17 nov 2021

BENTORNATI RAGAZZI!


E’ di qualche giorno fa la notiziona che i Porcupine Tree pubblicheranno nel 2022 un nuovo album, dopo ben tredici anni di assenza dal mercato discografico (l'ultimo lavoro rilasciato dalla band, "The Incident", risaliva al 2009). 
 
Closure/Continuation” - cosi si chiamerà l'ultimo arrivato in casa Porcupine - piace già dal titolo, evocando esso l'idea del completamento di un ciclo ed al tempo stesso presupponendo il recupero di un percorso interrotto, ma sotto nuovi auspici. Proprio quello che voleva sentirsi dire un fan dei Porcospini dopo cosi tanti anni di attesa! 

Ovviamente la release discografica coinciderà anche con un pronto ritorno sul palco e la cosa non può che far saltare dalla sedia ogni appassionato di prog ed ovviamente tutti coloro che in questo infinito lasso di tempo si sono sentiti orfani della band di Steven Wilson

In verità non è mai stato annunciato lo scioglimento dei Porcupine Tree, i quali hanno semplicemente "dormito" in attesa che il loro demiurgo si ricordasse di loro. Che poi - uno si chiede - che bisogno aveva Wilson di scollegarsi dallo storico monicker e concentrarsi su una carriera solista, visto che ha sempre avuto il controllo assoluto sulla sua creatura? Probabilmente il Nostro avrà avuto la necessità di svincolarsi da certe dinamiche compositive, ed infatti gli album di Wilson suonano un po’ diversi rispetto a quelli rilasciati dalla band. 

La luna di miele con i fan dei Porcupine era comunque continuata per un bel po’, in particolare con il trittico “Grace for Drowning” / “The Raven that Refused to Sing (and other Stories)”/ “Hand. Cannot. Erase”, dove si era espressa una freschezza compositiva che rilanciava il Wilson-autore rispetto alle ultime altalenanti prove in studio dei Porcupine. Detto questo, la virata pop-rock di album come “To the Bones” e “The Future Bites” ha fatto storcere il naso a molti, non tanto per pregiudiziali di ordine stilistico, quanto per la direzione che la penna del megalomane Wilson aveva preso, avventurandosi sempre più lontano dal rock progressivo tout court, ambito in cui il Nostro era divenuto nel corso degli anni una vera autorità.

Perché questo glielo si deve riconoscere: Wilson è un cazzo di musicista, nel senso che egli è un grande autore e "regista" soprattutto nell'ambito della musica suonata. E per quanto pretenda di voler giudicare obsoleta l’idea di un rock che si era originato e sviluppato nel corso degli anni sessanta e settanta, quella è e rimane casa sua, ovviamente con tutti gli aggiornamenti possibili in termini di innovazione tecnologica che uno studio di registrazione oggi può mettere a disposizione.  

E me ne sono ricordato proprio in questi giorni che, per nostalgia, mi sono andato a rivedere sul Tubo l’esecuzione dal vivo di pezzoni come “Arriving Somewhere but Not Here” ed “Anesthethize”: superbe suite dove si andava ad esprimere alla perfezione l'assoluta padronanza da parte di Wilson della grammatica del rock. E i due esempi fatti sopra non sono ovviamente casi isolati, perché un'altra cosa che bisogna riconoscere a Wilson è la capacità, non solo di realizzare composizioni lunghe e complesse, ma anche di saperle riproporre impeccabilmente dal vivo, cosa non alla portata di tutti e soprattutto da non sottovalutare in un mondo, quello odierno, in cui hanno finito per prevalere l'attitudine o l'ostentazione di un approccio concettuale che il più delle volte non sono altro che un modo per mascherare carenze tecniche o di visione. 

Ed ecco che esce il singolo “Harridan”, il primo brano a firma Porcupine Tree che si può udire dai tempi di “The Incident”. Ed è proprio da “The Incident” che si riparte, visto che il materiale da cui scaturisce il nuovo album sembrerebbe esser stato ripescato da nastri in cui erano immortalate sessioni di quel periodo. E che dire: “Harridan”, tanto per iniziare, non è il branetto pop che potevamo aspettarci per il rilancio del progetto nell’era post-solista (tendenza a cui non erano estranei nemmeno gli stessi Porcupine perché - altra cosa da riconoscere - il talento melodico di Wilson e la malleabilità della sua concezione musicale gli hanno permesso talvolta di confezionare anche perlette pop dall’indubbio appeal radiofonico). L'antipasto servitoci da Wilson e soci è invece una "osservazione" di oltre otto minuti che fa veramente ben sperare per il futuro. 

I nuovi Porcupine si avventano sulle nostre orecchie con un travolgente groove di basso e ritmiche intricatissime, per poi alternare in modo fluido tecnica e melodia, parentesi di quiete e assalti sonori che sfiorano il metal. E che gioia per le nostre orecchie! Se nella prima parte si viene trascinati dall'irruenza ritmica (non badando a linee vocali un po’ risentite - ma del resto Wilson inizia ad avere i suoi annetti alle spalle), la seconda parte è un capolavoro prog-metal con porzioni strumentali che ben delineano la poetica della band dell’ultimo periodo, fra King CrismonTool (e, perché no, Meshuggah?) e graditi sconfinamenti nell'elettronica. Fra i gangli di sezioni ritmiche al cardiopalma e incursioni di note oblique, serpeggia un'inquietudine urbana che va definitivamente a soppiantare le atmosfere sognanti di inizio carriera. Del resto, con i tempi che corrono, che cosa vi aspettavate? 

A dire di Wilson stesso, a marcare la distanza fra il suo repertorio solista e il nuovo materiale sarebbe proprio l’alchimia dei tre musicisti che, intrecciando i loro stili peculiari, avrebbero saputo dar vita ad un unicum che non poteva che essere ricondotto al DNA inconfondibile della band. Gavin Harrison è divino dietro alle pelli, picchia che è una bellezza e certo gli anni di tour con i King Crimson lo hanno tenuto ben allenato. Quanto a Richard Barbieri, è un grande piacere risentire i suoi sintetizzatori che, infilati fra le chitarre taglienti di Wilson, ci riportano a quella inquieta psichedelia che ha sempre striato il prog dei Porcospini. Non farà parte della partita i buon Colin Edwin, il quale ha deciso di non riunirsi agli ex compagni. Poco male: Wilson, che lo sostituirà nella release, sembra disinvolto anche alle quattro corde e si mostra deciso a non far rimpiangere il bassista. 

Il risultato è a dir poco esaltante e, senza voler a tutti i costi sparare sulla Croce Rossa, azzera tutti gli sforzi recenti in studio da parte dei Dream Theater, ancora  una volta fiacchi e a corto di idee (il loro ultimo “A View from the Top of the World” delude indubbiamente le aspettative, nonostante la tecnica profusa e la quantità di note messe a disposizione). Ma il discorso è sempre il solito: un altro talento di Wilson (ma quanti talenti ha Wilson?) è quello di saper valorizzare soluzioni ed idee, ben individuate, circoscritte e sviluppate, talento che certo non possiamo attribuire a John Petrucci, da sempre vittima della sua incapacità di censurarsi e variare prospettiva (in particolare da quando ha divorziato con Mike Portnoy). 

Non si può dire, infine, che Wilson abbia stravolto la poetica della sua band (ha già pensato a stravolgere se stesso con i suoi ultimi lavori solisti), era semplicemente tempo di tornare all’ovile, suonare ed arrangiare musica. E se il buon giorno si vede dal mattino, c’è veramente da ben sperare! 

Bentornati ragazzi!