Da un punto di vista della produzione discografica, il 2021 è stato per i suoi primi due terzi una mesta appendice del 2020, con il diffondersi del corona virus a bloccare gran parte dell’industria musicale: un corto circuito generato dalla negata attività concertistica che rimane la principale fonte di sostentamento per gli addetti ai lavori. Poi improvvisamente a partire da settembre/ottobre si sono iniziate a registrare pubblicazioni da ogni dove: l’industria discografica, evidentemente, ha scommesso sul 2022 come anno per il ritorno alla normalità, nella speranza che si possa riprendere a suonare dal vivo senza troppe restrizioni. E le band, di conseguenza, si preparano per tornare in tour gettando nelle fauci del mercato qualche prodotto che magari era da tempo nel cassetto (il caso degli Iron Maiden ne è solo l'esempio più ecclatante).
In questa sbornia di uscite rischiavamo però di perderci un vero gioiellino, un’opera di una freschezza inaudita che si candida senza dubbio a ricoprire un posto nelle zone alte della classifica di fine anno: mi riferisco a “Holoceno”, esordio con i fiocchi per i brasiliani Papangu.
Il rischio purtroppo è che nessuno se ne accorga e le duemila e qualcosa cliccate su YouTube ne sono una triste conferma. Peccato, perché – e non penso di esagerare nel dirlo - questi ragazzi hanno realizzato quello che sarebbe dovuto essere l’ultimo album dei Mastodon. Certo, non è intellettualmente onesto paragonare la freschezza di una band esordiente allo stato di salute di chi ha venti anni di onorata carriera sul groppone, ma laddove i Mastodonti di Atlanta hanno immesso nel mercato un’ora e mezza di musica, sì pregevole ma comprensibilmente confezionata con mestiere, ai brasiliani bastano quarantaquattro minuti per mettere a punto una proposta straripante di idee e soluzioni inedite. Aiutano i sette anni di gestazione dell'opera, fra ristrettezze economiche, impegni personali, problemi logistici e ritardi dovuti al covid.
I Nostri vengono da una parte povera del Brasile, il nord-ovest per l’esattezza, e le situazioni di degrado ambientale che hanno sotto gli occhi potrebbero essere il destino di tutti noi se continueremo ad ignorare le sirene d’allarme che provengono dal fronte dei cambiamenti climatici. Da qui l’idea di un concept catastrofico a sfondo ambientalista, tema che più attuale non si può e che i nostri affrontano con grande sincerità.
Oltre alle intenzioni ci sono anche ispirazione e capacità tecniche, perché i quattro hanno il fuoco nelle vene e risultano parecchio disinvolti nel maneggiare i rispettivi strumenti: lo si capisce già dai tre funambolici minuti dell’introduttiva “Ave-Bala”, una strumentale tarantolata in cui il maelstrom sonoro spazia con disinvoltura dallo stoner al progressive, dal post-rock al jazz. E’ udibile, fin dai primi vagiti dell’album, una incontenibile verve percussiva che ovviamente prende in prestito suggestioni etniche derivate dalla terra natia.
Ma che genere suonano esattamente i Papangu? Non lo abbiamo ancora chiarito. Si tratta di metal di ultimissima generazione e per vocazione gender-fluid. Innegabili le influenze mutuate dal rock progressivo settantiano (King Crismon in primis), influenze che vengono rilette in chiave sludge/stoner: per questo riteniamo legittimo vedere il Papangu-sound come la diretta filiazione di band post-post-hardcore come Mastodon o Baroness. E la stravagante “Água Branca” (forte di voci effettate e splendidi volteggi di synth in stile Soft Machine) ne è una prima conferma.
Altri importanti punti di riferimento, a dire della stessa band, sono act quali Mr Bungle e Naked City che dell’arte della contaminazione di generi hanno fatto un mestiere. Aleggia ovviamente il fantasma degli imprescindibili Sepultura (quelli di “Roots”): un'impronta che è senz'altro percepibile nella più violenta “São Francisco”.
Quello che tuttavia rende davvero originale la proposta è il riferirsi ad artisti che in genere sono ignorati dal popolo metallico, anche quello più illuminato ed aperto di mente. Del resto il metal a cavallo fra gli anni dieci e venti del nuovo millennio si distingue per una spiccata voracità e per la straordinaria capacità di inglobare sonorità sempre più inusuali. A questo giro il contributo lo danno i francesi Magma, indicati dalla band fra le fonti di ispirazione di maggior peso. Non mi sono mai piaciuti i Magma, che del prog hanno sempre avuto una visione sghemba, distante assai dai miei gusti personali, ma è innegabile che quell’incidere travolgente di mantra vocali che si intrecciano su trame percussive ossessive ed incalzanti si sposa alla perfezione con il sound pirotecnico dei Papangu, cosa che diviene palpabile nell’andamento ostinato di “Bacia das Almas”.
Non sono infrequenti, infine, incursioni nel metal estremo, e nel tritacarne dei brasiliani finisce persino il black metal (si pensi alla tetra “Terra Arrasada”, con tanto di screaming, rancide chitarre al tremolo ed un andamento da variante atmospheric/depressive che ad un certo punto sfocerà in oscuri movimenti darkthroniani).
"Holoceno" è un continuo cozzare di energie e sonorità mutuate da mondi lontanissimi e nello scorcio finale dell’album troverà spazio il contributo significativo di un bellissimo sassofono che rinvigorisce l’anima jazz-rock dell’opera, come accade nella tumultuosa “Lobisomem” (altra carrellata di sei-sette generi frullati nella follia più totale) e nei titanici dieci minuti della title-track, che vorrebbe essere la “Starless” dei Papangu, con un inizio pacato e dai contorni cosmici, per poi degenerare nella consueta orgia di suoni non conformi.
Nonostante i toni apocalittici, si salva quella giocosità che è intrinseca alla cultura carioca, costituendo, questo aspetto, l’ennesimo paradosso della musica dei Papangu. Le idee sono tante e l’impressione, a volte, è che i musicisti non siano in grado di governarne l’irruenza, anche se poi i deragliamenti vengono sistematicamente ricondotti sui binari di una proposta, sì delirante e caotica, ma anche dotata di un invidiabile equilibrio interno. Insomma, sono le ingenuità che perdoniamo volentieri a degli esordienti, sbavature ed imprecisioni che divengono assolutamente inezie innanzi a cotanta freschezza nella scrittura e ad un calore inusuale per una band che confeziona una proposta decisamente cervellotica.
Peccato solo per le voci che si perdono nell'anonimato, un range “corale” che va dal growl allo screaming passando per urla becere ed acidissime voci effettate (del resto tutti e quattro i musicisti presteranno il loro contributo dietro al microfono ed un po’ di confusione viene anche da questo aspetto - ma non ci pare che i Mastodon siano messi molto meglio da questo punto di vista). E' come se proprio il metal di ultima generazione volesse rifuggire l'idea classica del front-man.
La lingua portoghese, infine, sebbene conferisca ulteriore originalità al tutto, non sempre suona bene all’orecchio abituato a suoni anglofoni: stando alle stesse dichiarazioni dei musicisti, quello dell’impiego della lingua natia pare sia un elemento imprescindibile, proprio per la centralità che la cultura locale ricoprirebbe nella loro visione artistica. Solo il futuro ci potrà dire se i brasiliani rimarranno un fenomeno di nicchia oppure dovranno sacrificare il portoghese con l’intento di accedere a più ampie fasce di mercato.
Quello che è sicuro è che i Papangu raccolgono con credibilità la staffetta del miglior avant-garde metal dei nostri tempi per spostare la tacchetta delle ambizioni ulteriormente in alto. In passato avevamo individuato il futuro del metal proprio in questa commissione fra i suoni grassi del post metal con la ricerca della musica progressiva, e i Papangu sembrerebbero proprio seguire questa traiettoria...