Prima puntata: Thergothon - "Stream from the Heavens" (1994)
Eccoci all’anno zero del funeral doom! Chi volesse approcciarsi a queste sonorità dovrà passare necessariamente dai Thergothon.
E vi dirò di più, non sarà questo un calice eccessivamente amaro: basterà immergersi nei quaranta minuti di "Stream from the Heavens", l'archetipo del funeral doom, genere che conserverà fino ai nostri giorni le medesime caratteristiche che il combo finlandese seppe introdurre in un mondo che forse non era ancora pronto per accogliere cotanta mestizia...
Se penso a me nel 1994, penso a dischi come "Wildhoney" dei Tiamat e "The Principle of Evil Made Flesh" dei Cradle of Filth. Mi sentivo un duro ma ero solo un fighetto. E se penso all'universo gotico/doomico, a dove stava andando in quel periodo, penso a lavori appena successivi (del 1995, per l'esattezza) come "Draconian Times" dei Paradise Lost o "The Angel and the Dark River" dei My Dying Bride che avrebbero rappresentato la piena e definitiva maturità di quelle che erano da considerare le band più influenti in tema di gothic. I Thergothon, in un certo senso, mettevano un punto a questa evoluzione, ed anzi preferirono muoversi in tutt'altra direzione, cristallizzando il momentum storico in una forma ben precisa, preferendo sondare le potenzialità del metal estremo piuttosto che abbandonarlo.
I Thergothon non sono stati i primi a capire il potere annichilente della lentezza applicata alla ferocia del death metal. E non sono stati affatto estranei all’influenza di coloro che li avevano appena preceduti: nel loro sound c'era la rocciosità dei primi Anathema, certi intrecci chitarristici dei coevi My Dying Bride e, più di ogni altra cosa, le lezioni di lentezza impartite dagli imprescindibili Cathedral di "Forest of Equilibrium".
Si diceva, parlando dei Disembowelment, che per gettare le basi di un nuovo genere, non c'è solo bisogno di innovare, ma bisogna anche avere appeal nel farlo. I Disembowelment non ci riuscirono, si è detto. E non ci riuscirono neppure gli angoscianti Unholy, illustri predecessori in terra finnica che non seppero sgravare di una certa sgradevolezza le loro sperimentazioni in ottica doom/death. Ci riuscirono invece i Thergothon, che sintetizzavano la loro visione artistica in un prodotto equilibrato e a suo modo elegante, nonostante la vocazione fosse quella di violare quelli che erano gli standard dell'epoca. Una volontà di distinzione dai trend imperanti che si riflette nell'originalità del monicker, una parola evidentemente inventata (ho googlato thergothon e ho trovato solamente riferimenti alla band: o dunque la parola thergothon non esiste, oppure esiste ma il suo significato originario è stato completamente oscurato dalla "fama" della band!).
A marcare la distanza da tutti gli altri nomi noti e meno noti del doom sono i primi istanti dell'opera: il rantolo strascicato che si prolunga ad accompagnare il primo stentoreo riff di chitarra. La sensazione è quella del baratro, come se questa musica costituisse un lento vortice in cui piano piano gli elementi sprofondano in un buco nero. La voce, ovviamente, aiuta a figurare questa immagine, richiamando essa stessa il rigurgito di acqua putrida che viene risucchiata nella cavità di un lavandino appena sturato.
I riff si susseguono pachidermici, con una batteria che sembra arrivare sempre con una battuta in ritardo. Voce, chitarre, batteria, in verità, sembrano sorreggersi a vicenda, traballanti, aggrappandosi l'una alle altre per non collassare. Le chitarre soliste, quando emergono, accompagnano o semplicemente doppiano con singole e sparute note gli accordi principali, creando un ulteriore effetto di claustrofobia. Le tastiere, penalizzate nel mixaggio, echeggiano lontane: non sembrano indispensabili nell'economia nel suono, ma sono una presenza pressoché costante che genera tensione e aggiunge tristezza alla tristezza. Le casse, infine, vibrano per le frequenze ultra-basse, un po’ come sarebbe successo, anni dopo, con i dischi dei Sunn O))).
Una caratteristica singolare è la coesistenza di due voci, quella da orco del tastierista Niko Skorpio e quella pulita da dolente muezzin del batterista (ma anche tastierista e chitarrista) Joru Sjoroos. Completa la formazione Mikko Ruotsalainen, diviso fra chitarra e tastiere.
Non accadrà molto nei quaranta minuti dell'album, ma qui si parla di artisti dalle idee chiare che hanno saputo percorrere una via ostica con grande coerenza ed ispirazione, forgiando un suono massiccio, monolitico, ma al tempo stesso striato di quelle venature melodiche che lo rendono magico alle orecchie dell'ascoltatore.
Senza spoilerare troppo (ma del resto non è che vi sia molto da spoilerare…), si prenda in considerazione “The Unknown Kadath in the Cold Waste”, l’episodio più breve (solo 3:49), che ha una struttura tanto semplice quanto efficace: nella prima parte la batteria è del tutto assente e i rivoli di chitarra son lasciati da soli ad impastarsi con la voce. Poi una improvvisa – a questo punto inaspettata - apertura di tastiere, un momento tanto breve quanto intenso nella sua capacità evocativa, una vista su un altro mondo che si schiude per qualche istante, prima che il brano venga rifagocitato dalla spessa elettricità delle chitarre, questo volta accompagnate dai lenti battiti delle percussioni. Di contro “Elemental”, il brano più lungo (siamo oltre i nove minuti), intrattiene l’ascoltatore con apprezzabili soluzioni melodiche, elargendo di traverso un interludio di chitarra acustica che verrà scippato pari pari dagli Anathema di “The Silent Enigma”.
Da appalusi l’ultimo minuto e mezzo, quando nella conclusiva “Crying Blood + Crimson Snow” si ha un magistrale cambio di passo con tastiere e voci pulite ad assestare l’ultimo fatale colpo al cuore:
"Nightwing calls…
Wailing of the wings
Chills me from inside, snow is red around me”
Può qualcosa di brutto essere bello? E non mi riferisco a quell'estetica del brutto che ha caratterizzato molte correnti artistiche dal novecento in poi. Mi riferisco semplicemente alla coesistenza all'apparenza casuale e fortuita di elementi nefasti e sublimi: da un lato la grettezza di un growl catacombale, di una produzione artigianale con arrangiamenti e suoni discutibili, dall'altro melodie innervate di un intrinseco splendore, immagini di notevole suggestione (come quella evocata dal titolo del brano "Who Rides the Astral Wings"). Sembra una contraddizione di termini, ma c'è della bellezza nella mostruosità delle sei composizioni di "Stream from the Heavens", un fascino arcaico, anzi senza tempo, universale, una luce che pulsa vigorosa sotto la coltre delle funeree nenie tessute da questi musicisti.
Anche per i Thergothon il sogno sarebbe terminato in fretta: avrebbero infatti trovato il loro capolinea nel 1993, ancora prima del rilascio del loro unico album. Dalle loro ceneri sarebbero scaturiti gli ottimi This Empty Flow, progetto goth-rock fondato da Skorpio e Sjoroos, ma anch'esso dalla vita breve e con all'attivo un solo album, il meraviglioso "Magenta Skycode" del 1996, fra The Cure, Joy Division, ossessioni darkwave e prelibatezze shoegaze. Se, in seguito, Skorpio si sarebbe riciclato in progetti minori e nell'attività di produttore, Sjoroos avrebbe trovato una terza incarnazione artistica nei Magenta Skycode, creatura indie/post/punk che prendeva il nome proprio dall'album dei This Empty Flow.
L'esperienza Thergothon, paradossalmente, avrebbe dato i natali ad una musica così estrema come il funeral doom, per poi articolarsi in realtà che avrebbero continuato a portare avanti con coerenza la "causa della malinconia", ma battendo lidi ben lontani dal metal. A dimostrazione che per creare qualcosa di nuovo vi è anche bisogno di apertura mentale ed una sensibilità estranea all’ambito di azione. La classe, del resto, non è acqua.