Incineration Fest, un anno dopo. È buffo constatare la diversità di approccio rispetto all'edizione 2022. L'anno scorso c'erano gli Emperor. Punto. Tutte le aspettative erano rivolte ai norvegesi e sinceramente poco mi curai delle altre band, salvo gradirne le esibizioni con lo spirito di sbocconcellarle come se fossero un antipasto. Per il sottoscritto era il secondo evento dal vivo dopo la pandemia e questo ovviamente andava ad influire sulle sensazioni generali della giornata, alimentando timori e preoccupazioni, anche irrazionali, ma comprensibili. Tanto fu la mia paranoia di perdermi accidentalmente, per qualsiasi motivo, l'esibizione di Ihshan e soci che mi accampai dal primo pomeriggio al Roundhouse, fregandomene totalmente dei gruppi sui palchi negli altri locali del circuito del festival (fra cui, volendo, potevano esserci degli interessanti Unleashed).
Quest'anno le sensazioni sono del tutto diverse: un anno è trascorso, molti concerti sono passati in rassegna, la dimensione live è tornata ad essere una consuetudine e ci possiamo dunque appropinquare all'evento con maggiore scioltezza. All'Incineration mi sento a casa conoscendone adesso caratteristiche e procedure. Quest'anno, poi, il bill è decisamente più ricco e ben sette sono i nomi che mi sono appuntato sul taccuino: Asphyx, Profanatica, Rotting Christ, Suffocation, King Dude ed ovviamente i due co-headliner, niente-popo'-di-meno-che Enslaved e Marduk. Insomma, un programma da leccarsi baffi e poco importa se il tutto si è prospettato fin dall'inizio massacrante con circa sette ore in piedi, musica brutale senza pause ed una delicata gestione della logistica, visto che le band si sarebbero alternate in diversi locali. L'approccio è bulimico, la sfida è vedere tutto il vedibile. E dunque che devastazione sia!
Teatro delle esibizioni da me selezionate sarebbero state Underworld ed Electric Ballroom. Conosco bene entrambi i posti: adoro l'Underworld, anche se le sue caratteristiche e le piccole dimensioni si prestano meglio a concerti non-metal, e chissà se reggerà innanzi alla forza d'urto dei Suffocation. Ma questo non è un problema che ci poniamo al momento visto che la prima tappa è all'Electric Ballroom, già saggiato in passato con Mayhem e Paradise Lost: indubbiamente uno dei posti a Londra con la migliore acustica per un concerto di metal estremo. Vediamo dunque come è andata alla corte delle "Sette Sorelle" e perdonatemi se sarò meno analitico e dettagliato del solito: di cose da dire ce ne sono molte e diverse, per questo ho preferito concentrarmi sulle mie sensazioni. Per le scalette c'è sempre l'Internet!
Casa Van Drunen
Si parte con gli Asphyx. Senza tante cerimonie Martin Van Drunen si presenta sul palco durante il sound-check a testare il microfono, scherza con il pubblico, è in definitiva un gran buontempone. Da segnalare il fatto che durante i preparativi si hanno i Darkthrone in filo-diffusione (ma che bello "Under the Funeral Moon"!), ed un sound-check con i Darkthrone aspettando gli Asphyx potrebbe essere sulla carta il momento più estremo della vita, ma sono ancora le 3:50 del pomeriggio, siamo ancora pieni di energie e speranze.
Attaccano gli Asphyx e subito ci si sente a proprio agio. È un suono confortevole, quasi avvolgente, per niente impertinente. Aiuta l'acustica dell'Electric Ballroom, che ci restituisce suoni nitidi e puliti. La band è sul pezzo, risulta subito massiccia e precisa nel portare sul palco il suo death metal schietto. I brani funzionano, fra passaggi tirati e possenti mid-tempo, con il latrato cavernoso di Van Drunen ad illuminare la via. Il Nostro è invecchiato decisamente bene, è quasi un belloccio con i suoi lunghi capelli biondi. Il suo fare disinvolto tipico della old school forse toglie un po' di poesia al momento, ma la cosa da segnalare con gioia è che il suo caratteristico growl strascicato giunge intatto alle nostre orecchie dopo più di trenta anni di carriera. Mi torna in mente il mitico "Consuming Impulse" dei Pestilence (dove Van Drunen cantava) e mi scende una lacrimuccia lungo la gota.
Insomma, tutto molto bello, ma devo anche ammettere che dopo venti minuti la musica degli Asphyx inizia a suonare un tantino prevedibile e quindi inizio a covare l'idea malsana di andare a vedere i Profanatica che suonano quasi in contemporanea e a cui, nel mio programma originario, avevo pensato di dedicare i quindici minuti sindacali. Attendo un altro po' ma appena dopo l'anthemica "Deathhammer" (graditissimo momento) decido di salutare Van Drunen e volare verso l'Underworld.
Voto: 7
I quindici fottuti minuti dei Profanatica
Che poi, come dicevo sopra, sono in realtà diventati trenta minuti. Corro all'Underworld che trovo inaspettatamente pieno di fan dei Profanatica. Riesco a trovare un posticino defilato bello tranquillo dove poter fruire dello show degli americani. Il loro black metal è obsoleto ed assai legnoso, ma non privo di un certo fascino. È quel black metal che condivide ancora le radici con il death metal delle origini (ignorando la rivoluzione scandinava) e che del black metal conserva una concezione legata al satanismo, all'occulto e all'anti-cristianesimo. Del resto i Nostri, sebbene esordiscano discograficamente solo nel 2007, vantano una lunga storia, essendosi formati nel lontano 1990, risultando tra i primissimi mover in campo black metal negli Stati Uniti.
Paul Ledney, che è stato anche fondatore degli Incantation (ma che avrebbe abbandonato presto la band non essendo interessato a suonare death metal) è l'unico membro che conta della band, ed oggi si fa accompagnare sul palco da due giovinastri rispettivamente al basso ed alla chitarra. La sua è una figura indubbiamente carismatica: una icona spettrale dalla lunga barba e il face-painting essenziale che spunta inquietante da dietro il set della batteria. Il Nostro suona il suo strumento in modo rozzo ma efficace e ha un growl spiritato con cui ama prodigarsi in lunghi monologhi introduttivi che hanno un che di rituale (anche se poi l'unica parola che sento ripetere con insistita frequenza è fucking).
I brani si muovono in modo convulso ed irrazionale, fra galoppate d'antan e lugubri ed ossessivi rallentamenti. Non male, ma adesso è tempo di andare in Grecia dai Rotting Christ!
Voto: 6.5
Let's Dance!
Dopo l'oppressione di Asphyx e Profanatica, assistere ad un concerto dei Rotting Christ è stata una vera liberazione: si ha lo spirito leggero di chi balla techno sulle spiagge di Mykonos. È la boccata d'aria che ci voleva e con i greci arriveranno le prime vere emozioni della giornata. Già li avevo visti più di venti anni fa a Livorno in una improvvida serata in compagnia di Old Man's Child e Sacramentum, ma devo dire che non conservavo un nitido ricordo della loro esibizione. Anzi, rivederli stasera è stato come vederli per la prima volta. La band si regge ancora sull'asse storico dei fratelli Tolis (rispettivamente a voce/chitarra e batteria) mentre a basso e chitarra solista troviamo due giovani session man decisamente bravi con i propri strumenti.
Definire i greci black metal è riduttivo, nel corso di più di trenta anni di carriera il loro suono si è affinato in una formula che coniuga potenza e melodia, con influenze mutuate dal folclore ellenico, mitologia e forti iniezioni di metal classico (in particolare negli assoli, sempre elaborati e caratterizzati da un grande gusto melodico). I pezzi, vecchi o più recenti, suonano tutti irresistibili, spesso marcianti su epici mid-tempo impregnati di una forza anthemica che a questo punto della giornata risulta quasi commovente (vero è che l'alcol inizia a sortire i suoi effetti, nda). A parere del sottoscritto l'apice si raggiunge con il classicissimo "Non Serviam", spruzzato di genuino spirito anti-establishment che appartiene oramai solo alle realtà più veraci della vecchia scuola.
Che gran cuore hanno i Rotting Christ, e che gran frontman è Sakis Tolis, che cerca continuamente il contatto con il pubblico, interagendoci, aizzandolo, ma senza mai risultare un pagliaccio. Ancora ho l'immagine impressa nella mente di lui che si tocca il cuore con il pugno a mo' di ringraziamento verso il pubblico. E sono ancora lacrime.
Voto: 8
Quei fottuti quindici secondi dei Suffocation
È proprio vero che i piani son fatti per non essere rispettati: se nei miei programmi originari avevo infatti intenzione di sacrificare gli ultimi dieci minuti del set dei greci per recarmi all'Underworld e vedere i Suffocation, alla fine non me la son sentita di interrompere il flusso e andarmene sul più bello. L'aver visto i Rotting Christ fino in fondo ha tuttavia presentato un prezzo da pagare, ossia sopportare una lunga coda di persone fuori dall'Underworld. Eccomi dunque in fila aspettando che qualcuno esca stufato dal brutal-death dei Suffocation, un nome storico che evidentemente ha attirato l'interesse di molti. Trascorrono venti minuti vissuti nell'incertezza più assoluta, dove più volte ha attraversato la mia testa la tentazione di disertare l'evento e sfruttare l'occasione per andare a mangiare qualcosa, ma poi la caparbietà e la volontà di tenere fede al programma originario hanno prevalso ed eccomi finalmente nella mischia schiacciato dal suono devastante degli americani.
Il locale è pienissimo, quasi ai limiti della sopportabilità, e non è che mi goda tantissimo la situazione. Peraltro si consuma il fatto più spiacevole della giornata. Dovete capire che a Londra quest'anno la primavera non ne vuole sapere di degnarci della sua presenza - alla faccia del riscaldamento globale. Sono pertanto dovuto uscire con il giaccone pesante che ho indossato nei tragitti fra un locale e l'altro, ma che prontamente mi sono tolto appena entrato al chiuso, tenendolo appeso sulla borsa a tracolla. Fatto sta che nel bel mezzo della bolgia mi rendo conto che il giaccone non pende più dalla mia borsa e dunque, in preda alla disperazione, mi son gettato in ginocchio a tastare il lercio pavimento per cercare di recuperarlo, salvo poi, dopo angoscianti istanti, realizzare che avevo il giaccone sempre addosso. Cioè, a questo giro mi ero scordato di toglierlo, ecco perché faceva così caldo. Insomma, avrete capito che non mi sono proprio goduto il concerto dei Suffocation.
Che poi, dei Suffocation storici, quelli di "Effigy of the Forgotten" (anno di grazia 1991), sopravvive solo il chitarrista Terrance Hobbs. Ad ogni modo non ho niente da ridere sull'esecuzione in sé, precisissima, chirurgica e marchiata da un elevatissimo tasso tecnico, con brani mega-intricati ed una band affiatatissima a riprodurli nei minimi dettagli. Però la situazione è soffocante per davvero: la troppa gente e le temperature da foresta pluviale fan sì che mi limiterò a riprendere con il telefonino 15 secondi a caso dell'esibizione, giusto per ricordo, per poi recarmi nuovamente all'Electric Ballroom e farmi trovare in anticipo sotto al palco per gli Enslaved, il nome che, più di tutti, mi ha convinto a spendere le 66 sterline del biglietto.
Voto: S.V.
Psichedelia del Nord
Con la mia bella birretta mi posiziono veramente vicino al palco con l'intenzione di gustarmi nei minimi dettagli l'esibizione degli Enslaved. Già il palco promette bene, con strumentazione di alto livello e la comparsa sulle assi delle tastiere. Non è un caso che, accanto a me, noto l'accalcarsi di intellettuali, professori, ricercatori universitari e rappresentanti del gentil sesso (magie del black metal!). Questa volta il sound-check è improntato sull'hard-rock e mi ritrovo ad emozionarmi per un brano dei Blue Oyster Cult. Ma ecco che si spengono le luci ed attacca il celebre tema di "Arancia Meccanica", scelta che non mi sarei aspettato dai norvegesi.
I Nostri, come prevedibile, si concentrano sul repertorio recente ed in particolare sulla promozione dell'ultimo album "Heimdal" (peraltro molto bello), che si aggiudica ben quattro estratti nella scaletta di stasera. L'esibizione scorre all'insegna di partiture complesse perfettamente ammaestrate da musicisti in forma e dotati tecnicamente. Ecco, gli Enslaved sono dei musicisti, gente che vive il metal estremo non come l'espressione di una precisa attitudine ma come una visione artistica da perseguire. Conseguentemente li vedremo tutti estremamente concentrati sui rispettivi strumenti, con il solo Grutle Kjellson a cercare l'interazione del pubblico e concedersi qualche vezzo da front-man. Il suo screaming e il suo basso "grattano" in pari modo, dando ruvidità a brani tanto ricercati quanto devastanti; a volte poi si mette a spippolare un marchingegno al fine di generare suoni distorti e cacofonici che aggiungono spunti d'avanguardia rumorista ad una proposta già di per sé complessa e dalla vocazione progressiva.
Sono particolarmente colpito dalla velocissima "Congelia", dove luci rosse pulsano in modo insistito dando al brano una controversa connotazione psichedelica: una performance tesa che mi suscita autentici stati di trance. Calamitano l'attenzione le due asce, così diverse così complementari: da un lato la figura statuaria di Ivar Bjørnson, lunga barba e stazza da vichingo; dall'altro un più dinamico Arve Isdal, piegato sulla sua chitarra in pose ondeggianti di ispirazione estatica.
I Nostri si concedono solo due tuffi nel passato. "Heavenless" (da "Below the Lights" del 2003) si avventa su di noi con passo marziale ed impeto declaratorio - Gruntle per la circostanza si libererà del suo strumento per dedicarsi in toto ad una animata performance vocale. E poi "Allfáðr Oðinn", una vera chicca dal passato più remoto che fa riaffiorare le bellicose origini viking della band: si parla di un brano ripescato addirittura da una demo del '92 - anno di nascita del tastierista Håkon Vinje, fa sapere Gruntle, a dimostrazione di come tutte queste band storiche, salvo uno o due componenti, si sono viste costrette a rimpinguare i propri organici con musicisti molto giovani.
Fatta eccezione per quest'ultimo brano, che ha scatenato il pogo più sfrenato, il pubblico ha seguito con religiosa attenzione i preziosismi di una musica dalla grande ricercatezza qual è quella proposta dai norvegesi. Qualche sbavatura qua e là c'è stata (soprattutto si percepisce una debolezza nelle parti di voce pulita e approssimazione esecutiva nelle sezioni acustiche), cosa che non fa degli Enslaved un gruppo impeccabile come i Suffocation, ma è anche comprensibile se si pensa alla portata artistica della musica riproposta sul palco. Emozioni da intenditori!
Voto: 9
Sorbetto al neo-folk
È stata una vera genialata quella di includere nel programma del festival un nome totalmente avulso dal metal come King Dude. Oddio, totalmente avulso no, perché Thomas Jefferson Cowgill (mastermind del progetto) è stato anche cantante e chitarrista dei Book of Black Earth, band blackened death metal di Seattle che ha rilasciato tre album fra il 2006 e il 2011. E poi il folk-noir del Nostro, con le parole Morte e Diavolo che si ripetono spesso nei testi, qualche ammiratore metallaro ce l'ha sicuramente. Per me è la terza volta che lo vedo su un palco (una volta con Sol Invictus ed Of the Wand and the Moon, ed un'altra con i Ruins of Beverast - a dimostrazione di una trasversalità di pubblico che va dal folk apocalittico all'atmospheric black metal) e devo dire che è sempre stato un piacere.
Contrariamente alle scorse volte, in cui il Nostro era accompagnato da una band vera e propria (e dunque in possibilità di sfoggiare un repertorio anche elettrico, fra blues del Mississipi, rock'n'roll e post-punk), stasera lo ritrovo in versione solitaria ed acustica, con al seguito solo un percussionista, in perfetto stile neo-folk. E che dire gente, ho goduto da morire. Dopo ore di truce metallo, si dischiude come un miracolo dorato un luogo "totalmente altro", una dimensione intima, confidenziale, fatta di melodie acustiche carezzevoli e con il padrone di casa in vena di chiacchiere fra un brano e l'altro. Il Nostro ha messo su qualche chilo e con la barba l'ho trovato molto diverso, anche nell'atteggiamento - una volta più serioso (ma non privo di un certo humour nero), oggi più scanzonato, ai limiti del cabaret. Prende in giro certi vezzi del black e del death metal, poi esegue intense ballate con la sua voce baritonale da crooner maledetto, ed è tutto meraviglioso.
E credo che il senso di inserirlo in un festival come l'Incineration sia stato quello di offrire un utile diversivo a fine giornata, un po' come quando ai matrimoni ad un certo punto ti offrono un sorbetto al limone per farti riprendere prima della portata successiva. Un toccasana necessario prima dell'ultimo rush con i temibili Marduk.
Voto: S.V.
At War!
A malincuore lascio in anticipo King Dude per poter tornare per l'ultima volta all'Electric Ballroom ed assistere all'esibizione dei Marduk, ma questa volta non mi posiziono troppo sotto il palco, sia per evitare il pogo molesto sia per cercare di fruire dell'acustica perfetta, magari in posizione centrale davanti al mixer visto che le mie orecchie iniziano ad essere doloranti. Avremo l'onore stasera di presenziare al "30th Anniversary Tour - Part II", prosecuzione del tour celebrativo dei trenta anni di carriera della band che era stato avviato nel 2020. Nessuna menzione verrà fatta del nuovissimo "Memento Mori" di imminente uscita, al quale probabilmente verrà dedicato un tour ad hoc più avanti nel corso dell'anno.
Il set dei Marduk sarà asciutto ed intenso, con brani sparatissimi inframezzati con suoni di ambiente e suggestioni marziali, evocando umori e modus operandi di un album come "Panzer Division Marduk", di cui però non udiremo estratti stasera. Del resto la canotta di Morgan ritraente il totenkopf (simbolo di una divisione delle SS della Germania nazista) spiega chiaramente le intenzioni bellicose della band svedese. Fra gli astanti c'è esaltazione, ma si percepisce anche la fisiologica stanchezza derivata da una lunga maratona di metal estremo, cosa che però non impedisce il verificarsi del secondo momento spiacevole della giornata: col primo brano mi vola in faccia un bicchiere di una orrenda bevanda alcolica sfuggita di mano ad un mal capitato davanti a me, travolto da un inaspettato pogo giunto nelle retrovie. È il metal estremo, bellezza!
Mortuus - sguardo torvo, poche parole e zero cazzate - è un frontman a modo suo carismatico ed ottiene il massimo con il minimo. Si limita a presentare i brani, per il resto le sue corde vocali si prodigheranno con grande efferatezza nel suo caratteristico screaming tagliente come un rasoio. La band, dal canto suo, non sbaglia un colpo, garantendo precisione e potenza distruttiva. Brani nuovi e vecchi si confondono in una coerenza stilistica che non è stanca ripetizione ma il rinnovamento continuo di una formula vincente. E dunque graditi estratti da album storici come "Those of the Unlight", "Opus Nocturne" e "Heaven Shall Burn....When We are Gathered" si mescolano alla perfezione ad un repertorio recente che culmina con fucilate come "Viktoria" e "Werwolf" (dall'ultimo ottimo "Viktoria" del 2020).
Fra tutti i gruppi black metal visti oggi o in passato, i Marduk sembrano i più "puri", essi portano avanti intatto il suono del black metal di inizio anni novanta, un suono che odora ancora di Mayhem e primi Darkthrone, un suono stupendo, aggiungo io. Morgan non è mai stato il mio riff maker preferito, ma stasera mi colpisce in positivo, riconoscendo in lui la grandezza di coloro (non saranno stati più di dieci) che ad inizio anni novanta seppero forgiare un nuovo linguaggio nel metal estremo.
Una menzione d'onore la merita il bassista che a fine concerto è rimasto solo sul palco, incalzato dal pubblico che gridava in coro "one more song! One more song!", prodigandosi in un siparietto surreale, fatto di gesti lenti, baci rubati, espressioni ambigue ed ammiccanti, ai confini con l'universo gender fluid...superiorità del black metal... anzi no! Apprenderò nei giorni successivi che Joel Lindholm (questo il nome del bassista) sarà malamente buttato fuori dal gruppo per "comportamenti non professionali" tenuti proprio durante la data di Londra. Si vocifera che il Nostro ad un certo punto del concerto abbia fatto un saluto romano (dettaglio che non avevo personalmente colto), ma dubito che la cosa abbia indignato più di tanto uno come Morgan che per l'occasione indossava una maglia con lo stemma di una divisione delle SS. Sia quel che sia, era palese che Lindholm fosse ubriachissimo e totalmente fuori contesto, e il mastermind non deve avere molto gradito... Peccato, a me la scenetta a fine concerto era pure piaciuta...
Voto: 8.5
Conclusioni
Si esce massacrati ma soddisfatti dall'esperienza. Un mix fra strategia ed improvvisazione hanno giovato alla fruizione dell'evento, con il quale mi son tolto un paio di sassolini importanti (Enslaved e Marduk, gente che seguo dal '94).
Una prima constatazione potrebbe essere che ho avuto la conferma che il black metal mi piace infinitamente di più del death metal, ma questi son gusti personali e non è che avessi bisogno di particolare conferme al riguardo.
Una seconda osservazione potrebbe essere il fatto che il fattore quantità ha avuto un ruolo determinante: se in tempi recenti mi sono riscoperto un po' freddino innanzi a concerti che mi sono sembrati troppo brevi e che mi sono sfuggiti di mano troppo in fretta (sarà la vecchiaia che mi dà l'impressione che il tempo scorra più velocemente?), un lauto banchetto di tal fattispecie (alias quasi sette ore di musica!) mi ha saputo saziare adeguatamente. In particolare ho goduto verso la metà della giornata, quando iniziavo ad essere bello rodato e ho provato quella gioia peculiare di quando si ha la sensazione di godersi il momento ed al tempo stesso si ha il pensiero incoraggiante che il meglio debba ancora venire.
Una terza conclusione è che mi sono ritrovato a gioire maggiormente laddove meno me lo sarei aspettato, ossia con Rotting Christ e King Dude, peraltro gli unici due artisti che avevo già visto dal vivo e che, nei miei piani, avrei dovuto in parte sacrificare proprio per questo motivo. In particolare lo squarcio acustico di King Dude in una giornata dedicata al caos ed al rumore è stato veramente il momento più inaspettato e quindi colmo di piacere, in una vita, la Nostra, in cui tutto è prevedibile e in cui non ci si stupisce più di niente.
Caro Incineration, anche quest'anno mi hai fatto sognare: avanti tutta con l'edizione 2024!