Assieme al latte del biberon. O, come per osmosi, semplicemente respirando. Degustati e digeriti più o meno in dosi omeopatiche sin dalla nostra neonatalità musicale.
Gli Scorpions.
Se, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, i Queen sono stati, per tantissimi di noi, una delle "porte" più utilizzate per approcciarsi al rock prima e al metallo dopo, gli Scorpions sono stati quella band che, volenti o nolenti, tutti noi abbiamo introiettato.
Ascoltavi thrash? Ci mettevi in
mezzo, qua e là, anche un ascolto degli Scorpions.
Amavi maggiormente hard rock ed
heavy classico? Gli scorpioni erano
un ascolto altrettanto indispensabile.
Eri attratto dalla brutalità del death? Ok, ma i tedeschi facevano comunque
parte della tua discografia. Complementariamente.
Insomma, Meine & co. tutti
quanti li abbiamo masticati. Chi in maniera più strutturata, costruendone e assimilando la loro discografia. Altri in modo più ‘sporadico’ tramite greatest hits e/o qualche
live.
Minimo comun denominatore di intere generazioni di rockers e
metalheads. E dei quali si conoscono a memoria highlights e ritornelli. Una band che ha fatto scuola, anche per grandi nomi più o meni coevi
(a partire dai Kiss), su cosa volesse dire essere una rock band dal successo
planetario, su come si stesse su un palco e scaldare i cuori degli astanti.
E così, lo scorso 10 luglio,
l’occasione era troppo ghiotta per lasciarceli sfuggire: Lucca Summer Festival, 160 km da casa, all’aria aperta, in una
città splendida che non visitavo dai tempi del Liceo, quando mi vi recavo per
partecipare alla c.d. Fiera del Fumetto (prima che diventasse l’attuale ‘macello’
del Lucca Comics & Games).
L’attuale tour planetario della
band di Hannover celebra i 60 anni dalla loro formazione. Ecco, lo diciamo
subito: 60 anni fittizi, posto che il
primo album dei Nostri, “Lonesome Crow” è del ’72. Ma, lo abbiamo
capito, ai gruppi piace esagerare e datare la loro esistenza dai primissimi
vagiti di formazione, senza ancora neppure una demo o un EP pubblicato (anche
gli Iron hanno festeggiato quest’anno dei “fittizi” 50 anni di vita).
Ad ogni modo, poco importa: siamo
qui a omaggiare gli Scorpioni, consci che, dopo i recenti malanni laringei di Klaus patiti la scorsa primavera in Sud America, altre occasioni per vederli on stage in Italia, probabilmente, non
ce ne saranno in futuro.
Arriviamo così in zona Piazza Napoleone con un paio d’ore
abbondanti d’anticipo. Tempo sereno, asciutto e aria fresca che accarezza la
pelle. Molto bene: scongiurata la ‘caldazza’ devastante che ha investito l’Italia e
l’Europa tra fine giugno e inizio luglio. Per le piazze, vie e vicoli della
splendida cittadina toscana notiamo già parecchia “fauna rockettara” che
affolla i dehors di bar e trattorie e
pasteggia col volto disteso in attesa del concerto. Le magliette dei tedeschi
la fanno numericamente da padrone,
insidiate in quantità da quelle di Kiss e AC/DC. Si respira, come prevedibile, aria rock
e il sottoscritto con la maglietta dei Nevermore, e il nostro Dottore con quella
dei Mayhem, paiamo alquanto fuori luogo (ma sarà una piacevole sorpresa vedere accanto
a noi un ragazzone alto quasi 2 metri con una t-shirt di Burzum col quale ci si
scambierà occhiata d’intesa blackish).
La piazza, altrimenti detta Piazza Grande, è splendida, contornata
da file d’alberi davanti a palazzi signorili d’epoca. Il palco è posto davanti
all’elegante Palazzo Ducale, attuale
sede della Provincia.
Entriamo, ahinoi, per impegni
extra-musicali, un po’ troppo a ridosso dell’orario di inizio e questo non ci
consente di essere sufficientemente avanti, impallati peraltro dalla statua di
Maria Luisa Borbone, posta al centro del rettangolo della venue. Insomma, non
il massimo della vita ma tant’è…
Quando si spengono le luci, i
maxischermi rimandano un filmato celebrativo di questi 60 anni di vita, tra
immagini d’epoca (Meine col tamburello che aizza la platea, i membri del gruppo
vestiti con suite attillatissime e sgargianti,
la band che, con stampato il sorriso dei giovani che hanno in pugno il mondo e
il futuro, sale su aerei a elica che paiono stare assieme per miracolo); e poi:
i viaggi in oriente tra fan invasati che chiedono autografi, panoramiche di palazzetti
pieni come un uovo e, infine, dati auto-incensanti una carriera difficilmente
eguagliabile (“over 5000 concerts”, “27 world tours in 83 countries”) che
vanno a esplicitare in modo plastico la grandezza dei tedeschi.
Al termine del video veniamo investiti da una tempesta di
fulmini, coltri di nubi minacciose, un tripudio di tuoni e luci fino a che, dal
videowall centrale si affaccia il Pianeta Blu, la Terra vista dallo spazio che,
kubrickianamente, sarà il biglietto da visita per introdurre l’opener della
serata, la toccante “Coming Home”: Klaus entra lemme lemme sul palco, il
pubblico si emoziona e canta a memoria il testo. Affianco a me guardo con tenerezza
un signore sui 65 che, mimando un goffo air-guitaring, doppia il Meine in modo
stonatissimo, peggio di quanto potrebbe fare una cornacchia come il
sottoscritto (e ce ne vuole, credetemi…).
A colpirmi sin da subito, mi
piace sottolinearlo, sono gli splendidi filmati che accompagnano i brani: veri
e propri mini-film che, in simbiosi con le luci dello stage, rimandano verso il
pubblico uno scintillante gioco di flashes
e colori che sono una gioia per gli occhi. Laddove il brano riproposto non ha
un filmato ad hoc, gli schermi restituiscono i primi piani in diretta dei
musicisti, arricchiti da giochi di luce, fiamme, scintille e bianchi&neri fumettosi davvero ben riusciti.
Da questo punto di vista,
spettacolo promosso a pieni voti.
Così come promossa a pieni voti è
la scelta della setlist che, come celebrazione storica vuole, va a ripescare a
piene mani dal periodo d’oro dei Nostri, cioè il lustro 1979-1984: dal quartetto di full lenght di quel periodo (“Lovedrive”, “Animal Magnetism”, “Blackout”
e “Love at First Sting”) verranno
tratti ben 11 brani su 15 con la sola, ottima “Gas in the Tank” a rappresentare
l’ultima fatica discografica, “Rock
Believer” (2022) e il classico terzetto, immancabile, da “Crazy World” (1990): “Send Me an Angel”,
“Tease Me Please Me” e “Wind of Change” (riproposta in una struggente versione
alternativa molto apprezzata da tutti noi) a ricordare che 35 anni fa quel
disco mise, per gli Scorpions, il bollo definitivo sullo status di Mostro
Sacro dell’hard rock a livello mondiale.
Allo scopo di far riprendere
fiato a Klaus, la band alterna strumentali e assoli. Ed è proprio il drum solo dell’inossidabile Mikkey Dee a rappresentare uno degli
highlight della serata: 4 minuti di potenza heavy che si chiude con un
simpatico ed emozionante video in cui, da una gigantesca slot machine, appare prima il faccione di Lemmy
e un ace of spades, e, successivamente, il jackpot con cinque scorpioni che si tramutano nei cinque volti dei
musicisti: tutto molto bello ed emozionante!
Dolenti note? Si. O meglio, dolente nota, al singolare. Se, infatti,
la band gira che è un piacere, trainata dal drumming possente di Dee e dal
basso pulsante del relativamente giovane polacco Paweł Mąciwoda (che con
i suoi 58 anni sembra un giuovinotto
rispetto ai colleghi), e se le due asce di Schenker
e Jabs reggono alla grande per
qualità e impatto, il nostro amato Meine mostra la corda. Anzi, mostra
innanzitutto, una volta tolti gli occhiali scuri dopo circa 15’ di concerto,
uno sguardo da ottantenne che fa una certa impressione. Se l’artritica rigidità
nei movimenti ce la si poteva aspettare, a noi è parsa ancor più trista l’immagine del suo sguardo, che
oscilla tra il vacuamente fisso e il su-dai-concentrati-sennò-rischi-di-fartela-addosso. Il tutto detto con rispetto, eh, ci tengo a
precisare: arrivarci a quell’età girando il mondo sui palchi davanti a decine di migliaia di persone!
E la voce? Beh, non so se dovuto ai
problemi di salute di cui sopra o per altri motivi, l’ugola del classe ’48 fa
fatica a carburare, non arriva sui toni alti e la sua inconfondibile timbrica,
che è parte integrante e imprescindibile
del marchio Scorpions, fatica ad emergere (in particolare
nell’accoppiata iniziale “Make It Real – “The Zoo”). Le cose, va detto,
andranno meglio con le ballad (“I’m Leaving You” momento magico per me!) e
nella parte finale dello show marchiato a fuoco da un rosario di hits che fanno
impallidire il 99% delle rock band in circolazione: “Tease Me Please Me”, “Big
City Nights” e “Still Loving You” chiudono il set per lasciare poco dopo spazio
ai bis rappresentati dalle immarcescibili “Blackout” e “Rock You Like an
Hurricane”. Ecchevelodicoaffa': tripudio!
Infatti, al termine, la gente applaude convinta,
la band indugia sul palco, visibilmente grata e soddisfatta della serata.
Rimane sul palco più di tutti proprio Mikkey che gigioneggia con le prime file,
consapevole di aver riconosciuto dagli astanti un ruolo cruciale nell’economia
del sound della band.
Noi ci allontaniamo con un sorriso
appagto in volto, consapevoli di aver assistito ad uno show importante,
solamente venato da una malinconia
dovuta alla consapevolezza del tempo che fugge.
Un tempo che fugge espresso davanti a
noi dal volto di Klaus. E coscienti che quel volto era solo un rimando del
nostro, ormai invecchiato tanto
quanto rispetto alle prime volte in cui, nella nostra cameretta, da giovani
adolescenti, ascoltavamo le musicassette degli Scorpions.
Compagni di viaggio di una vita.
Compagni di viaggio per sempre.
Si: we’re…still loving them!
A cura di Morningrise