Hardcore: “Il genere deriva direttamente dal primo punk rock. Le caratteristiche principali sono spesso l'alta velocità della musica, il cantato urlato o in scream, riff semplici, le sonorità più aggressive e distorte, brani di breve durata e un'avversione per il virtuosismo.” Sappiamo tutti cosa è l’hardcore, non abbiamo certo bisogno che Wikipedia ce lo spieghi, ma una tale definizione rende lampante la distanza siderale che vi è fra questo genere e la musica dei Pink Floyd. La domanda sorge dunque spontanea: ma è mai possibile coniugare hardcore e Pink Floyd?
La risposta, in teoria, dovrebbe essere un no categorico, ma nei fatti i Neurosis ci hanno mostrato esattamente il contrario, ossia che una tale commistione è possibile, possibilissima, e che anzi è stato addirittura forgiato un genere musicale partendo da tali presupposti: il post-hardcore. Innegabile, infatti, che l’operazione di ampliamento/espansione/dilatazione della materia hardcore sia passata dalla psichedelia pinkfloydiana, di cui i Neurosis sono indubbiamente dei grandi ammiratori.
1996-2004: Una, due, tre volte post!
I Neurosis sono indubbiamente pinkfloydiani nello spirito: lo si capisce dalla predilezione di brani di lunga durata, dal carattere fortemente visionario della loro musica, dal rigore della scrittura che, pur in un contesto di "dispersione", sa mettere a fuoco le idee per meglio renderne il potenziale. Quindi un po' progressivi, oltre che psichedelici: proprio come i Pink Floyd.
Dalla furia hardcore delle origini, alla piega sludge/atmosferica presa con i lavori successivi, fino alla piena maturità con il capolavoro “Through Silver in Blood”: l’evoluzione dei Neurosis ha coinciso con una progressiva "espansione" del suono, un suono non solo slabbrato, ma che col tempo si è andato ad arricchire di nuovi elementi, sviluppandosi in modo ragionato. Tramite questo modus operandi, i Nostri sono riusciti a bilanciare violenza e wall of sound con intuizioni melodiche e momenti di quiete, incarnando uno spirito autenticamente avanguardista, nonostante la scorza dura e il rigetto di ogni forma di virtuosismo.
Certo l’impiego di strumenti "anomali" come cornamuse, violino e violoncello ha avuto un ruolo in questo passaggio, ma a segnare lo stacco netto con il passato è stato Noah Landis, che entrava in formazione proprio in occasione di "Through Silver in Blood": le sue tastiere, i suoi sintetizzatori, i suoi campionatori, ma soprattutto le sua personalità e la sua creatività avrebbero ampliato ulteriormente gli orizzonti del suono neurosiano, divenendone con il tempo un pilastro irrinunciabile.
Ricordiamo infine che i Nostri già all'epoca annoveravano nell’organico un visual artist (tale Pete Inc.) a dare consistenza alla forza d'urto espressa sul palco con proiezioni di video ed immagini: altro aspetto che avvicina la visione artistica dei Neurosis a quella dei Pink Floyd, da sempre interessati alla dimensione multimediale nella loro arte.
Che i Pink Floyd siano stati una influenza fondamentale per i Neurosis lo si capisce in modo vivido ascoltando un brano come “Strenght of Fates”, i cui iniziali sette minuti descrivono un crescendo doloroso in cui il canto delirante sembra uscire dalle corde vocali di un Roger Waters sotto tortura. Pur non citando alcun brano in particolare dei Pink Floyd, la scrittura ne richiama inequivocabilmente l'essenza.
I clangori industriali del breve intermezzo “Become the Ocean” conducono agli undici minuti di “Aeon” dove la sinfonia neurosiana si apre con un pianoforte ubriaco che non avrebbe stonato in un disco di Nick Cave, e viola e violoncello a dar man forte. A colpire più di ogni altra cosa è la seconda metà del brano, percorsa da fremiti tribali e rinvigorita dal suono maestoso delle tastiere: un imponente crescendo destinato a gonfiarsi epicamente e poi a spegnersi in una desolante musica da camera dove tornano il piano e gli archi. Una libertà compositiva ed una efficacia realizzativa che avrebbero presto condotto alla nascita di un nuovo filone: quello del post-metal.
Dopo “Through Silver in Blood”, “Times of Grace” avrebbe consolidato la formula sotto la regia accorta del produttore Steve Albini: un sound compatto, potente, chitarra-centrico ammaestrato con grande perizia dal guru delle produzioni lo-fi, ma con le consuete deviazioni di percorso a rendere caratteristico il tutto. Come non citare, a tal riguardo, la conclusiva, strumentale, “The Road to Sovereignity”: marcia dolente a base di archi e fiati che richiamano i Pink Floyd più tronfi ed orchestrali, quelli del tema principale di “Atom Heart Mother”, per intenderci.
Il superamento della formula sarebbe avvenuto con “A Sun that Never Sets”, dove giocavano un ruolo determinante le esperienze soliste di Steve Von Till e Scott Kelly, che nel frattempo si erano reinventati cantautori apocalittici. Di quell’album amiamo ricordare l’incredibile incipit di “The Tide”, fra chitarre acustiche, violini e voci pulite, e la parte centrale della superba “Falling Unknown”, fuga psichedelica in grado di "bucare il tempo" e proiettare l’ascoltatore in un passato ancestrale fatto di ottenebranti rituali. Il nuovo parto discografico dei Neurosis abitava una dimensione più meditativa, indicando nuove vie espressive a coloro che si erano imposti con un suono essenzialmente massimalista.
Non paghi, i Nostri si sarebbero misurati con un’ulteriore sfida: quella di accogliere dietro al microfono Jarboe, la leggendaria musa degli Swans, e dare alla luce la collaborazione “Neurosis & Jarboe”: un esperimento “ancora più post”, questa volta spostato sul versante industriale. Qui il sound dei Neurosis veniva rielaborato tramite un uso più pronunciato dell’elettronica e modellato negli umori gothic/dark che appartengono alla storia della “madrina” Jarboe. Il post-hardcore era stato forgiato e poi scomposto nuovamente: cos’altro aspettarsi a questo punto?
2004: "The Eye of Every Storm"
Il post-hardcore di "Through Silver in Blood" aveva trovato il suo "post" nelle sperimentazioni effettuate con "A Sun that Never Sets" e "Neurosis & Jarboe", opere che avevano condotto la band ben oltre quelle coordinate stilistiche che nel frattempo avevano sedotto schiere intere di proseliti. I Neurosis erano già due volte post: con "The Eye of Every Storm" lo furono tre volte.
In “The Eye of the Every Storm” le intuizioni degli album precedenti trovavano felice sistematizzazione in un sound fuori da ogni tipo di classificazione, fra sofferte ballate di un cantautorato derelitto (si pensi al traguardo "autoriale" raggiunto con la lacerante "I Can See You", dedicata ad un amico venuto a mancare) e maestosi landscape sonori che solo sporadicamente ricorrono alla furia hardcore del decennio precedente: una "psichedelia apocalittica" preannunciata dal buco nero della bellissima copertina (realizzata da Josh Graham, nuovo visual artist della band).
Le ricorrenti pause riflessive che richiamano il binomio Richard Wright/David Gilmour; i suoni dai contorni sfocati che evocano i Pink Floyd psichedelici di brani come "Set the Controls for the Heart of the Sun" e "A Saucerful of Secrets"; i maestosi passaggi di tastiere e di fiati che, ancora una volta, chiamano in ballo enormi suite come “Atom Heart Mother”, “Echoes” e “Shine on You Crazy Diamond”: molti sono i momenti in cui il fantasma pinkfloydiano si manifesta, senza tuttavia che si scada nella mera citazione. Un esempio su tutti: i vortici di rumore al termine di “Left to Wander”: pura psichedelia messa in piedi tramite i mezzi espressivi tipici dei Neurosis, ossia chitarre pastose e dissonanti, ritmo ossessivo e tribale, manipolazioni elettroniche di ultima generazione. Se i Pink Floyd settavano i comandi in direzione del Sole, i Neurosis si calavano coraggiosamente nell'occhio del ciclone...
Ai fini della nostra analisi, tre in particolare sono gli episodi che vorremmo menzionare. La title-track conta undici giri di orologio e si sviluppa attraverso saliscendi emotivi che esprimono il carattere più visionario della band, qua sospesa fra gli umori della sofferta ballad, vocalità eteree ed un grandeur strumentale che evoca certamente il nome dei Pink Floyd. La raucedine di Von Till e Kelly non può essere certo definita pinkfloydiana, ma in compenso si segnala un assolo di chitarra (cosa piuttosto rara in casa Neurosis), che se non è gilmouriano in senso stretto, ne segue la regola d'oro delle "poche note ma buone": stridente, dissonante e “sparata contro il vento”, la chitarra è un elemento nella furia degli elementi che si integra perfettamente agli effetti ambientali che attraversano il brano, oasi di quiete in un mondo desolato spazzato via dalla tempesta.
“Shelter” è invece una strumentale di cinque minuti (il brano più breve) che mette in mostra il lato più melodico della band, indulgente più che mai nei confronti dello schema in crescendo del post-rock: eppure la mente va ancora una volta verso quella magniloquenza “spaziale” che è riscontrabile in molte suite dei Pink Floyd.
“Bridges”, infine, presenta anch’essa un minutaggio imponente (quasi dodici minuti). In tale brano la band mette in campo tutta la sua creatività infilando una serie di soluzioni assolutamente non convenzionali: si parte con un andazzo da ballata apocalittica in stile Swans, ma il battito incessante, ossessivo, seppur lontano, della batteria, è del tutto fuori contesto, generando, insieme agli effetti elettronici, un clima di grande tensione. Tensione che troverà sbocco nell’esplosione di chitarre del violento ritornello, dove la batteria inaspettatamente si eclissa, procurando un effetto straniante. Momento top del brano: l’enfasi delle orchestrazioni che conduce al primo ritornello e che richiama, ancora una volta, la maestosità di una “Shine on You Crazy Diamond”, ma in salsa armageddon.
Già, perché se dovessimo trovare una colonna sonora per l’apocalisse, di certo questo brano (a parere di chi scrive il capolavoro dell’album) sarebbe un ottimo candidato. Ma tutti i sessantotto minuti di "The Eye of Every Storm", in verità, sono pervasi da umori “da fine del mondo”, come se si volesse descrivere un pianeta sconvolto da una catastrofe naturale (a venire in mente sono le pagine intense di “The Road” di Cormac McCarthy, non a caso citato dalla band fra le influenze letterarie più importanti).
Non si è mai parlato dei Neurosis in termini di "Pink Floyd del metal", e giustamente, aggiungo io, in quanto il perimetro delle sonorità in cui si muove la band è troppo spostato verso la ruvidità dell'hardcore e del noise-rock o verso i canoni espressivi della tradizione dei folksinger americani: tendenza che verrà rimarcata dai lavori successivi a "The Eye of Every Storm", meno interessati a sperimentare nuove vie e più orientati a consolidare la formula. Eppure, più di ogni altra band gravitante nell'ampio universo metal e para-metal, i Neurosis hanno saputo incarnare l'essenza più profonda della lezione pinkfloydiana.