15 gen 2021

I MIGLIORI DIECI BRANI DEL BLACK METAL


Black Metal: il tuo nome è Norvegia”: cosi intitolavamo la nostra rassegna dedicata al black metal norvegese. Perché per noi la Norvegia degli anni novanta ha rappresentato il terreno più fecondo per il fiorire di una nuova concezione di black metal: riff in tremolo, fast-tempo, gracchiante screaming ed uno slancio metafisico che avrebbe affascinato molti, moltissimi, tanto che la Norwegian way avrebbe finito per coincidere con l’essenza del genere stesso, soppiantando sia la versione sgangherata offerta in origine dai Venom che, in parte, quella sviluppata da Celtic Frost e Bathory, che rimangono comunque ben presenti nel DNA di queste sonorità. 

Non ci stupiamo quindi se, all'interno della nostra selezione dei dieci migliori brani del black metal, ben sette sono stati firmati da band norvegesi. Tale è la superiorità che ha dimostrato questo frastagliato lembo di terra del nord Europa, che ci siamo dovuti persino contenere per lasciare un po’ di spazio alla brumosa terra d’Albione (scenari forieri di gotiche suggestioni), alla cugina Svezia (altro terreno fertile per il fiorire di sublimi estrinsecazioni di metallo nero) e agli Stati Uniti d’America (inaspettato teatro per la rinascita del black metal nel terzo millennio)…


Darkthrone: “Transilvanian Hunger” (“Transilvanian Hunger”, 1994) 
La nostra top-ten, come le precedenti, procede in modo cronologico, ma è bello poter partire con “Transilvanian Hunger”, punto di partenza ed al tempo stesso punto di arrivo per chiunque voglia sondare l’essenza più “pura” del black metal. Attraverso un processo di progressiva riduzione di elementi la band norvegese raggiungeva con il suo quarto lavoro in studio un sound essenziale ove i suoni in bassissima definizione tratteggiavano in modo espressionista un metal impalpabile, velocissimo, privo di variazioni ritmiche e pervaso da riff gelidi e minimali. E "Transilvanian Hunger" (il brano) rappresenta al meglio questa nuova concezione di black metal, forte anche di una delle “arie” più avvincenti del genere intero: il drumming incessante e lontano di Fenriz (qualche rullata al massimo per sottolineare i pochi cambi di riff) e lo screaming grattante di Nocturno Culto marchiano a fuoco uno dei brani più emblematici per il "movimento", forse il “brano black metal per eccellenza”. 

Emperor: “I am the Black Wizards” (“In the Nightside Eclipse”, 1994) 
Già presente nell’EP “Emperor” dell’anno precedente, "I am the Black Wizards" è indubbiamente un pezzo forte del capolavoro “In the Nightside Eclipse”, considerato uno dei capisaldi del symphonic black metal. Nella versione da noi scelta, maestose tastiere enfatizzano ulteriormente lo spirito faustiano di un brano che già di per sé brillava per ispirate trame melodiche: le chitarre ruvide della formidabile coppia Ihsahn/Samoth creano uno stupefacente connubio fra melodia e potenza, dove ovviamente il drumming dinamico ed elegante di Faust fa da perfetto collante per passaggi che si susseguono fluidamente con autentico slancio progressivo. E se nel complesso il brano esalta per la sua impetuosità, con una prima parte tirata ed epiche cavalcate a seguire, da lacrime risulterà il solenne rallentamento nel finale, dove il tema melodico iniziale riemerge dal fragore di un sublime maelstrom di distorsioni e tastiere. Ad aggiungere gloria alla gloria: una suggestiva voce narrante che accompagna lo screaming soffocato di Ihsahn (“I am theeeem... I am theeeeeem”). 

Cradle of Filth: “The Forest Whispers my Name” (“The Principle of Evil Made Flesh”, 1994) 
Apriamo una prima breccia nella supremazia norvegese con gli inglesi Cradle of Filth, da indicare, insieme agli appena citati Emperor, fra i pionieri del symphonic black metal. Classico della prima ora,  "The Forest Whispers My Name" mette ben in mostra le potenzialità della band, qui al suo esordio con il bellissimo "The Principle of Evil Made Flesh". Già l’incipit di tastiere stregonesche, presto raggiunte dal drumming adrenalinico di Nicholas Barker, anticipa le inedite atmosfere introdotte dal sestetto, fautore di un brano dinamico ed articolato quanto diretto e facilmente assimilabile. Non si hanno ritornelli, ma “accadono cose” in modo che la palpebra dell’ascoltatore non cali mai. Qui a destare l’attenzione è una oscura voce narrante che cambia repentinamente il volto al brano, facendo da preludio alla trascinante parte centrale, ben ammaestrata dal canto sgraziato e sopra le righe di Dani Filth. Non si disdegnano incursioni nell’heavy metal classico, le quali non fanno che ampliare ulteriormente una tavolozza ricca di colori ma sapientemente gestita da una band fedele a quelle ambientazioni orrorifiche e seducenti che la renderanno celebre. 

 Burzum: “Det som Engang Var” (“Yves Lyset Tar Oss”, 1994) 
Ciò che era una volta” è la traduzione letterale del titolo di questo brano-monstre (oltre i quattordici minuti di durata) che avevamo già premiato nella rassegna sui “Migliori brani lunghi del metal”. “Det som Engang Var” trova inevitabilmente spazio anche nell’odierna top-ten, in quanto non solo descrive al meglio l’arte burzumiana, ma  rappresenta anche uno dei momenti più alti della poetica del black metal (e, aggiungerei, del metal estremo in generale). Edita nel 1994, ma registrata un paio di anni prima (l’album, come quello precedente, sarebbe uscito postumo, successivamente alla incarcerazione di Varg Vikernes per l’omicidio di Euronymous), la composizione offre una visione inconsueta del black metal, rifuggendo dalla velocità esecutiva e preferendo un approccio che potremmo definire ambient: apertura a base di tastiere e chitarre sfrigolanti, impeto tribale delle percussioni (ma non ditelo al Conte!), un riff memorabile che procede per lievi variazioni ritmiche e il latrato da cane scuoiato di Vikernes che squarcia maestosi paesaggi interiori, fra imponenti tastiere, distese di arpeggi elettrificati e solenni ripartenze. Si conferma, anche in questo frangente, la capacità dell’artista nel saper edificare brani imponenti con poche idee, azzeccate e ben collocate: un modus operandi che si conforma perfettamente al sguardo nostalgico, pervaso da un senso di perdita irrecuperabile, del suo autore. 

Mayhem: “Freezing Moon” (“De Mysteriis dom Sathanas”, 1994) 
Uscito postumo nel 1994 a causa di una serie di …ehm…“contrattempi” (l’uccisione nel 1993 del leader Euronymous dall’allora bassista Varg Vikernes), “De Mysteriis dom Sathanas” contiene in verità brani scritti anni prima e che certo hanno influenzato l’intera scena, portando alla ribalta, per la prima volta, il famigerato True Norwegian Black Metal. Fra questi brani c’è sicuramente la splendida “Freezing Moon”, classico per eccellenza della band: essa delinea a tutti gli effetti un metal inedito, fatto di gelide linee di chitarra (a cura del fantasioso Euronymous), velocità esecutiva (un plauso alla strabiliante prova dietro alle pelli di Hellhammer, fra i migliori del settore) ed atmosfere morbose (si pensi al rancido riff iniziale o al giro di basso che apre il funebre rallentamento nel corpus centrale del brano). Il rantolo moribondo di Attila Csihar non fa che donare una rinnovata e perversa teatralità alle linee vocali concepite dall’ex cantante Dead, morto suicida anni prima. Una produzione straordinariamente potente, ma non troppo pulita, è infine la veste ideale affinché queste note vengano scolpite per sempre nella storia del Metal Estremo (con la M e la E maiuscole). 

Ulver: “I Troldskog Faren Vild” (“Bergtatt – Et Eeventyr i 5 Capitler”, 1995) 
Una elegante rullata di batteria e poi un riff di chitarra avvolgente, presto raggiunto da carezzevoli voci pulite evocatrici del folclore del Nord Europa. I ritmi rimarranno pacati, sostenendo le evoluzioni di voci che si accavallano edificando sublimi intrecci, fra assoli dal grande gusto melodico e struggenti incursioni di chitarra acustica. Niente velocità supersonica, nessun grido straziante, nessun alone di malvagità ostentata, eppure il prodotto è 100% black metal, e della miglior qualità. Gli Ulver, grazie soprattutto alle eccelse qualità canore del grande Garm, si distinsero subito nel calderone per una proposta ispirata e fortemente influenzata dal folk norvegese, cosa che conferiva atmosfera ed un forte potere evocativo a questa musica che era, senza dubbio, il frutto di cinque musicisti in stato di grazia. 

Dissection: “Thorns of Crimson Death” (“Storm of the Light’s Bane”, 1995) 
La Svezia si è dimostrata un luogo privilegiato per l’Estremo, in tutti gli ambiti, e certo anche nel black metal vi sono stati campioni del genere, dai precursori Bathory a band leggendarie come Marduk ed Ophthalamia. Noi optiamo per i grandissimi Dissection, il cui operato ha avuto importanti implicazioni tanto nel black metal quanto negli sviluppi di certo melodic death metal di marca svedese. Ed era proprio la componente melodica a caratterizzare il black metal gelido dei Nostri, con arie mutuate dall’universo dell’heavy metal classico. Gli otto minuti di “Thorns of Crimson Death”, momento cardine del capolavoro “Storm of the Light’s Bane”, spiegano al meglio la cifra stilistica del quartetto: aperto da un suggestivo arpeggio (che verrà ripreso successivamente), il brano procede per epici tempi medi che mettono bene in risalto le trame melodiche delle chitarre. È un susseguirsi di emozioni, con azzeccati cambi di tempo che supportano un riffing sempre ispirato. Abbiamo anche un ritornello degno di nota, dove la batteria decelera lasciando in una sorta di sospensione lo screaming glaciale del leader Jon Nodtveidt, chitarrista e maggiore compositore della band.

Satyricon: “Mother North” (“Nemesis Divina”, 1996) 
Fra i gruppi black metal oggi più popolari (grazie principalmente alla loro successiva svolta black’n’roll), i Satyricon vantano nel loro curriculum tre veri capisaldi del genere, di cui “Nemesis Divina” costituiva il compimento formale di quanto detto con i due già ottimi lavori precedenti. “Mother North” non ha certo bisogno di presentazioni, essendo forse il brano più conosciuto del genere: baciata da una produzione cristallina che mette in evidenza ogni singolo dettaglio (persino il basso, strumento notoriamente trascurato nel black metal), essa si avvale del drumming potentissimo di Frost, il quale lancia a mille all’ora l’epicità del viking bathoriano, aggiornandolo agli standard di efferatezza del Norwegian Black Metal. Satyr, dal canto suo, ci mette il resto: riff di chitarra ispirati ed una voce gracchiante fieramente avvolta in possenti cori odinici, fra paesaggi mozzafiato, epici rallentamenti e ripartenze al fulmicotone. Cosa si può desiderare di più dalla vita? 

Dimmu Borgir: “Mourning Palace” (“Enthroned Darkness Triumphant”, 1997) 
Dubbia fino in fondo è stata la presenza di questa atipica band norvegese che, al sound ruvido scaturito dai fiordi, presto preferì le forme laccate di un pomposo e stratificato symphonic black metal. Ma “Mourning Palace”, classico assoluto che "guada" le due parti della carriera dei Nostri, regala grandi emozioni ancora oggi. La prima parte è un maestoso mid-tempo incalzato da secche orchestrazioni che creano un climax da tragedia imminente. La seconda parte, aperta da un bel riff thrashettone, si concretizza in un epica cavalcata sempre supportata da possenti tastiere. Nel complesso il brano sa essere rozzo e sofisticato al tempo stesso, belligerante da un lato, dotato di un indubbio grandeur orchestrale dall'altro. Con in mezzo l’efficace interpretazione di Shagrath, la cui truce raucedine ben si presta al crescendo drammatico del brano. 

Weakling: “This Entire Fucking Battlefields” (“Dead as Dreams”, 2000) 
Chiudiamo simbolicamente con i Weakling, pionieri dell’US Black metal. Gli Stati Uniti, che avevano dato i natali al death metal, erano sempre stati poveri sul fronte del black, per questo i Nostri ebbero scarsa fortuna, sebbene avrebbero paradossalmente inaugurato una nuova stagione per il genere. Nel superbo “Dead as Dreams” (registrato nel 1998 ma che per diverse vicissitudini ha visto la luce due anni dopo, quando la band era oramai dissolta), i Nostri dimostrano sì di sedersi sulle spalle dei giganti scandinavi, ma anche di saper gettare lo sguardo oltre. In un certo senso la missione artistica di John Gossard, leader visionario della band, intendeva coniugare il linguaggio del black metal a sonorità post-rock, hardcore e noise, con brani lunghissimi ed imprevedibili che supportavano una assoluta libertà espressiva. Un approccio che trova il suo acme nei quindici minuti di “This Entire Fucking Battlefields” dove i pieni e vuoti si susseguono senza logica apparente se non quello di seguire le intemperanze di una scrittura ispirata. Fra passaggi tirati, chitarre dissonanti e melodie da lacrime, la voce imperfetta ed affaticata di Gossard delinea scenari di grande desolazione: un saliscendi emotivo che introduce quegli scenari post-black metal che andranno per la maggiore nel terzo millennio. 

Si, perché nel corso della sua quarantennale storia (se si vuol guardare all'esordio venomiano come l'inizio dell'epopea), il black metal si è saputo evolvere e giungere ai giorni nostri più fresco ed in forma che mai. Cosa che non era da dare così per scontata, vista la crisi che il movimento ha vissuto verso la fine degli anni novanta. Ma inaspettatamente i semi piantati dai maestri norvegesi hanno saputo attecchire in terra americana, dove nuove generazioni di band (viene da citare almeno gli Agalloch e i Wolves in the Throne Room) hanno saputo rivitalizzare il genere partendo da presupposti analoghi, ma ponendo le premesse per nuovi ed imprevedibili sviluppi. 

Lunga vita al Black Metal!