I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO METAL”
6° CLASSIFICATO: “CONQUEROR”
Eccoci
finalmente al giro di boa: campione del girone d'andata di questa nostraclassifica è niente meno che Justin Broadrick, che sicuramente merita un
posto d'onore fra i padri luminari del post-metal.
Justin Broadrick non ha certo
bisogno di presentazioni: protagonista, nel corso degli anni ottanta, della rivoluzione
grindcore, diverrà nel tempo uno dei più grandi sperimentatori del mondo
metal. Partì militando, in qualità di chitarrista, nella formazione originaria
dei Napalm Death: il suo nome campeggiava niente meno che nei crediti
del lato A di “Scum”. Mica cazzi.
Non pago di aver contribuito a stravolgere il concetto di estremo con i Napalm Death, un po' come il Che (il quale, una volta liberata Cuba, corse a dare una mano prima in Congo, poi in Bolivia), Broadrick sposterà il suo impegno su altri fronti dell’estremismo musicale.
Non pago di aver contribuito a stravolgere il concetto di estremo con i Napalm Death, un po' come il Che (il quale, una volta liberata Cuba, corse a dare una mano prima in Congo, poi in Bolivia), Broadrick sposterà il suo impegno su altri fronti dell’estremismo musicale.
Guerriglie (vere o musicali) a parte,
abbandonare il grind rimane una scelta pressoché obbligata per chiunque sia
dotato di intelletto. Non è un caso che più o meno tutti i grandi senatori
del grind abbiano nel tempo affrontato nuove sfide: da un lato Nick Bullen
e Mick Harris (rispettivamente voce/basso e batteria in “Scum”) sposeranno
la causa industriale fondando gli Scorn (a proposito di Harris, massimo
teorico del grind, vanno comunque citate le collaborazioni con John Zorn,
alfiere dell'avanguardia jazzistica più oltranzista). Dall'altro, Lee
Dorrian e Bill Steer (l'uno la voce, l'altro la chitarra dei Napalm
Death nel lato B di “Scum” e nel parto successivo “From Enslavement to
Obliteration”) confluiranno rispettivamente nel doom settantiano dei Cathedral
(il primo) e nel death iper-tecnico dei Carcass (il secondo).
Del resto, il grind, in
quanto estremizzazione definitiva del metal, è un genere che nasce già “puro” e
per questo non ammette evoluzioni: semplicemente perché “più-in-là” non
si può andare. Evolvere, nel grind, significa uscire direttamente dal genere (niente
sfumature, o bianco o nero, o dentro o fuori): un po' di melodia? Rallenti
leggermente? Inserisci timidi accenni di contaminazione? Allora non sei più
grind! E non è una questione di chiusura mentale-culturale (come accade nel
metal classico fra defender e poser), bensì di caratteristiche
intrinseche agli stilemi musicali. Nel tempo si avvicenderanno (contornate
dalla merda più completa, questo va detto) band estremamente valide che
manterranno vivo il genere: si creeranno sotto-filoni (principalmente distinti
per le aree tematiche affrontate, come il porno-grind), ma nella sua
forma classica e pura, il grind inizia e finisce con i due primi album dei
Napalm Death: con il primo si inventò lo stile, con il secondo si affermò il
genere (poiché un genere esiste nel momento in cui la formula diviene
replicabile). Paradossalmente vivere nel grind significa essere, nel peggiore
dei casi, ottusi; nel migliore, dei geni assoluti, ma eeenormemente
rigorosi. Non è un luogo per chi ha ampie vedute o voglia di sperimentare: chi
ebbe il guizzo di inventare il grind, presto si stancò di picchiare alla
velocità della luce e sbraitare versi incomprensibili.
Chiarita l'inattaccabile
ortodossia concettuale e formale del grind, nell'industrial-metal
possiamo vedere una fisiologica, o per lo meno coerente, via d'uscita. Dietro
agli insegnamenti di luminari quali Swans e Killing Joke, il
movimento ebbe una certa fortuna all'inizio della decade novantiana (culla
delle sperimentazione per il metal). E sicuramente Broadrick fu uno dei suoi
protagonisti (del resto aveva corteggiato il mondo industriale fin dagli albori
della sua carriera con il progetto Final). Da un lato trovò il modo di
dare una mano agli ex colleghi Bullen e Harris, prestando la sua fumante
chitarra agli Scorn (la sua partecipazione è legata solamente al debutto
“Vae Solis”, del 1992, che a mio avviso rimane il loro capolavoro
insuperato). Dall'altro si concentrerà sulla sua creatura principale, i Godflesh
(progetto a due, diviso con il bassista G. Christian Green), sorta di
espansione ossessiva e “psichedelica” dei suoi Napalm Death, “meccanizzati” per
mezzo di programming e drum-machine: un'esperienza che, a fase
alterne, si trascinerà fino ai nostri giorni (la reunion della band si è
consumata lo scorso anno, dopo un decennio di ibernazione). I primi album della
band, “Streetcleaner” (1989) e “Pure”(1992) rimangono ad oggi pietre miliari del genere.
Con un curricum vitae del
genere, uno poteva anche stare tranquillo e vivere di rendita per il resto
della vita. Ma non è il caso di Broadrick, che evidentemente è per la rivoluzione
permanente e nel 2003 fonda un nuovo gruppo, i Jesu, la sua
terza incarnazione (non considerando ovviamente una miriade di progetti
secondari). Ma contrariamente a Che Guevara, il musicista inglese non troverà
la morte in Bolivia, ma vivrà ripetutamente il successo artistico della sua
Cuba. Una vita, la sua, all'insegna del deragliamento musicale: sempre ai
margini dei generi, pur suonando innegabilmente pesante e senza perdere il
gusto per il brivido elettrico, il suo approccio si volgerà perennemente alla
contaminazione. Sorta di Jimi Hendrix della distorsione e della dissonanza,
Broadrick è il vero profeta del post-metal. E riff mutevoli, fischi e feedback
sono il suo verbo.
Se i Godflesh furono un'evoluzione
del grind dei Napalm Death, i Jesu costituiscono il successivo gradino
evolutivo. Ma se prima si passò dalla furia bestiale dei Napalm alla disumanità
dell'inferno industriale descritto dai Godflesh, con i Jesu il nostro
guerrigliero sembra volersi riappropriare di un'umanità che in verità non
ha mai trovato molto spazio nella sua visione artistica. Se il primo passaggio
(Napalm Death > Godflesh) comportò uno sviluppo stilistico effettuato
mediante una maggiore complessità del sound, nel secondo (Godflesh >
Jesu) si ha un ritorno indietro, all’essenza, ma una fermata prima della
bestialità: l’umanità. Ritorno dunque ad un sound elementare, ma dal
grande impatto emotivo. Stilisticamente parlando, Jesu è una sorta di cantautorato
post-metal che riesce a coniugare la pesantezza del metal con la struggente
emotività del dark e dello shoegaze.
Apro a questo punto una
parentesi sullo shoegaze: non facciamo i finti intenditori, fino a
qualche anno fa il metallaro medio pensava che lo shoegaze fosse una marca di
dentifricio. Esso è invece un sotto-genere dell'alternative-rock che prevede
l’impiego massiccio di effetti di chitarra, feedback e distorsioni, su
cui si vanno ad innestare vocalità spesso eteree e malinconiche. Sebbene il
genere abbia vissuto i suoi fasti nel corso degli anni novanta, l’etichetta ha
iniziato a circolare nei nostri ambienti sul finire degli anni zero, grazie ai
francesi Alcest, che nel 2007 si resero responsabili di una delle
più belle e significative uscite in campo black. Parlo di quel “Souvenirs
d'un Autre Monde” che, osando accostare Burzum ed Ulver allo spleen
malinconico e sognante di band come My Bloody Valentine e Slowdive,
aprirono un nuovo varco nell'universo metal che verrà poi battezzato blackgaze.
A ben vedere, una bella idea, visto che la rarefazione sonora e l'impeto
introspettivo del black metal si sposavano perfettamente alla stupenda
cacofonia delle band sopracitate.
Ma quella è un'altra storia
(un’altra bella storia del Nuovo Metal, che però non abbiamo tempo di trattare).
Torniamo dunque a bomba sui nostri Jesu, che furono proprio i primi ad intuire
le potenzialità dello shoegaze applicato all’heavy metal. Il fatto è che
all'epoca (il debutto dei Jesu risale al 2005) si parlava al massimo di post-metal
(grazie all’accostamento con gli Isis, i cui concerti venivano aperti
umilmente dalla band del veterano Broadrick), o di drone-metal (visto
che i Sunn O))) in quegli anni dettavano legge in materia). La portata
rivoluzionaria dell'operazione non fu dunque inizialmente colta, ma nel lasso
di pochi anni i Jesu divennero un importante punto di riferimento nel panorama
post-metallico, guadagnando la stima di critica e fan, in particolare di quelli
appartenenti alle nuove generazioni, sempre più aperte alla contaminazione in
direzione alternative o hardcore.
“Conqueror”, secondo full-lenght
della band uscito nel 2007, ripulisce la sporcizia dell’omonimo debutto
di due anni prima, presentandosi come un prodotto più maturo e qualitativamente
superiore. Forse si perde qualcosa per la strada, in termini di spontaneità ed
urgenza comunicativa: le chitarre iper-distorte, gli accordi prolungati come
nella migliore tradizione doom, il tripudio di effetti riversati sulle ritmiche
scarne e nel mezzo la voce imperfetta di Broadrick, consacrato definitivamente
alla dimensione della pulizia vocale, erano stati una carezza con le fattezze
di uno schiaffo. Non tutti i conti
tornavano, ma oramai il metal si era troppo evoluto per stare a sindacare su
una stecca o qualche nota storta di troppo: il metallaro aveva bisogno di
emozioni. E Broadrick gliele dava. A palate.
Il debutto fu emozioni-allo-stato-puro
(si vada a riascoltare “Friends Are Evil”), un'opera dalla forza immane che
portava con sé la schiettezza del miglior cantautorato. E proprio di
cantautorato è lecito parlare, in quanto tutto (o quasi) grava sulle forti
spalle di Broadrick, impegnato dietro al microfono, ovviamente alla sei corde e
persino al programming. Sebbene i Jesu figurino come una band a tutti
gli effetti, il basso di Diarmuid Dalton è praticamente inesistente e la
batteria del buon Ted Parsons (batterista comunque onesto) fa il minimo
indispensabile, entrambi completamente schiacciati dalle immani
distorsioni/visioni delle chitarre del mastermind.
In “Conqueror” troviamo tutto
questo in una forma forse più “borghese”, ma anche più accettabile per le
nostre orecchie, con dei suoni più levigati ed arrangiamenti maggiormente
curati, sfiorando qua e là i lidi del “pop” (mi si perdoni il termine). La
stessa lunghezza dei brani viene a ridimensionarsi: contro i settanta e passa
minuti delle otto canzoni del debutto, troviamo l'oretta scarsa dei nuovi otto.
Non che si ritorni ai minutaggi dei Napalm, la musica dei Jesu procede senza
fretta e richiede il suo tempo per svilupparsi, fra ipnosi elettrificata e
granitici crescendo: cinque brani supereranno
i sette minuti, ed uno, il più bello (“Weightless & Horizontal”)
si spingerà addirittura oltre i dieci.
Se il debutto era stato
catrame, “Conqueror” al confronto è miele, ed è strano affermare ciò
riferendoci a colui che aveva suonato la chitarra in “Scum”. In “Conqueror”
finalmente tutto torna: le
armonizzazioni, la voce monotona di Broadrick, che cantante non è, ma che in
questo album sa essere dolce ed incoraggiante. Tutta la musica è incoraggiante.
Ecco, il termine che mi sento oggi di spendere per i Jesu di “Conqueror” è: incoraggiante.
Non nel senso di certe band dedite al power o all'epic metal, che mi
incoraggiano veramente poco, un po' perché non mi riconosco nel mito del
condottiero. La musica dei Jesu è invece quell'evasione struggente ed aderente
al Reale che appartiene fino ad un certo punto al metal (che spesso ama
rifugiarsi in mondi inesistenti) e che è più vicina, semmai, alla sensibilità
dell'indie-rock, sospesa fra sogno fanciullesco e nevrosi del Quotidiano.
Un'emotività trasognata che è al tempo stesso sguardo malinconico verso un
mondo percepito come “sbagliato” (probabilmente il quadretto industriale
ritratto in copertina), fuga onirica ed invito a “resistere”.
Musicalmente questo si
traduce in chitarre pesantissime che, invece di trascinare l'ascoltatore nel
fondo degli abissi, acquisiscono un carattere aereo, probabilmente grazie alla
stratificazione dei suoni luminosi e levitanti (sempre più raffinati) ed agli
arpeggi che ricordano gli album della maturità dei Cure (“Disintegration”,
“Wish”). A bilanciare qualche inevitabile passaggio prolisso, troviamo
soluzioni interessanti, come per esempio l'impiego di certe armonie maidiane
che, spalmate sullo scorrere impetuoso degli imponenti accordi di chitarra,
donano al tutto un bel gusto epico che non rinveniamo nei tipici gruppi dark/shoegaze.
Gli effetti, infine, confluiscono in un flusso di suoni che è bello assaporare
con gli occhi chiusi, sdraiati, nel completo abbandono al potere immaginifico
di queste splendide note, che ci trasportano in un inarrestabile moto di ascesa.
Si era partiti con la
politica e chiudiamo con la religione (che poi, in molti casi, sono la stessa
cosa) e parafrasando il grande Giovanni Lindo Ferretti di “Punk
Islam” (CCCP, 1985) vi dico:
Il Post-Metal è grande e
Justin Broadrick è il suo profeta!