"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

16 nov 2018

DETROIT'S ROCKPOLITIK - PARTE SINISTRA: GLI MC5

 

Detroit, Michigan, Stati Uniti d’America. L’iconica Motor City.

Colpita nel 2008 dalla tremenda crisi dell’automobile e nel 2013 dalla più grande bancarotta pubblica che gli States abbiano mai conosciuto, la città ha subito una lunga depressione che l’ha portata a perdere praticamente 2/3 della sua popolazione, passata dai quasi 2 milioni di abitanti degli anni ’50 ai poco più di 600.000 attuali.

Lo sviluppo dell’industria automobilistica nel secondo dopoguerra volle dire grande attecchimento della classe operaia (chi ha pensato alla nostra Torino?), per lo più afroamericana. Working class fortemente politicizzata che abbracciò in larga parte l’ideale del riscatto dei neri e il movimento che quell’ideale incarnava: le Pantere Nere, l’organizzazione nata nella seconda metà degli anni ’60 e sostenitrice del c.d. black power.

Se le Black Panthers le conosciamo tutti (grazie anche a una delle foto più famose del Novecento, quella che immortala Tommie Smith e John Carlos col pugno alzato e i piedi scalzi, sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968), credo che in meno conoscano le Pantere…Bianche! Ebbene, anche il White Panther Party, fondato nel 1968, ebbe un ruolo importante nella società americana dell’epoca (per lo più di appoggio proprio alle Black Panthers), per la sua marcata ideologia di stampo marxista, anti-razzista e anti-capitalista. E chi era uno dei leader e fondatori delle White Panthers? John Sinclair, manager, ideologo nonchè curatore delle note di copertina dei Motor City Five. Gli MC5, appunto. Perchè, citando i Kiss, Detroit, oltre ad essere la Motor City è anche...Rock City!

Per questo Scontro fra Titani di stampo politico-musicale, partiamo dalla sinistra; e non lo potremmo fare se non da loro, quei 5 matti guidati dai leader Rob Tyner (voce), Wayne Kramer (chitarra solista) e Fred “Sonic” Smith (chitarra ritmica), vera e propria leggenda del rock più sovversivo ed estremista, capaci di proporre quanto di più dissacrante e politicamente scorretto la Musica del Diavolo avesse saputo produrre fino a quel momento

Se la critica musicale riconosce negli Stooges i padrini del garage rock e in Iggy Pop il suo profeta, beh, allora sappiate che gli MC5 meritano di stare di diritto affianco (se non davanti) alla ben più celebre Iguana per l’importanza rivestita in tutto il movimento garage/proto-punk/hard rock che a inizio anni settanta si sarebbe sviluppato di qua e di là dell’Atlantico. Se infatti il primo, mitico, omonimo album degli Stooges uscì nel giugno del 69, il debut degli MC5, “Kick Out The Jams”, aveva già fatto irruzione sul mercato discografico 4 mesi prima, a febbraio, raccogliendo le registrazioni di uno dei loro show incendiari al Grande Ballroom di Detroit (e dove, sennò?!?) nell’autunno del 1968.

Fin dai suoi primi vagiti (siamo tra il ’64 e il ’65) come detto, gli MC5 si erano distinti per irruenza e iconoclastia dal vivo, gettando sui malcapitati spettatori tonnellate di watt, distorsioni sonore da far paura basate sull’attacco frontale e devastante delle due chitarre sprigionanti riffoni che non temo a definire proto-thrash. Ribellione, maleducazione, droga&sesso esplicito, simpatia per la working class…tutto questo fu “Kick out the jams” che non vendette granchè (anche per un certo boicottaggio del mercato che vedeva nei testi delle loro canzoni e nell’immagine veicolata da Tyner una provocazione anti-sociale troppo marcata), ma venne riscoperto molti anni dopo.

Gli MC5 durarono un battito di ciglia, compressi in appena due dischi in studio, peraltro profondamente diversi. “Back in the U.S.A.” (1970) fu un compendio di 28’ in cui garage rock, punk e hard copulavano in maniera originale e ispirata. Aperto e chiuso da due splendide cover (quella live di “Tutti Frutti” di Little Richard e di “Back in the U.S.A.” di Chuck Berry) il disco si componeva di 11 canzoni, ognuna di 2’/2’ e mezzo (ad eccezione della splendida ballad “Let me try” che superava i 4’), al meglio rappresentate dal quadrilatero “Tonight” - “Teenage lust” – “High school” – “Call me Animal” che esprimeva cosa fossero diventati in poco tempo gli MCS: una band consapevole dei propri mezzi, capace di maneggiare con competenza e padronanza la materia rock. 
La produzione migliora (siamo sotto l’egida dell’Atlantic), i toni distruttivi dell’esordio, proprio a causa della produzione, si smorzano, la furia si comprime, ma la carica dissacrante rimane intatta per un disco che manteneva solo parzialmente le attese di quei fan che li avevano conosciuti per i loro live mortiferi a Detroit e dintorni (e le vendite furono di nuovo mediocri…).

Ma se qualcuno, dopo “Back in the U.S.A.” si immaginava che la band potesse esprimersi solo in brani semplici e diretti, ecco arrivare la smentita col disco che non ti aspetti: “High Time” (1971) lascia basiti per il suo songwriting vario, complesso, condito da influenze blues e jazzy (ascoltatevi la conclusiva “Skunk – Sonicly speaking” e sappiatemi dire). Senza perdere nulla in potenza e impatto, si butta dentro di tutto: tube, trombe, tromboni, corni, armoniche, maracas e ogni altro genere di percussioni. I brani, di conseguenza, si elevavano oltre i 5 e i 6 minuti (l’opener, il capolavoro R&B “Sister Anne” è addirittura di 7’ e 22”) mettendo alla luce tecnica e idee, in particolare di Smith, principale autore dei brani. “Baby won’t ya”, “Miss X” (da pianti) e “Over and over” (in cui si osa dire "Uncle Sam's a pimp, wants us to be whores") sono solo alcuni delle canzoni da conoscere, per un disco che non presenta cedimenti e che, personalmente, adoro.

Il paradosso fu che, nonostante la miglior prova compositiva ed esecutiva della band (certificata anche dalla critica), HT vendette (ancora!) pochissimo; la band si sciolse dopo un tour europeo fallimentare e, al di là di un paio di recenti, ed inutili, reunion (senza peraltro Tyner e Smith, nel frattempo passati a miglior vita) il nome degli MC5 non uscì mai in maniera forte dai confini del Michigan durante quei primi anni di attività.

Ma si sa. Se Maometto non va alla montagna…la Montagna va da Maometto. Tutto il punk settantiano (dai Ramones ai Sex Pistols, dai Dead Kennedys fino a giungere ai più recenti Rage Against the Machine), e non poche band metal, troveranno in loro ispirazione e idee da sviluppare.

Inutile parlare di discografia essenziale: tutti e tre gli album sono da avere; però, se proprio mi si chiedesse un compendio riassuntivo, beh, Metal Mirror vi suggerisce l’ottima raccolta “The Big Bang! The Best of MC5” edita nel 2000 dalla Rhino Entertainment.

Ma se la sinistra estrema di Detroit aveva trovato il suo veicolo musicale, anche la destra conservatrice poteva contare su un pezzo da 90 del rock…chi? Lo saprete nel prossimo post…

A cura di Morningrise