6 ago 2022

METAL E VECCHIAIA: LA FATICA DI ESISTERE SUL PALCO


E’ tornata la stagione dei festival e dei concertoni estivi: una buona notizia, dopo due anni di stop forzato per via della pandemia

Andare ad un concerto è sempre una bella esperienza: chi ci legge sa che siamo spesso in prima fila per goderci le vibrazioni esalate dal palco, e per esperienza personale posso aggiungere di non essere mai tornato insoddisfatto da un concerto, nemmeno quando le band sono state oggettivamente pietose. Questo perché la dimensione live è complessa e mette in campo fattori diversi, non esclusivamente legati alla forma fisica o all’ispirazione di chi sta sopra il palco. 

Fatta questa premessa, ci permettiamo di appuntarci un po’ di impressioni su quelli che sono stati gli eventi a cui abbiamo avuto modo di presenziare fra giugno e luglio e che ci permettono di tracciare un trend sullo stato di salute del nostro genere preferito. 

La prima cosa che ci viene da dire è: ma quanto sei vecchio, metal! 

Non abbiamo nulla contro gli anziani, e non vogliamo nemmeno stare a polemizzare su un mancato ricambio generazionale dei nomi in testa ai bill dei maggiori festival italiani (e non): questo ricambio non avviene da molti anni ed oramai non è lecito aspettarsi che avvenga, se non quando tutti i nomi storici saranno andati definitivamente in pensione. Si è già detto mille volte che alle band giovani non manca la qualità ma semplicemente la capacità di radunare folle oceaniche, e questo non per demeriti artistici ma per via dei modelli culturali che prevalgono nel nostro tempo e che influiscono sul modo di fruire e vedere la musica. E per questo motivo gli organizzatori dei festival sono soliti puntare sui vecchi nomi: una garanzia a livello di presenze e vendite. 

Non vogliamo polemizzare però, facendo un confronto con il mondo del pop, è come se oggi solo Madonna riempisse gli stadi e non si fossero nel frattempo affermati nomi stra-celebri come Beyoncé e Lady Gaga, che ovviamente possono rinnovare i fasti del genere grazie all'energia di una età consona ad intrattanere decine di migliaia di persone. Noi no, allo stadio possiamo andare a vedere solo gente con le stampelle (un'unica eccezione, al momento, mi pare essere costituita dai Rammstein, che comunque sono attivi da quasi trent'anni, non da ieri).  

Non abbiamo nulla contro gli anziani, ma non è cosa semplice suonare metal su un palco se si ha una certa età: il metal richiede energia, forza fisica, in particolare a batteristi e cantanti, che sono una parte assolutamente non secondaria nell’economia del suono di una band metal. Per questa ragione c’è chi, come gli Slayer, ha saggiamente deciso di ritirarsi dalle luci dei riflettori e lasciare di sé un ricordo decorosissimo. 

Purtroppo queste sono eccezioni, perché, anzi, mi pare vi sia la rincorsa alla reunion proprio per far fruttare fino in fondo il potenziale residuo di quei nomi un tempo così gloriosi: operazioni a volte genuine, a volte meno, e che spesso contemplano il recupero solo parziale del personale storico delle band, cosa che a mio parere svilisce in parte l'attrattiva di una reunion. Fra le peggiori operazioni recenti indicherei, a titolo esemplificativo, i Pantera che torneranno sul palco per un mini-tour in America con i soli Phil Anselmo e Rex, amorevolmente aiutati da Zakk Wylde e Charlie Benante. Non c’è che dire: una iniziativa di cuore, totalmente slegata da scopi commerciali e dove niente c’entra la morte di Vinnie Paul (il quale mai e poi mai avrebbe permesso di ricostituire la band senza il fratello…). Ma ben vengano i Pantera!, aggiungo io, se lo scopo di rivederli dal vivo è di mandare affanculo quella testa di cazzo di Anselmo!  

Ma al di là di tutto questo: è possibile suonare metal per sempre? Ma soprattutto: lunghe ed estenuanti tournee sono sostenibili da persone sulla soglia dei settanta? 

Fisicamente, umanamente, direi proprio di no. Un cantautore, per esempio, può essere credibile sul palco anche con molte lune alle spalle, come è stato per esempio per Leonard Cohen o il nostro Franco Battiato. Anche un Bob Dylan, che non è mai stato un leone da palcoscenico, ha ancora oggi il suo perché sulle assi. Ma non si può dire lo stesso per chi suona rock. Ancora meno per chi fa metal. E’ vero, suonare è un lavoro, ma come ogni lavoro per farlo bene devi essere in grado di farlo, fisicamente e cognitivamente, e non tutti questi vecchietti borchiati sul palco ci sono sembrati cosi convincenti, con tutte le scusanti che possiamo riconoscer loro. Ricordiamoci che non solo c’è l’età che avanza, ma c’è spesso anche una vita di eccessi alle spalle, e sebbene si parli di professionisti, non possiamo attribuire loro lo status mentale dell’impiegato dell’Ufficio Anagrafe del Comune. Per certi personaggi, che hanno scelto una vita “spericolata”, non è facile sostenere gli oneri della routine lavorativa. E in ogni caso conoscere i propri limiti e porsi con maturità e professionalità nei confronti del proprio pubblico non annulla gli effetti nefasti dell’avanzare dell’età. 

Prendiamo i mitici Judas Priest, autori di grandiosi show, nonostante qualche pezzo si sia perso per la strada (mi insinuo un attimo con un dubbio ficcante: ha senso vedere un concerto dei Judas senza le due asce storiche?). Chiariamoci: un concerto dei Judas è un evento imprescindibile per ogni metallaro che si rispetti, la storicità del monicker e la scaletta stracolma di classici spegnerebbe qualsiasi esitazione sul nascere. Tutto quello che volete, ma che senso di stanchezza ci ha comunicato la figura di Rob Halford! Ancora notevole sul fronte vocale, sul lato fisico ha invece dato l’impressione di uno che se mette il piede in modo sbagliato piglia la storta, si deve ingessare ed addio tour. Quindi: attenzione, controllo dei movimenti, energie dosate con il contagocce, tutto calcolato nel minimo dettaglio. E questo ovviamente non ci piace. Lo capiamo, ma non ci piace. 

E' poi chiaro che risulti oggi fondamentale il supporto della tecnologia con microfoni di ultima generazione, mixer e tecnici del suono iper-competenti, perché è veramente un fenomeno stupefacente il fatto che cantanti sfiatati venti anni fa oggi sembrino magicamente resuscitati. La tecnologia può aiutare, certo, ma fa sicuramente poco per quanto riguarda l’entusiasmo. Guardando questi veterani mi sono venuti in mente quei pornoattori che, durante l’atto sessuale, guardano nel vuoto privi di emozioni, aspettando la fine della scena o, peggio ancora, sforzandosi di pensare a qualcosa di eccitante se bisogna tirare fuori dal cilindro un'eiaculazione. 

Pensate, rimanendo in tema Judas, alla liturgia di Halford che fa il suo ingresso con la moto: che cosa mi tocca fa’ ancora oggi per campa’ è quello che gli leggeremmo negli occhi se non avesse il buon gusto di indossare degli occhiali da sole. Dave Mustaine, che gli occhiali da sole non li porta, non fa nulla invece per nascondere un profondo, insopprimibile fastidio nel riproporre i suoi brani sul palco, quando, contro ogni aspettativa, i suoi Megadeth sembrano convincere. Si, anche lui lo avevo visto molti anni fa e mi sembra comunque meglio adesso che prima: evidentemente oggi, aiutato dalla tecnologia e aggiustato fisicamente, si muove meglio, ma la voglia di riproporre ogni sera gli stessi pezzi, quella non è salita sul palco. E la palese aria da scocciato con cui si appresta ad iniziare gli show è una cosa che non sfugge anche all'occhio più distratto. 

Ma se luci e fuochi di artificio mascherano questo senso di spossatezza, o di noia, se non di repulsione, non vi sono schermi per nascondere la vecchiaia di band come gli UFO, che, a scapito della storicità del loro monicker, si ritrovano spesso a suonare di giorno ben illuminati dal sole. Sarà sempre una grande emozione ascoltare “Doctor Doctor”, ma chiaramente quegli uomini non ce la fanno più. 

Altri nomi in ordine sparso. Saxon: su loro niente da ridire, una garanzia sempre e comunque (ma c'è anche da dire che è facile la vita quando hai uno status di serie B e otto meri classici che ti trascini dietro da quasi quarant'anni). Metallica: son pur sempre dei professionisti, ma per piacere spiegategli che hanno una età, che non devono nemmeno sognare di fare pezzi come “Whiplash” e “Trapped Under Ice” con una attitudine garagesca che non li riguarda più. Facciano le star, entrino con i lustrini, facciano quello che è più consono alla loro età ed alla loro sensibilità, ma non si mettano a suonare brani adolescenziali. E si limitino ai classici più consolidati, alle ballate e a qualche hit radiofonica per confermare la loro bontà come band rock intrattenitrice/imbonitrice. 

Guns N’ Roses: per piacere proibitegli di tornare sul palco. Concerti inutilmente infiniti, scalette straripanti di brani trascurabili ed altrettanto evitabili cover: un infinite show che vorrebbe resuscitare il gran nome di una band che, per quanto iconica, ha brillato per una stagione e mezzo. Meno male che c’à il buon vecchio Slash a metterci il mestiere, tornato in carreggiata da anni con la sua carriera solista; quanto ad Axl, ammesso che si presenti sul palco, difficilmente il Nostro può rivelarsi credibile, ombra di stesso, imbolsito, ridicolo nel riproporre le mossette di quando aveva venti anni. Nel suo caso nemmeno i microfoni di ultima generazione possono fare qualcosa, e il suo classico ragliare si stempera in un fastidioso miagolio perché si capisce che la voce oramai non c’è più e che quindi è costretto a sussurrare e lasciare il resto del lavoro ai fonici. Sarà anche una emozione vedere dal vivo “November Rain” e “Paradise City”, ma forse qui il concerto è più nella testa dello spettatore che sul palco (e mi insinuo nuovamente: ma vale davvero la pena spendere cosi tanti soldi per dire “ho visto i Guns dal vivo” quando una cover band qualsiasi potrebbe riprodurre meglio il loro repertorio?). 

Iron Maid…ehm, cambiamo discorso (le nostre bestemmie echeggiano ancora nel cielo del Parco Nord di Bologna...), Dream Theater: se è vero che il sesso si fa più complicato nelle coppie di lunga durata, allora c’è chi cerca di mantenere il rapporto fresco con degli escamotage. Petrucci, nella sua follia autoreferenziale, ha il pregio di rivoluzionare la scaletta ad ogni tour, facendosi odiare da chi vorrebbe i classici (cazzo John, almeno “Pull Me Under” potresti farla!), ma probabilmente è l’unico modo che un artista come lui, con tutte le pressioni di questo mondo, ha per potersi sentire ancora motivato a suonare su un palco. E per dare in pasto pezzi poco proposti ai matti dei suoi fan. Da rivalutare l'approccio.

Kiss: ammesso che esistano, dite quello che vi pare, purché non si venga fuori con la malinconia di non vederli più dal vivo, visto che il "tour d’addio" va avanti da anni e probabilmente non si fermerà mai. E comunque anche loro si salvano per i volumi potenti e fuochi d’artificio (mammamia a Verona hanno persino rischiato di suonare senza fuochi...anzi no, avrebbero cancellato la data, figurati se i Kiss possono fare a meno del baraccone ed improntare il loro show solo sulla forza della musica...). 

Per tutti, o quasi, il timore latente è stato il medesimo: ce la faranno o non ce la faranno? Alla fine ci tocca essere soddisfatti, vuoi per la magia dei classici, vuoi per la magia dei microfoni, dei mixer, dei fonici, del mestiere, degli effetti scenici e degli innesti giovanili (si, musicisti giovani che trainano con il loro entusiasmo e la loro energia i vetusti colleghi – vedi ancora Judas e Megadeth), ma, spentosi i riflettori, in testa rimane il pensiero che per certe band il capolinea potrebbe giungere con decoro proprio a questo giro. 

Peccato che le zone alte dei bill dei festival italiani siano occupate da band con 30/40 anni di storia alle spalle, e questo da molti anni, tanto che ci siamo dimenticati oramai il vero senso di un concerto, ossia: energia, sudore, improvvisazione, stupore, brani che suonano più potenti e vibranti che su disco, e non viceversa. Bisognerebbe per esempio iniziare a dare il palco di headliner a gente come i Mastodon, che comunque i loro venti anni e passa sul groppone ce li hanno. Altrimenti ci tocca stupirci per dei modesti Baroness e per la loro chitarrista che – udite udite – addirittura mostra un atteggiamento dinamico sulle assi (ehm, vi informo che proprio questo sarebbe il reale significato di “suonare dal vivo”, quando ovviamente un gruppo è nel pieno delle proprie forze, condizione che ci stiamo quasi scordando). O addirittura esaltarci per dei posticci Suicidal Tendencies solo perché hanno verve ed offrono qualche fuori programma che ci elettrizza e ci fa sentire partecipi di un qualcosa di spontaneo, quello che un concerto in teoria dovrebbe essere, e non uno spettacolo definito nel minimo dettaglio. 

Più in generale: questi “concertoni” difficilmente ci deluderanno, perché oramai le accortezze (sceniche, tecniche ecc.) sono tante per rendere accettabile qualsiasi cosa. In più, l'età anagrafica di molti protagonisti del metal è tale da imporre uno stile di vita più morigerato (con il paradosso che molti di essi sono messi meglio oggi che qualche anno fa, quando ancora potevano spaccarsi di droghe ed alcool). Ma in questi spettacoli “perfetti”, imbevuti della gloria del passato e, chissà, della nostalgia di molti spettatori, viene a mancare la passione che da sempre anima, almeno fino ad un certo punto, i musicisti, prima che essi divengano mestieranti. 

Escludiamo da questa considerazione i Mercyful Fate, che questa estate hanno “illuminato” con la loro presenza molti festival europei: i danesi sono stati impeccabili e, aiutati da una lunga lontananza dal palco, hanno saputo convincere tutti, ma è anche vero che King Diamond è sempre stato un caso a parte nel mondo del metal e a sessantasei(sei) anni suonati è ancora in grado di colpire e stupire, convincendo sia a livello di performance vocale che sul fronte scenico. Sarà questione di allenamento, sarà il patto con Satana …