunghissima “Mount Marylin” (dieci minuti di sublime rarefazione pinkfloydiana), fino alla dolente title-track, posta significativamente in chiusura: un brano dove i nuovi Tiamat si esprimono al loro meglio, portando all’eccesso, ed in una sintesi perfetta, l’anima visionaria e quella cantautoriale dell'affranto Edlund.

Dark? Rock? Cantautorato? Psichedelia? Elettronica? Electro-pop? “A Deeper Kind of Slumber” è un laboratorio in cui il musicista svedese fa confluire tutte le sue pulsioni, senza maschere, citando senza remore modelli per lui irraggiungibili, ma sapendoli rielaborare in un’ottica personale che lo innalzano a cantautore. “A Deeper Kind of Slumber” sarà anche l’ultimo lavoro davvero bello ed ispirato dei Tiamat, che dal successivo “Skeleton Skeletron” (che titolo del cazzo…), sedotti dalle sirene del mainstream, cambieranno pelle ancora una volta per appiattirsi su un sempliciotto goth-rock da classifica, assolutamente privo di quel fascino che avevano emanavano i loro vecchi lavori, compresi i primissimi. Consoliamoci andando a riascoltare questo insuperato capolavoro...


Sogni d'oro a tutti...