Non sono forse il più
titolato per parlarvi dei Rotting Christ, band che ho iniziato ad
apprezzare solamente in anni recenti. E dire che li ho visti pure dal vivo sullo
scadere degli anni novanta (1997, mi pare, al Cage di Livorno,
insieme a Old Man’s Child e Sacramentum) e ho anche posseduto un
loro album, “A Dead Poem” (chissà che fine ha fatto…). Certo, un lavoro
minore come “A Dead Poem” non è stato un bell’incentivo per approfondire la
discografia dei greci (anche se “Among Two Storms”, con tanto di controcanto
di Fernando Ribeiro dei Moonspell nel ritornello, era tanta
roba), e così per un bel po’ di tempo sono stato in grado di “sopravvivere”
anche senza i Rotting Christ.
Fin quando, due anni fa
circa, mi ritrovai ad un banchetto dell’usato e comprai a cinque euro “Aealo”,
una release recente di cui avevo letto assai bene. Premere il tasto play
e ritrovarmi innanzi ad un thrash plasticone e galoppante, con voce
black sfiatata e coretti di donnine greche tipo “Pippero”, non è stata
una bella sensazione ed all’istante mi sono come per magia ricordato il motivo
per cui, per così tanti anni, sono stato in grado di vivere senza i Rotting
Christ. Non mi rendevo ancora conto che sarebbe presto sbocciato un amore.
Nel giorni/mesi successivi,
infatti, il cd è stato mio malgrado ripetutamente inserito nel lettore. Perché non
mi stancava mai, perché era vario, ricco di spunti interessanti, perché era orecchiabile
e gradevole all’ascolto, ma senza risultare ruffiano o fasullo. Perché è un
album che intrattiene, il tipico album che, scevro oramai dalle mie
pretenziosità di gioventù, apprezzo enormemente in vecchiaia: mid-tempo
epici e refrain melodici che si alternano a fasi atmosferiche e solide
cavalcate metalliche, ecco quello che mi ci vuole per invecchiare sereno!
Presto mi sarei reso conto che avrei allargato la cerchia degli amici con un
nuovo protagonista: il Cristo in putrefazione.
Partiamo dunque dal monicker:
chi mastica metal estremo sa bene che si deve per forza confrontare con un
mondo in cui l’eleganza non è certo il valore cardine. Siamo abituati a tutto,
ma cazzo!, il Cristo che imputridisce è proprio una brutta immagine
anche per noialtri gente scafata! Avessimo parlato della band più estrema del
mondo, si fossero raggiunti almeno i livelli (lirici e fisici) dei Deicide….insomma,
direi che quel nome non è proprio un bel biglietto da visita per una band che nel
corso degli anni ha portato avanti una costante evoluzione ed oggi si presenta
al mondo con un sound articolato e maturo.
Ma tolto questo aspetto, per
me oggi i fratelli Sakis e Themis Tolis sono degli amici a cui
voglio molto bene (un po’ come all’amico che si chiama Gian Gerardo). Perché mi
piacciono? Nei Rotting Christ trovo quel sapore genuino tipico della vecchia
scuola, di gente limitata ma onesta, che si impegna e si fa un gran culo
per sfornare lavori di qualità. Limitati però fino ad un certo punto: gli
ellenici infatti sono riusciti a stupirmi in almeno un paio di circostanze. In
“Khronos” (loro album del 2000), per esempio, decidono di
inserire un’audace cover della “Lucifer Over London” dei Current 93,
una vera chicca per intenditori, considerato che si è andati a rovistare nel
calderone del folk apocalittico (universo spesso estraneo al metallaro medio,
ma che invero meriterebbe di essere approfondito). Nel già citato “Aealo”,
si va persino a coverizzare “Orders from the Dead”, della
connazionale Diamanda Galàs, cantante di fama internazionale (con le sue
quattro ottave di ampiezza vocale è considerata la più dotata del mondo), la
quale non necessita certo di presentazioni. Il pezzo, che conserva il sapore
malsano ed esoterico dell’originale, ospita la voce spiritata della cantante
stessa.
Insomma, due elementi che non
sono altro che le ciliegine sulla torta di un’evoluzione costante che ha
coperto i quasi trent’anni di attività della band e che potremmo suddividere in
tre macro-fasi.
Nella prima includerei le
origini (la band si è formata nel 1988!), una serie di demo ed EP, certi
anche molto validi (fra cui primeggia il mitico “Passage to Arcturo” del
1991) e i primi due full-lengh “The Mighty Contract” (1993,
uscito per Osmose) e “Non Serviam” (1994, edito tramite Unisound),
ad oggi ritenuti due pietre miliari del black metal. In questi lavori,
il monicker ci poteva ancora stare, considerate le atmosfere blasfeme
che caratterizzavano una musica violentissima che traeva ispirazione dal
proto-black metal dei vari Venom, Bathory e Celtic Frost,
ma che sapeva già portarsi su un fronte ulteriormente avanzato di efferatezza,
in un percorso analogo, ma parallelo, a quello delle band norvegesi, che nei
primi anni novanta stavano letteralmente forgiando il black metal come oggi lo
intendiamo. I Rotting Christ dunque c’erano, ma non furono aiutati dal fatto
che il black metal in quegli anni si stava delineando secondo gli standard
dettati dalle band scandinave (neve, gelo, boschi, montagne, vichinghi, mitologia
nordica ecc.). Che cazzo ci fa dunque una band black in Grecia, nel pieno
del Mediterraneo, fra sole, ulivi e mari celestissimi?, mi son sempre
chiesto. Beh, un altro motivo per farmeli stare simpatici, ma lo capisco solo
con la vecchiaia.
Seguì poi la fase "gothic" che ha
coinciso con l’approdo alla scuderia della Century Media e con la lunga permanenza
in essa. A partire da “Triarchy of the Lost Lovers” (del 1996) e
poi per i cinque album successivi, i Rotting Christ impressero una svolta
gotica al loro sound, uscendo parzialmente dal black metal, per
approdare ad una materia sonora più articolata e densa di atmosfera. E’ come se
da un certo punto in poi i Nostri avessero subito il fascino dei Moonspell,
che proprio in quegli anni si affermavano nel panorama gothic-metal
internazionale con capolavori come “Wolfheart”(1995) ed “Irreligious”
(1996). Forse i fratelli Tolis hanno visto nei cugini portoghesi una certa
affinità che andava approfondita. Il black metal della band di Fernardo Ribeiro
era fottutamente credibile sebbene provenisse dall’assolato Portogallo: gli
elementi etnici, mutuati dalla contaminazione araba, erano suggestivi e ben si
sposavano con la ferocia professata in campo black. Sakis, che forse per anni
ha sentito questa sudditanza nei confronti delle emergenti band scandinave,
trovò il modo finalmente di non rinnegare le origini elleniche, bensì di
spiattellarle a bella vista, tramite un sound che sapesse coniugare
l’epicità della mitologia greca con la poesia suggerita dei suggestivi paesaggi
del Mediterraneo. Fatto sta che i risultati sono stati altalenanti e nel corso
della decina di anni successivi l’operato della band non è stato oggetto di
grandi clamori.
Del resto, un’altra domanda
che ci possiamo porre è la seguente: ma chi è il fan dei Rotting Christ
(esclusi ovviamente i metallari greci)? I Rotting Christ hanno sempre
meritato rispetto all’interno del popolo metal e, guardando ai primi due album,
non si può negare che la loro piccola parte nella storia del black metal ce
l’abbiano avuta. Ma poi, chi è che possiede tutti, ma proprio tutti gli
album dei Rotting Christ? Chi graffia con le unghie la vetrina del negozio
di dischi in attesa che esso apra il giorno in cui è prevista l’uscita di un
ultimo album dei Rotting Christ? Allora mi vengono in mente tutte quelle
squadre di calcio da perenne metà classifica, troppo solide per rischiare la
retrocessione, troppo scarse per ambire al primo posto o a coppe prestigiose.
Ma spesso il calcio è una questione di solo cuore: i tifosi di quella certa squadra,
la seguono e basta, mossi da una fede incrollabile ed indiscutibile. Per
questo, secondo me, gli unici veri tifosi dei Rotting Christ possono essere i fan
greci. Oppure io.
Infatti, con la fuoriuscita dalla
Century Media, i Rotting Christ hanno come vissuto una seconda giovinezza che,
a mio parere, rimane la fase più entusiasmante della loro carriera. Non è un
caso che ci sia lo zampino della Season of Mist, che di estremo e
post-estremo se ne intende. Il capolavoro “Theogonia” (del 2007)
inaugurerà una serie di album decisamente riusciti, saga che proseguirà con il
già citato “Aealo” (del 2010) e dall’ultimo “Kata Ton Dai Mona
Eaytoy” (del 2013). In questi tre album la formula iper-collaudata
dei Rotting Christ si invigorisce ulteriormente, forte di una rinnovata
ispirazione e senza perdere in ricchezza e sfumature: iniettata una buona dose
di epicità e di marzialità, il sound dei nostri si fa potente e melodico
al tempo stesso, andando da un lato a rovistare nel repertorio degli amori della gioventù
(Bathory, Celtic Frost, Morbid Angel, Kreator), senza dall'altro rinnegare le lezioni delle nuove muse ispiratrici (Paradise Lost e Moonspell su tutti).
Tendo a vedere questi tre album come una sorta di trilogia, ma non è da
escludere che la band proseguirà con lo sfornare ottime release:
di frecce nella loro faretra i fratelli Tolis ne hanno.
Giungiamo dunque ai giorni
nostri, in cui in effetti mi sono trovato a graffiare con le unghie la vetrina
del negozio il giorno che doveva uscire “Lucifer over Athens” (altra
mirabile citazione al repertorio dei Current 93), ottimo doppio album live
che funge da perfetto compendio dell’intera discografia dei Rotting Christ.
Trentuno brani per non farsi mancare davvero
nulla della storia dei Nostri, con un occhio di riguardo, ovviamente, alle
ultime uscite (basti pensare che per il “gran finale” viene impiegata “Noctis
Era”, contenuta nel recente “Aealo”). Ovviamente, nei brani più datati, i
Rotting Christ non possono essere più quelli di una volta, considerato il fatto
che il flavour epic/gothic che ha pervaso la produzione discografica a
partire dalla seconda metà degli anni novanta oramai ammanta tutti i brani,
belli e brutti, allineandoli/omologandoli all’attuale visione artistica dei due
fratelli. Le canzoni, pertanto, tendono a somigliarsi in maniera preoccupante
(spogliate di molti degli arzigogoli da studio, esse mostrano un’ossatura
decisamente Celtic Frost oriented) e qualcosa, in termini di ruvidezza e
morbosità, si perde per la strada, ma è anche normale, considerato che si parla
di una band con quasi tre decadi sul groppone.
Quello che semmai un po’
rimproveriamo all’operazione è il fatto che l’album risulta eccessivamente ritoccato
in studio. Perché la voce di Sakis non può reggere così bene per trentuno
canzoni in cui di certo il Nostro non si risparmia (sentire a tal proposito le
grida lancinanti in coda a “Kata Ton Demona Eaftou” – da brividi). Gli
intrecci di chitarra, inoltre, sono troppo perfetti, chirurgici, definiti, se
penso che già quasi vent’anni fa, quando li vidi dal vivo, la resa sonora era
bella impastata. Il mixaggio, infine, ci consegna dei suoni troppo puliti per
essere veri (i brani sembrano uscire da uno studio di registrazione piuttosto
che da un palcoscenico, quando in realtà ci saremmo attesi più volentieri delle
versioni dei brani più potenti e dotate di una maggiore forza d’urto). Ogni
tanto è possibile scorgere, fra un brano e l’altro, una veloce dissolvenza
della musica ed una sospetta impennata di pubblico (che spesso, durante le canzoni,
sparisce misteriosamente): se il fade
out va a certificare che i brani sono stati selezionati fra i migliori
eseguiti in più date (due per l’esattezza), il pubblico che si materializza nei
momenti giusti fa pensare che anche questo aspetto sia artefatto. Aggiungiamo
infine la presenza abbondante di tastiere non suonate da un musicista presente
sul palco, ma inserite direttamente da mixer. Niente di grave, in
definitiva: “Lucifer over Athens” è un bel live finto come si
fanno oggi i live, non ci scandalizziamo di certo. La scaletta rimane
ottima (anche se avrei personalmente dato una sforbiciatina qua e là –
in effetti trentuno pezzi sono davvero tanti!) e l’ascolto procede per più di
due ore scorrevole ed orecchiabile.
Insomma, al di là dei
difettucci sopra indicati, “Lucifer over Athens” è un’opera imponente
che consiglio caldamente a chi, come me, ha deciso di conoscere troppo tardi le
gesta di questa band imprescindibile per il metal estremo.
Buona scoperta.