Detroit, Michigan, Stati Uniti
d’America. L’iconica Motor City.
Colpita nel 2008 dalla tremenda
crisi dell’automobile e nel 2013 dalla più grande bancarotta pubblica che gli States
abbiano mai conosciuto, la città ha subito una lunga depressione che l’ha
portata a perdere praticamente 2/3 della sua popolazione, passata dai quasi 2
milioni di abitanti degli anni ’50 ai poco più di 600.000 attuali.
Lo sviluppo dell’industria
automobilistica nel secondo dopoguerra volle dire grande attecchimento della
classe operaia (chi ha pensato alla nostra Torino?), per lo più afroamericana. Working
class fortemente politicizzata che abbracciò in larga parte l’ideale del riscatto
dei neri e il movimento che quell’ideale incarnava: le Pantere Nere, l’organizzazione nata nella seconda metà degli anni
’60 e sostenitrice del c.d. black power.
Se le Black Panthers le
conosciamo tutti (grazie anche a una delle foto più famose del Novecento,
quella che immortala Tommie Smith e John Carlos col pugno alzato e i piedi
scalzi, sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968),
credo che in meno conoscano le Pantere…Bianche!
Ebbene, anche il White Panther Party,
fondato nel 1968, ebbe un ruolo importante nella società americana dell’epoca
(per lo più di appoggio proprio alle Black Panthers), per la sua marcata ideologia
di stampo marxista, anti-razzista e anti-capitalista. E chi era uno dei leader
e fondatori delle White Panthers? John
Sinclair, manager, ideologo nonchè curatore delle note di copertina dei Motor City Five. Gli MC5, appunto. Perchè, citando i Kiss, Detroit, oltre ad essere la Motor City è anche...Rock City!
Per questo Scontro fra Titani di
stampo politico-musicale, partiamo dalla sinistra; e non lo potremmo
fare se non da loro, quei 5 matti guidati dai leader Rob Tyner (voce), Wayne
Kramer (chitarra solista) e Fred
“Sonic” Smith (chitarra ritmica), vera e propria leggenda del rock più
sovversivo ed estremista, capaci di proporre quanto di più dissacrante
e politicamente scorretto la Musica del Diavolo avesse saputo produrre fino a
quel momento
Se la critica musicale riconosce
negli Stooges i padrini del garage rock e in Iggy Pop il suo profeta, beh,
allora sappiate che gli MC5 meritano di stare di diritto affianco (se non
davanti) alla ben più celebre Iguana per l’importanza rivestita in tutto il
movimento garage/proto-punk/hard rock che a inizio anni settanta si sarebbe
sviluppato di qua e di là dell’Atlantico. Se infatti il primo, mitico, omonimo
album degli Stooges uscì nel giugno del 69, il debut degli MC5, “Kick Out The Jams”, aveva già fatto
irruzione sul mercato discografico 4
mesi prima, a febbraio, raccogliendo le registrazioni di uno dei loro show
incendiari al Grande Ballroom di
Detroit (e dove, sennò?!?) nell’autunno del 1968.
Fin dai suoi primi vagiti (siamo
tra il ’64 e il ’65) come detto, gli MC5 si erano distinti per irruenza e
iconoclastia dal vivo, gettando sui malcapitati spettatori tonnellate di watt,
distorsioni sonore da far paura basate sull’attacco frontale e devastante delle
due chitarre sprigionanti riffoni che non temo a definire proto-thrash.
Ribellione, maleducazione, droga&sesso esplicito, simpatia per la working
class…tutto questo fu “Kick out the jams” che non vendette granchè (anche per
un certo boicottaggio del mercato che vedeva nei testi delle loro canzoni e
nell’immagine veicolata da Tyner una provocazione anti-sociale troppo marcata),
ma venne riscoperto molti anni dopo.
Gli MC5 durarono un battito di
ciglia, compressi in appena due dischi in studio, peraltro profondamente
diversi. “Back in the U.S.A.” (1970)
fu un compendio di 28’ in cui garage rock, punk e hard copulavano in maniera originale
e ispirata. Aperto e chiuso da due splendide cover (quella live di “Tutti
Frutti” di Little Richard e di “Back in the U.S.A.” di Chuck Berry) il disco si
componeva di 11 canzoni, ognuna di 2’/2’ e mezzo (ad eccezione della splendida
ballad “Let me try” che superava i 4’), al meglio rappresentate dal
quadrilatero “Tonight” - “Teenage lust” – “High school” – “Call me Animal” che
esprimeva cosa fossero diventati in poco tempo gli MCS: una band consapevole
dei propri mezzi, capace di maneggiare con competenza e padronanza la materia
rock.
La produzione migliora (siamo sotto l’egida dell’Atlantic), i toni
distruttivi dell’esordio, proprio a causa della produzione, si smorzano, la
furia si comprime, ma la carica dissacrante rimane intatta per un disco che
manteneva solo parzialmente le attese di quei fan che li avevano conosciuti per
i loro live mortiferi a Detroit e dintorni (e le vendite furono di nuovo
mediocri…).
Ma se qualcuno, dopo “Back in the
U.S.A.” si immaginava che la band potesse esprimersi solo in brani semplici e
diretti, ecco arrivare la smentita col disco che non ti aspetti: “High Time” (1971) lascia basiti per il
suo songwriting vario, complesso, condito da influenze blues e jazzy
(ascoltatevi la conclusiva “Skunk – Sonicly speaking” e sappiatemi dire). Senza perdere nulla in potenza e impatto, si butta dentro di tutto: tube, trombe, tromboni, corni, armoniche, maracas e ogni altro genere di percussioni. I
brani, di conseguenza, si elevavano oltre i 5 e i 6 minuti (l’opener, il capolavoro R&B “Sister
Anne” è addirittura di 7’ e 22”) mettendo alla luce tecnica e idee, in
particolare di Smith, principale autore dei brani. “Baby won’t ya”, “Miss X”
(da pianti) e “Over and over” (in cui si osa dire "Uncle Sam's a pimp, wants us to be whores") sono solo alcuni delle canzoni da conoscere, per
un disco che non presenta cedimenti e che, personalmente, adoro.
Il paradosso fu che, nonostante
la miglior prova compositiva ed esecutiva della band (certificata anche dalla
critica), HT vendette (ancora!) pochissimo; la band si sciolse dopo un tour
europeo fallimentare e, al di là di un paio di recenti, ed inutili, reunion
(senza peraltro Tyner e Smith, nel frattempo passati a miglior vita) il nome
degli MC5 non uscì mai in maniera forte dai confini del Michigan durante quei
primi anni di attività.
Ma si sa. Se Maometto non va alla
montagna…la Montagna va da Maometto. Tutto il punk settantiano (dai Ramones ai
Sex Pistols, dai Dead Kennedys fino a giungere ai più recenti Rage Against the
Machine), e non poche band metal, troveranno
in loro ispirazione e idee da sviluppare.
Inutile parlare di discografia
essenziale: tutti e tre gli album sono da avere; però, se proprio mi si
chiedesse un compendio riassuntivo, beh, Metal Mirror vi suggerisce l’ottima
raccolta “The Big Bang! The Best of MC5”
edita nel 2000 dalla Rhino Entertainment.
Ma se la sinistra estrema di Detroit aveva trovato il suo veicolo musicale,
anche la destra conservatrice poteva
contare su un pezzo da 90 del rock…chi? Lo saprete nel prossimo post…
A cura di Morningrise