Sono tornati, forse per l'ultima volta...
Ma quello che conta è che gli Iron Maiden sono ancora qui a lasciare traccia della loro classe in questa terra.
E' inutile fare paragoni con il passato: soprattutto negli ultimi dieci anni la Vergine di Ferro ha preso una strada dove i brani si sono allungati, cosa che non va vista come un male in sé, in quanto si vanno ad assecondare le innegabili capacità narrative della band (oggi più che mai a suo agio nella suite piuttosto che nel brano mordi-e-fuggi) ed una genuina propensione a regredire a certe sonorità seventies che rappresentano le origini di Harris e soci.
E così, nonostante qualche filler, qualche prolissità di troppo e qualche ritornello telefonato o anthem da stadio ricercato a tutti i costi, gli Iron arrivano ai nostri giorni elargendo ancora momenti di alta qualità e tenendo fede nel complesso alla fama associata al loro storico monicker. Una continuità dettata anche dalla produzione di Kevin Shirley, saldo dietro al mixer dai tempi di "Brave New World" (2000). Una longevità, quella del produttore, probabilmente da spiegare con una precisa (ed unica) clausola del suo contratto: fai quello che ti dice di fare Steve Harris.
Altro giro, altro album doppio: dieci brani per ottantadue minuti di inossidabile Iron Maiden sound che nemmeno la pandemia riesce a scalfire. Che ci siano forse riuscite le Olimpiadi di Tokyo? Niente di tutto questo, del resto l'album era stato registrato in tempi non sospetti, nel 2019, prima che tutto accadesse. Solo la sua uscita, per ovvi motivi, è stata rimandata al prossimo 3 settembre.
Frulla il mappamondo e dunque è solo una coincidenza che questa volta il dito di Steve Harris si sia fermato sul Giappone, perché ovviamente Eddie aveva bisogno di una nuova mise, e questa volta gli tocca vestire i panni del samurai. Scenario, in verità, non del tutto inedito per la digrignante mascotte, visto che ce la trovammo con una bella katana in mano già nella copertina di "Live in Japan" nel lontanissimo 1981.
Ma del resto cosa ci può essere di completamente nuovo in un album degli Iron Maiden targato 2021? A scapito delle esternazioni della band, che tronfiamente annunciava la presenza di un paio di brani contenenti novità in termini di sound, il fan degli Iron sa che non è lecito aspettarsi grandi sorprese, se non le prevedibili variazioni di tema (sapori d'Oriente, si diceva, anche se poi si parlerà pure di Churchill, Celti e svariati altri temi storici, come da consolidata tradizione - del resto, a margine del futon, è sempre presente una ciotola di porridge, vuoi mai che il sakè risulti indigesto...). E a noi sta più che bene, sia ben chiaro, perché la grandezza della band, quella rimane indelebile nonostante il trascorrere degli anni e qualche (molta) ruga in più.
Eccoci dunque al curioso titolo dell'album. Il Senjutsu o la cosiddetta Arte Eremita si basa sull'equilibrio delle tre forze, ossia Energia Spirituale, Energia Fisica ed Energia Naturale. L'apprendimento di quest'arte è lungo e complesso, in quanto non tutti hanno le potenzialità per equilibrare l'Energia all'interno del loro corpo e diventare dei veri ninja.
Nessuno ha le potenzialità per diventare come Harris e soci che partono con una title-track che ci fa subito sentire dentro un manga. La successiva "Stratego" è la classica canzone veloce dei Maiden 2.0 dove Dickinson torna sugli scudi come ai vecchi tempi e c'è da immaginare l'ottima resa dal vivo.
La dimensione live, che è da sempre (ed oggi più che mai) il luogo per eccellenza in cui la band riesce ad esprimere il meglio, è stato certamente un pensiero costante nel processo di scrittura, sempre più improntata su tempi medi o lenti, gli unici sostenibili dalle vecchie ossa del pur sempre grande Nicko McBrain.
E' già programmato un mega tour per il 2022 e credo che, a livello visivo e di scenografia, si attingerà a piene mani dal mondo orientale e dall'immaginario ninja, manga giapponese e tutto lascia immaginare che il Covid abbia lasciato i membri dei Maiden a guardare moltissimi episodi di Naruto Shippuden e altre Anime.
Il singolo "The Writing on the Wall", già anticipato negli scorsi giorni, evidenzia tutti i pregi e/o i difetti dell'album che, salvo i risicati contributi di Janick Gers e Dave Murray in termini di scrittura, si basa sullo scontro-incontro dei due principali assi di composizione: la collaudata coppia Bruce Dickinson/Adrian Smith (molti sono i rimandi al catalogo solista del vocalist) e l'immenso Harris che sembra voler scrivere il suo testamento musicale con il trittico di suite finali: 35 epici minuti ("Death of the Celts", "The Parchment", "Hell on Earth") composti dallo storico bassista che ci accompagnano fino alla fine del disco.
Lo vedo, lo vedo davanti a me...mentre indossa il Kimono (ma con saldamente in mano una bella pinta di London Pride) e scende solennemente le scale che lo portano from hell to eternity...