Ognuno
potrà dire la sua: che vedere dal vivo per l'ultima volta i Black Sabbath
è un'esperienza mistica e che in
quanto tale rifugge da ogni possibilità di giudizio obiettivo. Oppure, dal lato
opposto, che si sta parlando solo di intrattenimento, mero intrattenimento da
parte di navigati professionisti del music business.
Non
conosco i retroscena, ma tenderei a non pensare che musicisti affermati con
conti in banca da nababbo, una carriera cinquantennale alle spalle, un'età che
oramai si avvicina ai settanta, abbiano avuto davvero bisogno di imbarcarsi in
questa ultima avventura solo per soldi: fare le valige, ripartire per il mondo,
affrontare continui spostamenti, la vita disagiata del tour, la quale,
se da un lato oggi la si può trascorrere in hotel a cinque stelle, dall'altra
la si deve affrontare senza l'energia e l'entusiasmo dei vent'anni, magari
nella più assoluta sobrietà imposta doverosamente dall'avanzare dell'età. Che palle...
E
parlo soprattutto di Ozzy, del goffo e rintronato Ozzy, che già diversi
anni fa dovette ricorrere alla formula dell'Ozz Fest (un pugno di
canzoni cantate dopo vari ed importanti gruppi spalla) per alleggerire gli
oneri da sostenere dal vivo: suppongo che per lui, fra tutti, questo ultimo tour
abbia costituito il sacrificio maggiore, fisico ed anche mentale, visto che dei
Sabbath aveva saputo fare a meno per più di trenta anni. Eppure Ozzy c'è:
fermo, aggrappato al microfono, che corre impacciato, che batte le mani alla sua maniera, che recita insulse frasi telecomandate
fra un pezzo e l'altro. Ozzy dunque c'è, e c'è la sua voce che miracolosamente
si riversa nelle nostre orecchie forte e chiara dall'inizio alla fine.
E
c'è ovviante Tony Iommi, che invece i Black Sabbath se li porta sul
groppone da sempre, che li ha guidati, li ha tenuti insieme fra le mille difficoltà,
fra le incomprensioni e le bizze degli svariati musicisti che si sono avvicendati
nel corso degli anni. C'è al 3000%, Iommi, con la sua chitarra
tempestata di croci, con le sue dita che nonostante le protesi si spostano
agilmente su di essa, con gli occhialetti da sole e il timido sorriso. C'è
anche Geezer Butler, che dimesso contribuisce ad un muro di suono che ha
fatto la storia.
Ma
c'è soprattutto Tommy Clufetos...e chi cazzo è, direte voi, Tommy
Clufetos? E il turnista a cui è stato affidato l'ingrato compito di
occupare il posto che fu di Bill Ward. Mi spiace per il buon vecchio
Ward, ma qua forse è stato un bene che ci sia stato un giovane torello a
trottare imperituro e a condurre con rinnovata energia i classici immortali dei
Sabbath. Il ragazzo proprio mi piace, nello stile mi ricorda molto Nick
Menza, pestatore instancabile con il pallino delle rullate e degli stop
& go, irrequieto sostenitore del cambio di tempo perpetuo e schiaffeggiatore
di piatti a più non posso. Anche esteticamente si presenta bene: fisico
asciutto, look anni settanta, posizionato in alto, al centro dello stage,
a figurare come un oracolo esagitato in una corona di luci. E il suo infinito
assolo di batteria, benché sia chiaramente il classico escamotage per
far riposare i tre vecchietti, sarà inaspettatamente un momento esaltante della
serata, con il Nostro che con le sue prodezze e a suon di mazzate spedirà in
uno stato di trance il pubblico estasiato.
Già,
il pubblico, il vero protagonista della serata. L'O2 è un'ampia arena
coperta che si riempirà lentamente di cinque generazioni di rockettoni,
dal ventenne col ciuffo emo al classico padre di famiglia con prole a seguito,
passando per il bestione stempiato che la fica non l’ha vista nemmeno in
cartolina. La platea è vasta e variegata, a conferma dello status di vera
leggenda fuori dal tempo di cui il Sabba Nero gode: gente apparentemente
rispettabile si mescola a personaggi che hanno certamente visto tempi migliori,
mentre i casi umani, di tutte le età, si sprecano. Ragazze: tutto sommato, in
quantità moderata.
Entra
in scena il gruppo spalla. I Rival Sons, che sono uno sfacciato mix
di Led Zeppelin, Deep Purple e Whitesnake con un cantante
veramente in serata, inanellano tutti i cliché possibili dell'hard
rock/blues di settantiana memoria e sono semplicemente perfetti per scaldare la
situazione, tanto che qua e là inizia a scoppiare qualche rissa, e per i motivi
più futili: scintille che scoccano nel momento in cui maldestri figuri ubriachi, molesti per natura o per effetto di droghe, entrano in
contatto con lo spazio vitale di giovani rissosi ed altrettanto ubriachi in cerca di pretesti e di facili prede su cui scaricare
la propria tensione. Poi si spengono le luci e tutti si azzittiscono, inizia a
scrosciare la piaggia ed una campana batte a morto: che il rito abbia
inizio...
E'
facile, anzi ovvio, affermare che assistere ad una data del "The End
Tour" dei Black Sabbath è qualcosa di speciale, eppure alla vigilia i
dubbi erano molti: una scenografia essenziale a fare da sfondo, musicisti
statici, una scaletta che si sarebbe composta quasi esclusivamente di brani
pescati dai primi quattro album e dunque epurata da tutte quelle interessanti e
provvidenziali "variazioni sul tema" che il vasto mondo sabbathiano
ha saputo ospitare: dagli episodi più sperimentali alle gradite tendenze
progressive esplorate con "Sabbath Bloody Sabbath" e "Sabotage", passando per quei gioielli acustici che via via hanno fatto
capolino nella discografia dei Nostri (il sospetto è che siano stati
selezionati i brani più facilmente gestibili da Ozzy). Non avrebbero dunque
guastato pezzi come "Hole in The Sky",
"Symptom of the Universe", "Spiral Architect", la stessa "Sabbath Bloody Sabbath" (accennata solo nel riff
iniziale in un medley insieme a "Supernaut" e "Rat
Salad", prima del drum-solo), o anche più semplicemente una
"Solitude", una "Planet Caravan", una "Changes",
se non altro per spezzare l'impero delle distorsioni.
Ed
invece niente di tutto questo: i Black Sabbath per il loro tour d'addio
hanno puntato all'osso, all'essenziale. E così brani come "Into The
Void", "Behind The Wall of Sleep" o "Hand of
Doom", brani senza ritornelli memorabili e basati soprattutto su storici riff di chitarra, posti nel mezzo del set possono rivelarsi bocconi
duri da digerire. "Fairies Ware Boots" tanto tanto ancora si è
salvata perché inserita come secondo pezzo, quando ancora tutti eravamo
freschi, curiosi ed eccitati!
Assistere
ad un concerto dei Black Sabbath, del resto, è come visitare il "Museo
delle invenzioni seminali dell'umanità", dove in una sala puoi
ammirare la ruota e dove in un'altra la guida ti mostra come accendere il
fuoco: tutte cose talmente geniali ed indispensabili da risultare quasi banali,
perché divenute di uso comune e nel tempo perfezionate. L'ho sempre detto e
questo concerto ne è stato una conferma: i Black Sabbath più che scrivere
canzoni hanno inventato un linguaggio.
Ascoltandoli
dal vivo si ha l'impressione che l'heavy metal sia stato un cortocircuito
del rock, un qualcosa di sbagliato e sviluppato morbosamente, fuori da ogni controllo: privo di
sensualità, per niente ammiccante come sapeva essere l'hard rock, lontano
dall'eleganza del blues o del jazz, estraneo alle melodie ed ai passaggi
sfavillanti del prog. No, il metal forgiato dai Sabbath è un qualcosa di
mostruoso nelle forme, irrazionale nel suo muoversi: "Under the
Sun/Everyday Comes and Goes" è eloquente al riguardo, rivelandosi un
pachiderma sonoro fatto di chitarre ancestrali ed evocative, riff
schiacciasassi e continui cambi di tempo, con voce cantilenante ad ingenerare
estraneità nell'ascoltatore. Un affannarsi quasi fine a se stesso: ma che
bellezza!
Fa
impressione pensare che brani di tal potenza (fra l’altro: ottimi i suoni,
limpidi e potenti al tempo stesso) siano stati concepiti e realizzati fra il
1970 e il 1972! Il paradosso è che tutto suona tremendamente attuale senza
perdere il suo spirito squisitamente seventies: lo spirito di quei seventies
acidi e psichedelici scimmiottati dallo stoner che verrà (e qui i colori, le
proiezioni colorate, le luci variopinte, i piatti schiaffeggiati con gran
violenza hanno arrecato un gran bel contributo).
Perché
infine si capisce che i Nostri sono brava gente e che in passato hanno adottato
un immaginario oscuro, trattato tematiche fantasy e persino horror
solo perché tutto questo apparato lirico ed estetico era l'ideale e funzionale
complemento, in quel dato periodo storico, alla musica dura che i quattro si
erano proposti di suonare. Perché quei signori sul palco son tutto tranne che
persone malvagie o depresse. Per dire: Ozzy avrebbe potuto assumere
tranquillamente atteggiamenti enfatici, autocelebrativi, ed invece eccolo con
addosso una semplice maglia nera a battere le mani fuori tempo, esattamente
come faceva quasi cinquant'anni fa. Neppure ci è lecito usufruire dello sguardo
allucinato del madman, visto che il posizionamento delle luci fa sì che
i suoi occhi spiritati, salvo sporadici momenti, siano sempre velati dalle
ombre.
Iommi,
dal canto suo, pare restio ad assumere pose da guitar-hero,
concentrandosi con onestà sul suo strumento, e c'è da dire che la musica ne
giova: la sua prestazione è impeccabile, precisa e calorosa al tempo stesso, le
ritmiche trascinanti, ogni singolo assolo da applausi. Iommi, sebbene abbia
ideato i riff più influenti dell'heavy metal e molti di essi di una
mestizia inconcepibile per l'epoca in cui sono stati generati, non è quel guru,
quel sacerdote della chitarra che potrebbe permettersi di essere, ma sembra ancora
l'operaio di Birmingham che si dedica con passione al suo strumento e che
si rivolge oggi, con semplicità e con grande rispetto, al suo pubblico che per così
tanti anni lo ha seguito e supportato. Probabilmente Iommi è un sentimentale e distaccarsi
per sempre dalla sua creatura dev'essere un processo doloroso, per questo
motivo, perlomeno in lui, non vedo malafede. E vien da pensare che "Dirty
Women" (unico estratto dal non certo imprescindibile "Technical
Ecstasy" ed opinabilmente posta fra i super-classici a due brani dalla
fine) l'abbia voluta a tutti costi lui, per poter riproporre per un'ultima
volta quello splendido assolo.
E
poi, gente, ci sono ovviamente i cavalli di battaglia, a partire da Lei,
colei da cui è tutto iniziato, posta significativamente come apertura del
concerto alla stregua di un rito di iniziazione: "Black Sabbath".
Se anche i Nostri avessero scritto solo questo brano, sarebbero comunque
entrati di diritto nella Storia, perché in essa sfila già tutto l'heavy metal
che verrà: doom, heavy-classico, epic metal e persino thrash nella clamorosa
accelerazione nel finale (preceduta dal proverbiale segno della croce di Ozzy)
che ha visto letteralmente impazzire la folla.
E
poi la scoppiettante "After Forever" (una boccata di aria
fresca), "War Pigs" (un colpo di genio dopo l'altro), "Snowblind"
(da pelle d'oca il rallentamento centrale), "N.I.B" (con
Butler finalmente in primo piano), "Iron Man" (ogni commento è
superfluo) e le immancabili "Children of the Grave" e "Paranoid",
durante le quali si è consumato un momento di delirio collettivo in cui il pogo
sfrenato si è “scontrato” con il lancio sul pubblico di palloni giganti e
coriandoli in quantità industriali: una scena surreale.
La
band saluta e abbandona il palco, la gente grida in coro "one-more-song!
one-more-song", ma io lo so che è finita, e mentre i titoli di coda
sfilano con in sottofondo ancora la musica dei Sabbath, questa volta però
registrata e in filo diffusione, mi avvio verso l'uscita con un insopportabile
senso di perdita, con un vuoto incolmabile dentro di me, con la
dolorosa consapevolezza che la fine è giunta per davvero. E forse solo
in questo frangente me ne rendo davvero conto, mentre un energumeno truccato da
Ozzy mi taglia la strada e una tenera coppia di sessantenni, lui capelli lunghi
bianchi ed occhiali da sole, lei claudicante con il bastone, spariscono nella folla.
Si
parla molto dello stato di salute di Tony Iommi, ma sinceramente, dopo questa
esperienza, la sensazione è che quelli che possono morire adesso siamo
tutti noi...