4 giu 2023

PRIMA DEL FUNERAL DOOM: PARAMÆCIUM

 

Meno tre: Paramæcium - "Exhumed of the Earth" (1993) 

Entriamo nella zona caliente del nostro prequel sul funeral doom. Si usa far coincidere l'inizio ufficiale  del funeral doom con il debutto dei Thergothon, targato 1994. Già nel 1993, tuttavia, erano evidenti i segnali che qualcosa bolliva in pentola: diverse, infatti, erano le proposte che presentavano delle caratteristiche sonore analoghe a quelle che, di lì a poco, sarebbero state le coordinate stilistiche tipiche del genere. Gli australiani Disembowelment, che abbiamo già trattato come "punto zero" nella nostra rassegna, erano per esempio molto vicini a quelle sonorità, tanto che qualcuno già li considera funeral doom: ancora legati a doppio filo con il death metal (si pensi alla presenza massiccia di passaggi iper-veloci), non lesinavano momenti di asfissiante, melmosa e sfiancante lentezza. 

Rimaniamo in Australia con un'altra band che, come i Disembowelment, saprà coniugare in modo efficace gli stilemi del doom a quelli del death metal: i Paramæcium

Dopo un demo rilasciato nel 1991, i Paramæcium esordivano nel 1993 con “Exhumed of the Earth”, lavoro passato sotto traccia in un periodo in cui tutti i riflettori erano giustamente puntati su Paradise Lost, My Dying Bride ed Anathema. Il combo australiano non rappresenta certo il nome più noto in ambito doom-death metal, ma ai più attenti non sarà sfuggito questo "Exhumed of the Earth", validissimo lavoro che si inseriva nel genere forte di alcune peculiarità che lo distinguevano dal resto del movimento. 

Il nocciolo del sound rimaneva brutale: Andrew Tompkins (basso, voce ed autore dei testi), Jason De Ron (chitarre) e Jayson Sherlock (batteria) si approcciavano ai rispettivi strumenti in modo semplice, diretto e tremendamente efficace, alternando passaggi decisamente feroci ad un doom straziante: una formula via via impreziosita da elementi insoliti nel panorama del metal estremo del periodo. Anzitutto i testi incentrati sulla cristianità che collocano i Paramæcium fra i primi esempi di christian metal in ambito estremo. Non saprei dire se la scelta sia stata dettata dal credo religioso dei componenti della band o dalla semplice propensione a trattare determinati temi, fatto sta che di questa presunta “devozione” non vi è nulla nel suono oscuro ed annichilente della band. 

Le novità non finiscono qui.  I Paramæcium anzitutto si avvalevano di una voce femminile (quella da soprano dell'ospite Rosemary Sutton), impiegata in modo significativo, prima ancora che la pratica qualche anno dopo fosse sdoganata dai Therion (che nel 1993 ancora pasticciavano con il death metal contaminato di “Symphony Masses: Ho Drakon Ho Megas” – la svolta sinfonica vera e propria sarebbe avvenuta nel 1995 con “Lepaca Kliffoth”). Non solo: troveremo anche un violino (in linea con quanto fatto nel medesimo periodo dai My Dying Bride) ed un flauto ad arricchire la palette di colori a disposizione dei tre australiani. Infine, il minutaggio elevatissimo dei brani che, più di ogni altra cosa, ci ricongiunge ad ambientazioni care al funeral doom (qui i sessantasei minuti dell'opera sono suddivisi in sole sette tracce - fate voi i calcoli...). 

Si prenda a titolo d'esempio l’openerThe Unnatural Conception in two parts: The Birth and the Massacre of the Innocents”, lunga ben diciassette minuti (ecco le durate che ci piacciono!). Nella monumentale suite d'apertura i Nostri concentrano le migliori idee dell'intero platter: l’incipit è affidato ai gorgheggi inquieti della Sutton, prima lasciata in solitaria e subito sovrastata da riff portentosi e ritmiche schiaccia-ossa. Ci vorrà qualche minuto prima di udire il growl cavernosissimo di Tompkins, a dimostrazione di come la band intendesse procedere senza fretta nella narrazione del concept lirico, altro aspetto che ritroveremo nel funeral doom. A metà del brano vi sarà lo spazio per un dolentissimo intermezzo di violino (sempre a cura della Sutton) che, prima accompagnato da un raggelante pianto di bambino, poi sommerso da riff di indubbia ispirazione melodica, rappresenterà un altro momento di grande intensità. 

I sei brani rimanenti preferiranno muoversi in ambiti più tradizionali, perseverando nell’alternanza fra granitici tempi medi, concessioni al doom più affliggente ed accelerazioni che invece fanno emergere una vocazione ancora solidamente thrash/death. Del resto la produzione ruvidissima sembra volersi allineare agli standard di efferatezza dei grezzi suoni del death metal di marca svedese, che all’epoca iniziava a fare scuola con i vari Entombed, Dismember, Grave ed Unleashed

Come i Disembowelment, i Paramæcium pagano lo scotto di una certa legnosità che li rendeva sicuramente meno fluidi ed aggraziati di Paradise Lost e My Dying Bride (che, lo ricordiamo, nel medesimo anno, toccavano vette inarrivabili per qualsiasi altro rispettivamente con album come “Icon” e “Turn Loose the Swans”). Più che altro i Nostri presentavano ancora una visione artistica acerba dove sopravvivevano sparate abbastanza naive come possiamo ancora udire in brani quali “Untombed” e “Haemorrage of Hatred” (siamo lontani anni luce dalla poesia della Sposa Morente, e già i titoli tradiscono un legame ancora molto forte con il death metal). 

I momenti migliori, come detto, son quelli in cui si esce dal copione, come per esempio l’apertura e la chiusura a base di chitarra classica della conclusiva “Removed of the Grave”, altro highlight del disco: dieci minuti e passa in cui torna a convincere la commistione fra pesantezza estrema e voce femminile.

I Paramæcium non sono per tutti i palati e certamente, al di là di certe intuizioni vincenti, rimangono una spanna sotto ai protagonisti del doom-death metal che tutti conoscono. Ai fini della nostra rassegna, è tuttavia innegabile che essi abbiano costituito un precedente importante per tutti coloro che, di lì a poco, si sarebbero cimentati in quella esplorazione della materia estrema indirizzata allo sviluppo del funeral doom come genere a sé stante. Ci siamo quasi...