"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

18 gen 2023

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: CELESTIIAL


Trentunesima puntata: Celestiial – “Desolate North” (2006)

Si è detto che il funeral doom è un universo, che la sua esplorazione potrebbe essere una faccenda infinita, ma questa rassegna prima o poi dovrà finire, per la nostra e la vostra sanità mentale. L’ultimo miglio sarà quello più ostico, vi avverto: ci siamo infatti lasciati per il gran finale, proprio adesso che le nostre energie sono agli sgoccioli, un pugno di opere che metteranno a dura prova la pazienza del più paziente, ma che faranno gioire il più masochista degli ascoltatori. Opere che rappresentano tappe dolorose di un ultimo sfiancante tratto di strada verso i lidi più degradati e sfrangiati delle sonorità del doom estremo. Sarà un discorso in crescendo, un cammino in salita, si parte infatti dalla tappa (si fa per dire) meno ostica. Ma non illudetevi, ed armatevi di forza e coraggio. 

Gli americani Celestiial, originari del Minnesota, si ritagliano il loro angolo di gloria all’interno del genere grazia al loro debut-albumDesolate North”, anno 2006, con cui i Nostri miscelavano un funeral doom da incubo, sonorità ambient ed un pizzico di folclore che non guasta mai...

I Celestiial hanno saputo stregare certi appassionati del funeral doom, ma anche lasciare indifferenti altri, fra cui il sottoscritto. Quel che io ci sento, al di là di qualche sprazzo di originalità, è un funeral doom assai canonico e minimale, decisamente monotono, ma chi sono io per giudicare? Io che ascolto anche i Porcupine Tree? Secondo taluni, invece, i Nostri avrebbero indirizzato gli stilemi del genere verso lidi inediti, quelli dell’ambient e del folclore: ambiti questi assai minoritari nell’economia del suono proposto, ma comunque presenti e non ignorabili. Da che parte dunque stare? A voi l’ardua sentenza dopo l’ascolto dei tre quarti d’ora di “Desolate North”, tutto sommato una cosa fattibile. 

Partiamo dicendo che “Desolate North” non è stato composto con l’idea che esso costituisse un album: cinque dei suoi brani vengono pari pari dall’apprezzato demoAshen”, del 2004, e solo successivamente sono stati realizzati tre brani aggiuntivi per raggiungere un minutaggio degno di un long play. C’è anche da dire che in origine i Celestiial non erano neanche una band, ma il progetto di tale Tanner Reed Anderson con trascorsi principalmente nel black metal (vedi la militanza in band come Obsequiae, Azrael, Autumnal Winds e il supporto live dato ai Panopticon). 

Con i Panopticon il Nostro condivide una visiona atmosferica del metal estremo, mostrando una predilezione spiccata per gli scenari della natura incontaminata (udiremo il cantar dei grilli, il cinguettio degli uccelli, lo scorrere dell’acqua, passi sul soffice manto boschivo ecc.) e delle tradizioni folcloristiche locali (interessanti gli innesti di arpa e di certi strumenti a fiato tipici della cultura nativa americana). E non è nemmeno un caso che ad un certo punto (ma successivamente alla realizzazione di “Desolate North”) si sia unito al progetto un personaggio come Jason William Walton, colui che fu il bassista dei mitici Agalloch. Oggi i Celestiial sono un terzetto, completato dal batterista Timothy Glenn, che aveva suonato il suo strumento anche nei già citati Obsequiae di Anderson. 

Insomma, sentendo parlare di Agalloch, Panopticon, arpe, strumenti tradizionali e field-recording, ai più sarà venuta l’acquolina in bocca, ma purtroppo le più rosee aspettative dovranno scontrarsi contro una dura realtà fatta di brani monolitici che faranno ben pochi sconti all’ascoltatore. I momenti più interessanti sono non a caso i quattro brevi interludi strumentali (sui due minuti l’uno) che ovviamente svelano il lato “ambient” del progetto, con Anderson alle prese con l’arpa, suonata in presa diretta a casa sua. I quattro brani rimanenti, quelli che invece rappresentano il corpus centrale dell’opera, sono dei blocchi di cemento armato (o di solida quercia, se vogliamo utilizzare una figura più consona alla filosofia del progetto) che si rivolgono esclusivamente agli appassionati del genere. 

Si tratta di composizioni fra gli otto e i dieci minuti che a mio parere peccano di staticità, con un comparto ritmico davvero minimale e basato principalmente su piatti e battiti lontani di drum-machine (i tempi sono esasperanti, anzi impercettibili, coerenti con una visione ambient del funeral doom). 

La chitarra elettrica si disperde in accordi così lunghi da confondersi con la drone music: un riverbero nel background che ricorda il ronzio soffocante di certi macchinari in fabbrica (o l’incessante soffiare del vento, sempre se vogliamo optare per immagini più consone al contesto). In mezzo a questo placido fiume di elettricità nera come la pece troveremo rintocchi funerei di singole note di chitarra (che faranno la gioia dei fan dei Catacombs) e il continuo frusciare degli effetti ambientali (fastidiosi a tratti). 

Il growl, impiegato sporadicamente, offre un campionario di rantoli e riflussi gastrici che si perdono un po’ nel mixaggio e fra i versi degli uccellini: un elemento come gli altri nel paesaggio, che non vuole ovviamente “macchiare” di umanità cotanto incanto per orecchie e cuore, e che non sembra voler accentuare la struttura o la peculiarità di un brano, visto che la scrittura procede per lente variazioni disseminate in un contesto di reiterazione dei soliti suoni. 

Tutti questi fattori edificano un doom asfissiante, definitivamente blindato nella sua fortezza di ostica ortodossia, entro cui è davvero difficile penetrare. Anche i momenti di arpa mostrano una esecuzione elementare, ma sono indiscutibilmente un elemento che arricchisce la proposta: la forza del platter, si sarà capito, sta nella atmosfera, nella coerenza e nella determinazione di Anderson nel voler creare un viaggio estraniante, misantropico che, tramite il linguaggio del doom estremo, sa giovarsi delle suggestioni della natura selvaggia del Nord America e dalla componente mistica offerta da un immaginario pagano che sta solidamente dietro al concepimento delle composizioni, da intendere come rituali. 

Un aspetto concettuale, quest'ultimo, che nobilita il suono granitico e monocolore dei Celestiial, avvicinandolo ai crismi del black metal, sebbene Anderson abbia sempre tenuto a chiarire che il suo progetto niente ha a che vedere col metallo nero. E non ha tutti i torti, il Nostro, offrendo una lettura della materia doom che si avvicina più ad una concezione ambient che a qualsiasi altro stilema del metal estremo. 

Da ascoltare rigorosamente in quelle meste giornate d'inverno in cui si sente che l'unico amico rimasto sul pianeta terra è il funeral doom...  

(vai a vedere le altre puntate della rassegna)