Sono davanti all'Islington Assembly Hall, qualche minuto
prima delle sette, l'ora in cui si sarebbero dovute aprire le porte del locale.
In realtà, per "problemi tecnici di allestimento", l’attesa durerà
un'ora buona, consumata “in allegria” al ghiaccio novembrino di Londra.
Eccoci finalmente al termine
di questo “lungo concerto degli Ulver”…
Mentre sono in fila riconosco il volto da ritardato di quel buttafuori che l'anno scorso, in occasione del concerto sold out degli Swans (sempre qui all’Islington Assembly Hall), mi fece capire con modi inutilmente bruschi che senza biglietto potevo tornarmene anche a casa perché di biglietti non ce n’erano più (bastardo maledetto!). Provo un odio profondo per questi energumeni prestati al mondo della cultura e dello spettacolo, arroganti, rozzi ed insensibili innanzi ai sentimenti delicati di chi ha una passione e vorrebbe coronare il sogno di una vita vedendo dal vivo i propri beniamini. Gridano, sghignazzano fra loro, annunciano ritardi su ritardi, controllano borse e biglietti con prepotenza mista a seriosità: la seriosità di chi ha una fede incrollabile in quello che fa (ma se ne vadano in culo!)
Tanto per aggiungere merda
alla merda, ecco sopraggiungere un gruppetto di musicanti di strada che ci
affianca intonando il tema de La Pantera
Rosa, sorridendo, chiedendo soldi e facendo un casino che nella mia
fragilità tollero a fatica (accidenti ai
superficiali!).
Ci fanno entrare finalmente:
l'Islington Assembly Hall è il classico ex teatro riconvertito in locale (in
sincerità me lo aspettavo più ampio e figo). I pochi al momento presenti si
approssimano al palco (ma nel corso della serata il salotto degli Ulver avrà modo di riempirsi). Mi aggiro finalmente
sereno (sono dentro! sono dentro!)
con una birra in mano per farmi un'idea di che razza di "pesci nuotano nell'acquario degli Ulver".
Gente normale: i cosiddetti invisibili che non ti colpirebbero mai se
incrociati per la strada. Pochi metallari tutto sommato, e quei pochi sono blackster. Mi par di capire che qua il
pubblico sia principalmente composto da appassionati di shoegaze. Gli altri
sono calvi con barba. Poche ragazze tutto sommato, e quelle poche accompagnate
da blackster. Scorgo anche qualche
personaggio "strano", ma nel complesso prevale semplicità e basso
profilo. Del resto chi sono io per
giudicare? Alla fine mi mimetizzo bene fra questa marmaglia.
Siccome sono buono, voglio
dedicare un paragrafo a Stian Westerhus,
incaricato di aprire la serata. Il chitarrista norvegese si presenta sul palco
come il classico artista devastato emotivamente, ma in realtà è semplicemente
ubriaco fradicio, lo si capisce dalle parole impastate che gli escono dalla
bocca fra un pezzo e l'altro. La sua chitarra vomita elettricità frastornante,
fra effetti, feedback, arpeggi
elettrificati, riff elefantiaci e sublime
poesia nordica. Quando ad un certo punto suonerà il suo strumento con un
archetto, non ci sentiremo lontani dai paesaggi innevati ritratti dai Sigur Ros. La sua voce è un sibilo
stralunato che ricorda interpreti disastrati come Scott Walker e Antony
Hegarty (alias Anohni).
Una mezz'ora pregevole, in
definitiva, quella di Stian Westerhus. Ma se vi ho parlato di lui non è perché sono buono (ebbene sì, vi ho
mentito!), ma per una ragione ben precisa: ad un certo punto
della sua esibizione fanno l’ingresso sul palco un batterista ed altri
musicisti che si pensava lo accompagnassero nella seconda parte del set. Ed invece erano gli Ulver! Dopo
tanti concerti è la prima volta che assisto ad un fenomeno del genere, che oserei definire persino geniale, ossia spalla ed headliner che si avvicendano in questo modo, senza pausa per
intenderci. E con l'ingesso di Kristoffer
Rygg possiamo finalmente dire: stiamo
assistendo ad un concerto degli Ulver!
L’introduzione è lunga e ricca
di pathos, per magia le distorsioni laceranti del chitarrista, prima
accompagnate da batteria e percussioni, poi da tastiere ed effetti, si
trasformano in "Nemoralia".
L’impiego delle luci è dir poco spettacolare. I figuri sul palco, compreso
Westerhus, sono sei: chitarra e batteria sulla sinistra, due postazioni di
tastiere/laptop dietro, un
percussionista a destra ed al centro Rygg, diviso fra una drum-machine ed altri macchinari non definiti. Sinceramente
parlando, non poteva esserci inizio migliore. Vuoi vedere che gli Ulver ci sorprendono?
La voce di Rygg ci arriva
forte e chiara, possiamo quindi tirare un sospiro di sollievo. La sua prestazione
non sarà impeccabile, come se il Nostro conservasse un che di dilettantesco nonostante la lunga "gavetta" alle spalle, ma
a tratti, quando sento quella voce inasprirsi, non posso non pensare "Cazzo! Ma questa è la stessa voce di
"Bergtatt", de "La Masquerade Infernale"!!"
Momenti indubbiamente magici per il sottoscritto, un po' minati, o forse enfatizzati (non si
capisce bene) da una timidezza che ha del tenero: mai visto un cantante così
lontano dall’ambizione di essere un front-man.
La scenografia lo aiuta nascondendolo nell'oscurità la maggior parte del tempo,
laddove lo spettacolo (luci, laser ecc.) si svolge qualche spanna sopra la sua
testa. I gesti sono impacciati e fuori contesto, l'interazione con il pubblico
si limita a degli strozzati "thank
you so much" e certo il look
"urban" con felpa e
cappuccio calato perennemente sul capo lo protegge ulteriormente dagli sguardi
indiscreti.
Meno male che c'è Stian
Westerhus, dico io. In un contesto di esecutori un po’ ingessati (Rygg
compreso) l'unico artista è lui, generatore di vita pulsante per tutto il
concerto. I brani dal vivo si tingono di
rock grazie a lui, con batteria e chitarra a prevalere sui pattern elettronici. Quando gli Ulver si
limitano ad eseguire, in verità un po’ deludono: per noi ricercare i
preziosismi e le sfumature che caratterizzano le versioni dei brani in studio,
si rivelerà una tattica perdente. Quando invece ampliano, estendono, modificano,
improvvisano, reinventano, gli Ulver indubbiamente convincono.
Convincono laddove escono
dagli schemi, come nel finale incendiario di “Rolling Stone”, con Westerhus letteralmente posseduto dalla sua
chitarra ed autore di una jam
torrenziale con picchi noise di una
intensità incredibile; rapiscono nell'introduzione di pianoforte della
splendida "So Falls the World"
(ai limiti del rituale esoterico, con solenni colpi di tamburo a fare da contrappunto) ed incantano nell'incipit ambient (glaciale, deliziosamente onirico) della ancora più
intensa "Angelus Novus". Esaltano
infine nella coda infinita di "Coming Home",
vera sorpresa della serata: fra kraut-rock (chi ha detto “Tago Mago”?), kosmische musik (con il Klaus Schulze di “X” come
riferimento primo) e i ritmi trascinanti della techno-rave (evidente
l'influenza del produttore Youth), è
forse questo il momento più esaltante della serata: paradossale se penso che “Coming
Home” è il brano che meno mi era piaciuto dell'album.
Finisce così "The Assassination of Julius Caesar": quali
scenari si sarebbero adesso delineati? Non nutrivo grandi aspettative sulla scaletta.
Certo, se prima di andare mi avessero detto che l’unico "extra”, come
nelle date dello scorso tour, sarebbe
stato "The Future Sound of Music",
mi sarei decisamente dichiarato deluso. Ebbene si sarebbe
comunque trattato di un estratto dal mitico "Perdition City", ed invece nemmeno questo abbiamo avuto
stasera! I Lupi completeranno l'esibizione con la riproposizione per intero
dell'EP fresco di stampa "Sic
Transit Gloria Mundi".
Eppure non rimarrò
insoddisfatto da questa scelta. Anzitutto perché chi ha presenziato alla data di
Londra può dire di aver visto quei pezzi eseguiti dal vivo per la prima volta.
E poi i due inediti, “Bring Out Your
Dead” ed “Echo Chamber “(Room of
Tears)”, sono due ottimi brani che ci mostrano una band in forma smagliante,
ben focalizzata negli intenti e maturata ulteriormente nel maneggiare la
materia synth-pop. Personalmente parlando, li ho trovati persino migliori di certi episodi dell'album
da cui sono stati “scartati”: mi erano piaciuti ascoltandoli in rete, ma dal
vivo rendono ancora meglio, valorizzati da musicisti che sembrano aver trovato
il giusto mood proprio in questo
stralcio finale di concerto.
Il paradosso dei paradossi è
che le emozioni migliori arriveranno niente meno che con la rivisitazione di
"The Power of Love",
classicissimo dei Frankie Goes to
Hollywood. Cioè: ascolto gli
Ulver dal ‘95, sono passato dal ferro e dal fuoco del black metal, del folk
ancestrale, dei suoni “urban” del trip-hop e dell'elettronica, da quelli “eterni”
dell'ambient e del kraut, ma ad emozionarmi più di ogni altra cosa stasera è stata
la cover di una canzone d'amore pop degli anni
ottanta! L’interpretazione di Garm (lo posso chiamare così almeno una volta?)
è sentitissima, calda, appassionata, epica (che sia l'epicità il vero filo conduttore di tutta la carriera degli Ulver?). E forse, dietro alla “maschera” di un brano
di artisti altrui, il cantante/non-frontman
si sente finalmente a suo agio. Il pubblico canta in coro il
ritornello, la serata vola finalmente, come direbbero i Moonspell, a “tragiche altezze”. Peccato che il concerto finisca
proprio adesso, sul più bello.
Alle 11:27pm circa, dopo
nemmeno un'oretta e mezza, si
conclude il “lungo concerto” degli Ulver, quell'evento che ho atteso
ardentemente per mesi, anzi per anni. Sapevo del resto che sarebbe durato poco, e per
quello che è durato posso ritenermi soddisfatto. Gli ingredienti ci sono stati
tutti, dai momenti intimistici alle baraonde massimaliste. Potremmo anche dire che
agli Ulver di oggi piace vincere facile, ma sono pur sempre gli Ulver, e le loro
peculiarità, nel bene e nel male, si sono materializzate anche sulle assi del
palcoscenico.
Se devo tracciare un paragone
con i colleghi Sunn O))) (con cui Rygg
ha collaborato a più riprese e con i quali in certe circostanze è stato persino
diviso il palco), mi tocca sostenere che Anderson
e O' Malley sono infinitamente
avanti per quanto riguarda la dimensione live,
sia a livello di resa sonora che di impatto visivo. Gli Ulver, con la loro
storia, le loro capacità e le loro ambizioni, potrebbero fare un salto di
qualità anche dal vivo, ma dopo una carriera più che ventennale ed un concerto
"lungo" quasi dieci anni, non so se è lecito sperare in significativi
miglioramenti su questo fronte.
Per questo, consapevoli dei
limiti consolidati (e confermati a più riprese) di una band che nonostante
questi limiti continuiamo ad amare appassionatamente, ci conviene essere
critici meno severi e dare agio al nostro lato più sentimentale. E dunque
tenerci strette le grandi emozioni di stasera!
Nonostante
tutto, grandi Ulver!