"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

19 gen 2021

I MIGLIORI DIECI BRANI DEL METAL ESTREMO EVOLUTO


Che brutta espressione “Metal Estremo Evoluto”, come se le forme classiche, o più consolidate, di metal estremo fossero rimaste ad uno stato primitivo del loro percorso più o meno quarantennale (se vogliamo vedere l’avvento dei Venom come l’inizio del filone stremo nel metal). Abbiamo visto, invece, che con death metal e black metal si sono raggiunti dei risultati egregi quanto a tecnica esecutiva, espressione di una cifra stilistica e capacità di concretizzare le idee, anche sulla base di visioni artistiche complesse ed ambiziose.

Ma “Metal Estremo Evoluto” era l’unica espressione che ci permetteva di includere tutte quelle estrinsecazioni del metal estremo che, in apparente opposizione alle premesse iniziali, si sono avviate versi lidi in cui suonare “estremi” non era più la priorità artistica. In questi esperimenti certi stilemi tipici del metal estremo permanevano (il canto con le tecniche del growl o dello screaming, la doppia-cassa, in certi casi la velocità), ma venivano immersi in una dimensione dove altri fattori, come per esempio la melodia, l’atmosfera, la contaminazione o lo spirito progressivo, recitavano un ruolo predominante. 

In principio furono i Celtic Frost, che con album come "To Mega Therion" (1985) e "Into the Pandemonium" (1987), avrebbero innestato nel metal estremo semi importanti che avrebbero suggerito nuovi approcci e condotto al gothic metal, al metal sinfonico, all'avangarde metal. Il melodic death metal e il progressive death metal sono altri esempi di una tendenza che, a partire dagli anni novanta, avrebbe figliato in molte direzioni, portando diversi esponenti di questo vasto movimento ad uscire dal metal stesso (al tema abbiamo dedicato una rassegna intera). 

Noi oggi ci fermiamo un attimo prima, quando queste proposte erano ancora circoscrivibili entro il recinto del metal estremo. E ci siamo limitati ai nomi di maggiore spicco, ai brani più rappresentativi delle loro opere della maturità, rilasciate principalmente nel corso degli anni novanta (laboratorio privilegiato per questo tipo di sperimentazioni) o nei primi scampoli del nuovo millennio, consapevoli che l’onda non si sarebbe affatto arrestata, ma che essa avrebbe generato forme sempre più audaci e perfette di quello che, in mancanza di definizioni migliori, abbiamo chiamato, appunto, “Metal Estremo Evoluto”. 

Paradise Lost: “As I Die” (“Shades of God”, 1992) 
Non potevamo non partire con i Paradise Lost, indubbiamente fra i primi a tentare nuove strade. Il loro acerbo doom-death individuò un equilibrio soddisfacente in “Gothic” (poi divenuto manifesto del genere), ove trovavano spazio inserti di orchestra e voci femminili, ma noi compiamo un passetto ulteriore pescando questo gioiello che si colloca nell’esatto punto di snodo (l’album era l'altalenante “Shades of God”) fra il passato doom ed un radioso futuro invaso da suggestioni mutuate dalla dark-wave ottantiana. “As I Die”, inossidabile hit della band che tutt'oggi viene riproposta dal vivo, è un mid-tempo snello ed orecchiabile che in nemmeno quattro minuti sa collocare vuoti e pieni in un felice alternanza, fra arpeggi incalzanti e coinvolgenti esplosioni di chitarra, oscuri giri di basso e di nuovo granitici riff. Ovviamente un tale equilibrio non sarebbe stato possibile senza un ensemble affiatato, dove a primeggiare è il raffinato talento melodico del chitarrista (e principale compositore) Gregor Mackintosh e il growl carismatico di Nick Holmes, per l’occasione supportato dai sussurri della guest Sarah Marrion. Una grandiosa stagione per il gothic metal avrebbe avuto inizio!

My Dying Bride: “Turn Loose the Swans” (“Turn Loose the Swans”, 1993) 
Accantonate le recrudescenze death metal degli esordi, i My Dying Bride avrebbero virato in fretta verso un raffinato gothic/doom i cui tratti distintivi principali erano l’utilizzo del violino e l’ugola versatile di Aaron Stainthorpe, che passava con disinvoltura da un aspro growl ad un sofferente pulito, nonché scrivere versi romantici che ben si sposavano con gli umori decadenti della musica dei Nostri. La monumentale title-track del secondo full-lenghtTurn Loose the Swans” nei suoi dieci minuti di durata offre riff ispirati (da lacrime l’integrazione fra chitarre e violino) ed esasperanti passaggi doom dove la lentezza e la pesantezza regnano sovrane. A rischiarare gli animi, un sorprendente apertura melodica a due terzi del brano, dove violino e voce pulita ripagano della fatica sopportata fino a quel momento. Ma questo è solo un esempio (uno dei tanti) della capacità della band inglese di saper regalare emozioni con pochi temi melodici ma ben centellinati: uno stile, quello, che avrebbe ispirato molti, senza che tuttavia nessuno potesse raggiungere l’eleganza e la grazia della Sposa Morente

Tiamat: “Gaia” (“Wildhoney”, 1994) 
Con i Tiamat l’universo del gothic-metal fece un significativo passo in avanti, merito soprattutto del genio visionario del leader Johan Edlund. Il capolavoro “Wildhoney”, che seguiva il già buono “Clouds”, manteneva ben pochi contatti con l’universo del metal estremo (sporadici growl, possenti riff di chitarra all’occorrenza) per spostarsi nella direzione del rock psichedelico e di un suono che guardava senza troppi giri di parole alla magniloquenza pinkfloydiana. L’album si presentava come un unico flusso dove i brani sfumavano l’uno nell’altro, rinunciando il più delle volte ad un proprio carattere individuale, per questo è difficile scegliere un episodio in particolare. Alla fine decidiamo per il singolo “Gaia”, malinconica ballata che ben poco ha a che spartire con il metal. Ma la mano rimane pesante (si pensi ai suoni pastosi, alla pachidermia di basso e batteria che evocano ancora la pesantezza del doom), mentre la voce di Edlund continua a lambire i confini con il growl, creando un effetto straniante immersa nei sontuosi arrangiamenti di tastiere (a cura del produttore Waldemar Sorychta) e contornata da struggenti assoli di marca gilmouriana. Quando l’Estremo era ad un passo dal non esserlo più… 

Moonspell: “Vampiria” (“Wolfheart”, 1995) 
Anche nello splendido “Wolfheart” percepiamo il tocco del produttore Waldemar Sorychta, vero re Mida per quanto riguarda le varie diramazioni del metal gotico nel corso della decade dei novanta. Con “Vampiria” (ma ogni singolo episodio del full-lengh è degno di nota) l’audacia e la voglia di sperimentare si concretizzano in un sound maestoso e seducente, dove le tastiere ricoprono un ruolo primario e il canto teatrale di Fernando Ribeiro, dotato di un bel timbro baritonale, ne diviene complemento irrinunciabile. Massicce tastiere tessono notturne melodie che sembrano uscire direttamente da “Le mille e una notte”, accompagnate prima da ritmiche dal sapore etnico e poi da repentine accelerazioni, con tanto di suggestivi canti femminili ad imprimere ulteriore tensione al soliloquio di Ribeiro che tocca vertici interpretativi sconosciuti a qualsiasi altro “screamer” dell’epoca. A fare pace con il cultore del metal estremo arriva il violento ritornello, dove tornano doppia-cassa, riff possenti ed uno screaming feroce: un equilibrio fra melodia, atmosfera ed impeto metallico che non verrà più bissato in futuro dai lusitani. 

Anathema: “A Dying Wish” (“The Silent Enigma”, 1995) 
Gli Anathema rappresentano un caso a parte nell’universo del gothic metal anglosassone, preferendo essi, fin da subito, smarcarsi dalle sonorità death-doom per abbracciare un sound introspettivo ed incredibilmente emozionale che vedeva i Pink Floyd come punto di riferimento imprescindibile. In “The Silent Enigma” ogni tassello è funzionale a tratteggiare paesaggi interiori di grande suggestione: intenso il lavoro delle due chitarre, con in prima linea l'estro melodico di Daniel Cavanagh, mentre il canto lacrimevole del fratello Vincent ne è il perfetto complemento. “A Dying Wish” è il brano più “duro” del lotto: una possente cavalcata di otto minuti che non rinuncia al lato più romantico della visione artistica della band. L’incipit ci immerge in un mondo fantastico di tastiere carezzevoli e chitarre arpeggiate, prima che l’armamentario propriamente metal si riversi sulle nostre orecchie con uno dei riff più emblematici della carriera dei Nostri. La voce di Vincent apre le danze con fare ruvido, per presto stemperarsi in un fragile lamento nello struggente ritornello. Il basso di Duncan Patterson pulsa incessante in sottofondo, innescando un clima di tensione emotiva, prima del crescendo e dell’esplosione finale dove le chitarre tornano a ruggire. Un ultimo impeto di rabbia, prima che la band lasciasse per sempre i lidi del metal estremo...

Dark Tranquillity: “Punish my Heaven” (“The Gallery”, 1995) 
Già con il precedente (bellissimo) “Skydancer” gli svedesi seppero intavolare un death metal ricco di spunti melodici e gradite incursioni folk che avrebbe contribuito ad avviare la fortunata stagione del melodic death metal. Con il successivo “The Gallery” il sound dei Nostri si fece più solido e compatto, forte di arrangiamenti curati ed una tecnica strumentale sopra la media. “Punish My Heaven” ne era la degna introduzione: tanto veloce quanto ricercata sul fronte melodico, la fulminante opener mette in mostra un ensemble capace di domare strutture articolate e svariati cambi di tempo (graditissime le incursioni acustiche) senza mai perdere la bussola (e lo dimostra il fatto che i Nostri, pur nei mille cambi di rotta, riescono a conservare lo schema con ritornello). Calza a pennello lo screaming affilato di Mikael Stanne, che ad un certo punto si concede persino un epico accenno di canto pulito che è proprio la ciliegina sulla torta in un brano che si dimostra avvincente dal primo all'ultimo istante. 

Amorphis: “Against Widows” (“Elegy”, 1996) 
A scapito del nome poco rassicurante, gli Amorphis hanno saputo confezionare in tempi brevi una proposta estremamente raffinata. Approdavano già al loro capolavoro formale con il terzo album, “Elegy”, dopo il già buono “Tales from the Thousand Lakes”, che tuttavia pagava ancora un discreto tributo ai primi Paradise Lost. Con “Elegy”, arricchito dall’ugola cristallina del nuovo ingresso Pasi Koskinen, i finlandesi mettono a punto un suono fresco e sfavillante che, con spirito autenticamente progressivo, sa attingere tanto dal rock progressivo quanto dal folclore popolare. “Against Widows” è un brano vivace che ancora oggi figura fra i classici immancabili da riproporre dal vivo. Si parte con frizzanti riff di heavy metal classico e ritmiche incalzanti: il growl greve di Tomi Koivusaari (i suoi interventi dietro al microfono rimarranno sporadici, preferendo egli concentrarsi sulla chitarra) sopravvive in qualche strofa per lasciare la scena al più dotato Koskinen, che entra a gamba tesa con un ritornello di immediato impatto. Egli si rivelerà estremamente abile nell’alternare canto pulito e vocalità più efferate (ma mai sopra le righe), incastrandosi perfettamente nelle geometrie di un brano che in appena quattro minuti condensa idee a profusione, fra continui cambi di tempo, tastiere che accompagnano un riffing ispirato e persino un travolgente assolo in wah-wah ad evocare lo spettro acido dell'hard-rock settantiano

Therion: “To Mega Therion” (“Theli”, 1996) 
Citati fin dal titolo del brano, i Celtic Frost sono indubbiamente il punto di partenza delle sperimentazioni dei Therion, che in “Theli” portavano all’esasperazione le tentazioni sinfoniche già rinvenute negli album precedenti. Dopo una breve introduzione, “To Mega Therion” irrompe in tutta la sua potenza forte di soprani, baritoni e tenori chiamati ad accompagnare in modo stabile le gesta di Christofer Johnsson e compagni. Il brano è una travolgente cavalcata di sei minuti e mezzo quasi completamente sorretta dai cori operistici, fatta eccezione per il ritornello ove rispuntano per un istante i berci di Johnsson, a cui la voce acida del batterista Piotr Wawrzeniuk fa da valido contraltare. Il tutto suona come un delirante “Inno alla gioia” dove le chitarre galoppano rocciose, con qua e là le tastiere ad iniettare suggestioni misticheggianti o a riportarci entro i crismi della musica classica (si tenga presente il bell’assolo di pianoforte sparato nel finale): nessuno nel metal aveva mai osato tanto! 

Opeth “The Drapery Falls” (“Blackwater Park”, 2001) 
Con gli Opeth il death metal progressivo tocca il suo apice. Fin dagli esordi gli svedesi avevano dato sfoggio di inventiva e tecnica con brani di smisurata durata, ma “Blackwater Park”, quinto full-lenght, presentava la classica marcia in più, grazie anche al supporto dietro al mixer di Steven Wilson dei Porcupine Tree, uno che di progressive se ne intende. Tutti i brani sono più che ottimi, ma in questa sede preferiamo andare sul sicuro e ripeterci con “The Drapery Falls”, che avevamo già contemplato nella nostra classifica dei migliori brani lunghi del metal (quasi undici minuti la sua durata!). Aperta da una chitarra acustica e da splendide trame melodiche, essa presenta una prima parte in cui viene esaltato il canto pulito di Mikael Akerfeldt, fra fraseggi acustici ed improvvise impennate elettriche di settantiana memoria. Nella seconda parte i Nostri si cimentano in passaggi più intricati dove riemerge imperioso l’ottenebrante growl di Akerfeldt, prima che la dolcezza dell’incipit si ripresenti per chiudere il cerchio. 

Orphaned Land: “Birth of the Three” (“Mabool”, 2004) 
Gli Opeth sono stati gli interpreti insuperati di un certo approccio al metal estremo, e con loro avremmo potuto chiudere serenamente la nostra rassegna, ma riapriamo la partita con gli Orphaned Land per rappresentare un metal estremo che con il tempo è divenuto un luogo in cui tutto può accadere, grazie a tecnica, gusto ed ovviamente coraggio. Gli israeliani, dal canto loro, partono avvantaggiati da un background culturale insolito per il mondo estremo occidentale, cosa che rende la loro proposta indubbiamente originale. Dal loro capolavoro assoluto “Mabool” peschiamo l’opener Birth of the Three”, di sicuro una più che degna vetrina di quello che i Nostri sono in grado di fare. Cosa non accade in questi sette minuti: roccioso death metal si sviluppa attraverso raffinate linee melodiche che richiamano il folclore mediorientale, lambendo anche i territori dell’heavy metal classico. Su tutto svetta l’incredibile prova dietro al microfono di Kobi Farhi, vocalist versatile che illumina gli sviluppi del brano con un potente growl ed avvincenti incursioni di voce pulita. Come se non bastasse, si farà ricorso ad ugole femminili e ad un intero coro ad iniettare ulteriori colori ad un sound a dir poco sfarzoso. 

Nel corso degli ultimi quindici anni ne sono accadute di cotte e di crude nel metal, comprensibile quindi che dalla nostra top-ten siano state tagliate fuori importanti tendenze, come per esempio quelle del post-metal, del djent o del post-black metal: territori in cui il metal estremo ha saputo offrire saggi di incredibile bravura, inventiva e capacità di realizzazione. Ma come detto all’inizio, la nostra attenzione si è andata a focalizzare principalmente su quel manipolo di coraggiosi che, prima di altri, hanno saputo battere vie inedite, aprendo di fatto le porte ad una concezione in cui metal estremo e sonorità extra-metal avrebbero paradossalmente iniziato a convivere più che pacificamente...