13 mag 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: MOURNFUL CONGREGATION


Decima puntata: Mournful Congregation - "The Book of Kings" (2011) 

Completiamo questa prima trance della nostra rassegna sul funera doom laddove il nostro viaggio era iniziato: in Australia. Con i Disembowelment avevamo principiato a dissertare di strane copulazioni fra doom e metal estremo, ed oggi torniamo nella terra dei canguri per parlare degli altrettanto fondamentali Mournful Congregation. Lo facciamo con il masterpiece "The Book of Kings", quarto full-lenght targato 2011, precisando che la storia del combo australiano era originata molto tempo prima, per l'esattezza con il demo "Weeping" che risale addirittura al 1994. 

Indicare i Mournful Congregation fra i primi mover di questo specifico filone del metal, dunque, non è del tutto fuori luogo, sebbene il primo album, "Tears from a Greving Heart", risalga al 1999, quando il genere si era già strutturato e consolidato nei suoi cliché. Ma la disinvoltura con cui i Nostri maneggiano la materia è quella dei veri maestri, e di certo essi costituiscono una tappa obbligata per chiunque voglia addentrarsi nell'universo del doom estremo. 

Si è detto più volte che il rischio più grande nel funeral doom è di risultare più prevedibili di un bambino di sei anni chiamato a scegliere fra un gelato e la prospettiva di andare dal dentista. La vera sfida nel funeral è dunque quella di risultare attrattivi pur calzando le vesti scomode dell'eccessiva lentezza. Si può affermare con convinzione che i Mournful Congregation questa sfida la vincono con scioltezza, come si è visto nel caso degli Ahab. Ma se per i tedeschi ad un certo punto l'assecondare l'indole esplorativa ha comportato una deviazione stilistica rispetto ai dettami del genere, nel caso degli australiani la magia riesce senza bisogno di allontanarsi troppo da casa. Probabilmente si tratta di un dono, una missione che scorre nelle vene di questi quattro musicisti ai quali risulta spaventevolmente naturale uscirsene con composizioni dal chilometraggio importante senza che l'ascolto, nel complesso, risulti eccessivamente gravoso per le coronarie. 

Per capire che i Nostri hanno il funeral nel sangue e che non temono le sfide più ambiziose, basta guardare alla scaletta di "The Book of Kings", la quale consta di soli quattro brani: quattro brani che tutti insieme lambiscono i settantasette minuti, con la sola title-track che viaggia oltre la mezzora. Sulla carta chiunque rimarrebbe atterrito, a meno che la band in questione non suonasse prog o rock psichedelico, ma i Nostri se ne escono alla grande pur rimanendo entro l'angusto recinto del funeral doom. Qual è la formula magica? Mantenere i ritmi lenti, quello sì, e spaziarvi sopra con fantasia e grande gusto melodico. 

Lo sanno bene le chitarre di Justin Hartwig e Damon Good (anche alla voce ed alle tastiere), responsabili di una performance superlativa fra riff evocativi ed un campionario di assoli che va dal "lamento gotico" dei vari Paradise Lost, My Dying Bride ed Anathema alla maestosità del metal classico, passando dal delicato tocco gilmouriano e persino dall'intimità del blues. In tutto questo, lunghi interludi acustici dal suadente sapore folkish offriranno un utile diversivo all'imperante elettricità. 

Se non parlassimo di uno dei nomi di punta del funeral doom, verrebbe da scomodare etichette come progressive o post-metal: a tratti vengono in mente gli Opeth, come se gli svedesi fossero intrappolati in un tragico slow-motion; altre gli Agalloch (con dei blocchi di cemento legati ai piedi e lasciati affondare nelle acque dello Stige), altre ancora il binomio Godflesh/Jesu (come se Justin Broadrick fosse impegnato nell'esplorazione dei recessi più malsani dell'Inferno). 
 
Etichette a parte, quella dei Mournful Congregation è musica che si evolve continuamente, con lentezza certo, ma in modo intelligente ed equilibrato; indubbiamente gli australiani sanno come disporre gli elementi, centellinare i coupe de teatre e collocarli nei momenti opportuni. Ogni passaggio penetra fluidamente in quello successivo, e questo per molti, molti minuti, tanto che la miglior predisposizione da adottare durante l'ascolto è quella del passeggero in treno che si vede passare ai lati straordinari paesaggi mano a mano che il suo viaggio si incunea in luoghi sconosciuti. 

I diciannove minuti della traccia di apertura "The Catechism of Depression", a scapito del titolo, scorrono via che è una bellezza, animati da un riffing ispirato che sa passare in rassegna molteplici stati d'animo; il break acustico, poi, è pura poesia, e la coda finale con assoli a cascata di anathemiana memoria è gloria che si aggiunge alla gloria. L'incipit pacato della successiva "The Waterless Streams" (altri dodici minuti) non interrompe il flusso, ma anzi garatisce continuità con chitarre arpeggiate, splendidi assoli e vocalità pulite (da sottolineare la versatilità delle corde vocali di Good, che a seconda della necessità sa tramutare il suo aspro growl in un suggestivo recitato o in un pulito dolente). 

A sorprendere più di ogni altra cosa, tuttavia, è la terza traccia, "The Bitter Way of Solemnity": una sorta di ballad acustica in cui il growl è totalmente assente (che Dio non ce ne voglia!), sostituito da un morboso sussurro: una bella fuga in avanti per una band funeral doom, sebbene i suoi dodici minuti di durata e i tempi pachidermici riconducano l'esperimento entro i binari del genere. E in ogni caso, i trentatré minuti della title-track riequilibrano in senso brutale l'opera, completandola entro scenari più ortodossi e coerenti con la missione musicale professata. Standing ovation per il finale a base di liturgia di organo e voce salmodiante, suggello ad una traccia-monstre che sa immergersi con eleganza in foschi scenari apocalittici, passando con disinvoltura da fasi ariose a momenti più oppressivi. Dalla lava alla roccia e di nuovo alla lava, potremmo dire, ma senza mai perdere la bussola quanto a sviluppo della narrazione e fluidità fra le diverse sezioni musicali (da rimarcare la presenza costante di un muro di suono che si giova di vari strati di chitarre e tappeti di tastiere ad esse perfettamente intregrati).  

"The Book of Kings" rientra indubbiamente fra quei lavori che possono fungere da portale di accesso facilitato per chi volesse addentrarsi nell'universo del funeral doom. Certo, cercare poesia e varietà in un album di funeral doom è un paradosso, ma è anche l'ora di comprendere che il genere sa sorprendentemente offrire al suo interno un range di possibilità considerevole. Ve n'è per tutti i gusti, e pazienza per coloro che vogliono essere duri e puri a tutti i costi: là fuori ci sono tutte le realtà annichilenti di cui costoro hanno bisogno. 

Senza pretese di esaustività, e con il consiglio di iniziare il viaggio proprio da questo album, concludiamo oggi questa prima trance dedicata ai "dieci album essenziali del funeral doom", ma la nostra missione prosegue imperterrita e vi invitiamo caldamente a seguirci, anche perché nella prossima decina di titoli andremo ad esplorare ulteriori sfaccettature di questo genere musicale, incappando in lavori superlativi e a seconda dei gusti addirittura superiori rispetto a quelli che abbiamo trattato fino ad oggi.... 

To be continued...