Niente revisionismi storici questa volta: la carriera dei Tiamat, ridendo e scherzando, conta ad
oggi dieci album, di cui una buona
metà (la seconda, per l'esattezza) è da considerare tutt'altro che
imprescindibile, per la storia del gothic
metal come per i fan più accaniti
della band svedese.
I primi cinque capitoli della saga hanno testimoniato una prodigiosa
ascesa che ha visto i Nostri (ed in particolare il loro deus ex machina Johan Edlund) rivestire in modo
vincente il ruolo dei grandi pionieri: i Tiamat, prima di tutti gli altri,
seppero infatti traghettare il loro ruvido death/black delle origini al di
fuori dei cancelli del Reame del Metallo,
passando, di album in album, attraverso forme sempre più raffinate di gothic
metal, dove la psichedelia pinkfloydiana aveva recitato una
parte fondamentale. Nessuno era "avanti" come i Tiamat negli anni
novanta, nemmeno i Paradise Lost, a
cui va riconosciuta la paternità di certe sonorità.
Poi il brusco arresto, il niente
improvviso, la caduta verticale: un insensato appiattimento verso
soluzioni banalmente goth-rock e cinque album che si riveleranno essere
una sequela di maldestri tentativi di riabilitare un nome brutalmente
infangato. In questi cinque lavori la missione artistica dei Tiamat non ha
saputo trovare un equilibrio soddisfacente fra triviali tentazioni da mezza
classifica e il recupero, più o meno sincero, di quelle sonorità che avevano
caratterizzato il periodo d'oro della band: una sequela di urticanti salti
indietro e in avanti volti a sedurre ora fasce di nuovi ammiratori, ora i fan della prima ora. Ma al di là del
reale successo e dei benefici economici portati da queste manovre (aspetti che
peraltro ci interessano poco), vi è un fondamentale dato di fatto da rilevare: Johan
Edlund ha smarrito la bacchetta magica!
Senza rinnegare la grandezza
di una band che ha saputo rivoluzionare l'universo del gothic metal, ci
addentreremo così nei tristi corridoi di questa tragica seconda metà di carriera, che, senza pudore, abbiamo
ribattezzato "gli Anni della Merda".
"Skeleton
Skeletron" (1999)
Già il titolo ad alto tasso di
demenza (che seguiva invece una serie di titoli azzeccati come "The Astral Sleep", "Clouds", "Wildhoney", "A Deeper Kind of Slumber") è
eloquente nell'introdurre i contenuti mediocri di questo sesto full-lenght e primo
passo falso di una carriera che non aveva ammesso inciampi fino a quel momento.
Non è da meno la copertina, la quale abbandona la magia di forme e colori che
aveva caratterizzato quelle precedenti, per ritrarre in rinnovata veste
"dark" i tre componenti del gruppo (ricordiamo che nel frattempo i
Tiamat si erano riconvertiti in un power-trio, con Edlund factotum e i
fidi Anders Iwers e Lars Skold rispettivamente a basso e
batteria). Nonostante questi segnali assai chiari, il fan si getterà con grandi speranze nell'ascolto, aspettandosi il
degno seguito di un capolavoro quale era stato "A Deeper Kind of
Slumber". L'album invece si rivelerà, almeno ad un primo impatto,
un'esperienza agghiacciante, anche per coloro che avevano auspicato un ritorno
al metal. Brani catchy, diretti,
semplici, che fanno il verso in modo imbarazzante ai Sisters of Mercy ed alla darkwave
ottantiana. La scrittura poco ispirata, la pochezza esecutiva, il vocione
monocorde di Edlund fanno il resto e il singolo apripista "Brighter than the Sun", più che
trainare il tutto, diviene il triste prototipo di quello che i Tiamat sono
divenuti e vorranno essere in futuro (e pensare che qualche miope scribacchino
ben accolse il brano, visto come un gradito ritorno al metal dopo la svolta "cantautoriale" dell'album precedente). Ma non bisognerà solamente
dire addio a brani-capolavoro come "Gaia"
e "Whatever That Hurts",
bensì prendere atto che la musica degli svedesi non sarà più un unico magico
flusso (dove i brani erano un tempo concatenati fra loro), ma una manciata di
canzonette, a tratti persino mal assortite. Lì per lì una tremenda doccia
fredda; con il senno di poi, ed alla luce di quello che verrà dopo, v'è da
riconoscere che qua e là sopravvivono tracce dell'antica ispirazione, guarda caso
appena i Nostri smettono di "rockeggiare". E' il caso di "To Have and Have not" (ballata che
non avrebbe sfigurato in "A Deeper Kind of Slumber"), "Best Friends Money Can Buy"
(gradito "notturno" à la Nick Cave) e l'apocalittica conclusione
affidata a “Lucy" (unico
episodio davvero degno dei fasti del passato).
Voto: 5
Breve
parentesi: nel 2001 esce
"This Dollar Saved my Life at
Whitehorse" (un titolo, un programma!) dei LucyFire, progetto solista
di Edlund. Qui il nostro gotico depilato riesce a fare anche di
peggio, volgendo lo sguardo oltre oceano e dandosi totalmente al verbo del rock
scanzonato (non ci verrà nemmeno risparmiata una cover degli ZZ Top...): cresciuto a pane e Pink
Floyd, Edlund sembra aver scoperto il rock'n'roll a trent'anni…complimenti! La speranza all'epoca era che
quest'album costituisse una sana valvola di sfogo affinché il Nostro tornasse
con la band madre sulla retta via dell'introspezione, ma niente: come vedremo,
egli continuerà a perseverare nell'errore. L'unica spiegazione possibile, a
questo punto, è che qualche tipa abbia succhiato talmente bene l'uccello ad
Edlund da far sì che egli si montasse la testa e si pensasse come una rock star dotata di sex appeal e dal forte potenziale commerciale...
"Judas Christ" (2002)
Altro titolo del cazzo, altra
copertina inguardabile, stesso andazzo di "Skeleton Skeletron".
Questa nuova uscita, tuttavia, godette di un vantaggio non da poco rispetto
all'album precedente: quello che nel frattempo le aspettative erano
drasticamente crollate. Diviso in quattro parti, l'album dà la parvenza, almeno
a livello formale, di voler ripristinare quell'idea di concept-album che aveva animato i capolavori del passato; la band,
inoltre, sembra più rodata e a suo agio con le nuove sonorità, tanto che in un
primo momento si ha l'impressione che le cose vadano meglio. Ma sarà
l'impressione di un attimo, perché ben pochi dei dodici brani qui presenti
supereranno la prova del tempo. L'opener
"The Return of the Son of Nothing"
aveva fatto ben sperare, riproponendo chitarre doomish e recuperando quello spirito visionario che aveva soffiato
entro le migliori composizioni dei Tiamat. Il resto, tuttavia, si assesterà
sugli stilemi di un goth-rock assai derivativo, dove i fantasmi del rock
settantiano e persino del country (eredità nefasta dell’esperienza LucyFire) iniziano a far
capolino in modo inquietante. Fra questi solchi potremmo salvare (ad essere
buoni) il singolo "Vote for Love"
(dall'indiscutibile appeal radiofonico)
e la ballata "Love is as Good as
Soma", che, senza lontanamente vedere le vette del passato, ha
perlomeno il pregio di liberarci per un attimo da quella formula "mordi-e-fuggi" di cui oramai la
band sta abusando senza quell'acume commerciale che in certi casi diviene
indispensabile. Ma il problema non sta solo nella penna poco ispirata di Edlund,
bensì in un ensemble di musicisti
mediocri che, nonostante una produzione e dei suoni maggiormente focalizzati
che in passato, sembra non voler andar oltre il classico compitino: fiacca la
sezione ritmica, ininfluente l'apporto del redivivo chitarrista solista Thomas Petersson, che a fasi alterne
aveva collaborato ed avrebbe continuato a collaborare con la band senza mai
determinarne il corso artistico, che si sa, nel bene e nel male rimane
appannaggio esclusivo del solo Edlund.
Voto:5,5
"Prey"
(2003)
Annunciato con gioia come un ritorno
al glorioso passato, "Prey"
segna senz'altro una lieve ripresa
rispetto agli episodi appena precedenti, ma certifica il precario stato di
salute della band, la quale si mostra in visibile difficoltà tattica, nel
tentativo di aggiustare il tiro, senza però saper tornare a quei livelli che ne
avevano decretato il carattere vincente nel corso degli anni novanta. Già il
canto degli uccellini vorrebbe richiamare il capolavoro "Wildhoney", ma le fattezze della
pur buona opener "Cain" ci fanno subito capire che
in realtà i "nuovi" Tiamat non sono poi così diversi da quelli dei
due album precedenti. La prima parte dell'album non è affatto male, inanellando
esso una serie di brani riusciti, come la ballata "Wings of Heaven", il gothic rock seducente di "Love in Chains" e soprattutto il
gioiello "Divided", che
potremmo definire il momento più alto della recente produzione discografica
della band: una gothic song che si
fregia di riff di chitarra ispirati,
avvolgenti tastiere, un pizzico di elettronica e suadenti voci femminili (per
non farsi mancare nulla). La successiva "Carry Your Cross and I'll Carry Mine", ancora illuminata da
una voce femminile, aveva fatto quasi presagire che qualcosa in effetti fosse
cambiato (in meglio), ma poi, purtroppo, improvvisamente l'album si spegne,
ripiegando su una serie di brani assai poco convincenti che dimostrano quanto
siano poveri i Tiamat appena inizia a latitare l'estro di Edlund: passo fiacco,
soluzioni e melodie già sentite mille volte e ritornelli poco incisivi vanno
così ad affossare quello che poteva essere l'album della rinascita. Peccato.
Voto:
6,5
"Amanethes"
(2008)
La band è in piena crisi
identitaria: lo dimostra la decisione infelice di tornare al metal estremo delle origini. La
doppia-cassa e il growl rispolverato
del brano iniziale "The Temple of
the Crescent Moon" sono a dir poco frustranti, ma mai quanto l'incipit
black (con tanto di riff sfrigolante
e blast-beat) della successiva "Equinox of the Gods", che
addirittura ci riporta alle sonorità dell'esordio "Sumerian Cry". Quel che è peggio, tuttavia, è che
"Amanethes" non è un ispirato ritorno alle sonorità gothic-death del passato (cosa che fra
l'altro non era auspicata neppure da molti), ma un pastrocchio eterogeneo che,
in modo disordinato, cerca di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, in un
contesto di pochezza di idee disarmante (già, nel frattempo i Nostri erano
tornati in tre, facendo a meno di un chitarrista solista che potesse fare la
differenza almeno in qualche passaggio). Non viene dunque disconosciuta la svolta
dark-wave intrapresa nel decennio
precedente e neppure si rinuncia a certe sonorità country-rock che oramai sembrano essere divenute un ingrediente
imprescindibile della ricetta dei "nuovi Tiamat". Spicca, in tal
senso, la pessima "Meliae",
punta di diamante di una sequela di scelte infelici, quando è chiaro a tutti
che i Tiamat vincono quando puntano sull'atmosfera. Su questo fronte non
mancheranno momenti pregevoli come il gioiello "Will They Come", che ci riconsegna un Edlund cantautore, la
cui voce roca questa volta va ad impreziosire una ballata in stile Tom Waits: una via decisamente
interessante che poteva essere percorsa e sviluppata, ma che invece va a
costituire solo una delle tante anime di questi Tiamat che sembrano aver
smarrito definitivamente la bussola. "Misantropolis",
che si muove più o meno sulle stesse coordinate, e l'onirica "Cricles", con tanto di ricami di
voce femminile, sono di fatto la dimostrazione lampante che ad Edlund la cosa
che riesce meglio è essere se stesso. Peccato che sia l'unico a non averlo
capito...
Voto:
4,5
"The
Scarred People" (2012) L'ultimo (ad oggi) parto
discografico dei Tiamat aggiusta nuovamente il tiro, scrollandosi di dosso
ancora una volta la scorza estrema e ritrovando una dimensione confortevole nel
solito gothic-rock da mezza classifica, via via animato da qualche soluzione pinkfloydiana. Il risultato è un pelino
migliore di quanto combinato con il predecessore, un po' perché il sound nel complesso guadagna in
omogeneità, un po' per l'innesto del nuovo chitarrista Roger Ojersson, che con i suoi assoli dal gusto gilmouriano va a gettare sale su una
pietanza altresì appiattita dalle gesta di musicisti che proprio non ne
vogliono sapere di progredire tecnicamente. Quanto all'ispirazione, oramai essa
va e viene. La title-track rinnova la tradizione dei singoli ruffiani, sebbene
i suoni appaiano fin dall'inizio più duri ed oscuri; qua e là troveremo ancora
qualche sparuto screaming a
testimoniare l'eredità di un album come "Amanethes". Ma come al
solito il meglio lo troviamo quando si allontana il piede dall'acceleratore,
ossia nell'accoppiata "Radiant Star"/"The Sun Also Rises", le quali
riscoprono il lato più sognante e visionario della band. Da menzionare anche
"Love Terrorists", un
episodio anomalo che sa mettere insieme parti soft ed un bel ritornello epico che tributa ancora i Sisters of
Mercy, ma in modo più convincente del solito. Ahimè, non verremo dispensati dall'ennesima
ninnananna western che questa volta
porta il nome di "Messinian Letter":
uno dei vari cali di tensione che ahimè affossano un album che già di suo si
reggeva su un fragile equilibrio fatto di (pochi) brani riusciti e altri senza
infamia e senza lode. Questa la triste
storia dei Tiamat dal 1999 ad oggi…
Voto:
5
Per concludere, come fatto già
con i Metallica, proviamo a tirare
giù la scaletta di quello che poteva essere un unico decente album licenziato
dai Tiamat nei loro ultimi venti anni di carriera, raccogliendo i migliori
momenti di cinque lavori non proprio entusiasmati. Un album che avrebbe potuto chiamarsi "Darkhoney" o anche "A Darker Kind of Slumber":
1) "The Return of the Son of Nothing" (“Judas
Christ”)
2) "Wings of Heaven" (“Prey”)
3) Vote for Love (“Judas Christ”)
4) "Radiant Star" (“The Scarred People”)
5) "The Sun Also Rises" (“The Scarred People”)
6) "Divided" (“Prey”)
7) "Will They Come" (“Amanethes”)
8) "Best Friend Money Can Buy" (Skeleton
Skeletrons”)
9) "Cain" (“Prey”)
10) "Lucy" (Skeleton Skeletrons”)
Voto: 7