Accidenti al marketing e ai social media! Ci
sono più persone stasera per i Batushka di quante ve n’erano state per gli Ulver il 15 novembre scorso. Non ho dati statistici alla mano, ma stasera all’Islington Assembly Hall si sta decisamente più
stretti rispetto a quando, qualche mese fa, sullo stesso palco montarono i lupi norvegesi. Un solo album e qualche migliaia di cliccate su YouTube contro una carriera più che ventennale costellata da lavori seminali: ecco i miracoli che possono fare un look ben studiato ed un pizzico di mistero...
Magie
del marketing, si diceva, ma anche buona musica! Amici del post-black metal leccatevi i baffi,
stasera c’è pane per i vostri denti: ad accompagnare i polacchi, troviamo i Trepaneringsritualen, fautori di un
nocivo death/black industrial, e gli Schammasch,
altri originali interpreti della materia black.
La platea è all’altezza della
situazione, dividendosi fra nerd e personaggi bislacchi, a sottolineare gli uni il lato intellettuale,
gli altri la stranezza e la trasversalità del palinstesto serale. Ma soprattutto: tanti tanti tanti giovani!
Quando faccio il mio ingresso,
sul palco c’è uno strano energumeno con un passamontagna, praticamente al
buio, fra fioche luci blu ed arie sinistre. In realtà non è una calzamaglia ma un
straccio che gli avvolge alla meno peggio la testa, coprendogli completamente
il viso, compresi occhi e bocca. Ha un microfono in mano, i polsi insanguinati
e si muove pesantemente fra gli strumenti dei gruppi successivi (sullo sfondo compare
già il logo dei Schammasch). Dalle fauci gli escono grugniti black/death riverberati
e nel complesso è una scena abbastanza spiacevole.
Non mi piacciono, in genere, i
set con basi completamente
preregistrate: anche in contesti di questo tipo (Death in June docet!) è raccomandabile portarsi dietro un
percussionista o armarsi di bacchette e picchiare in prima persona. L’esibizione,
francamente parlando, si trascina avanti noiosamente, fra innesti ritmici ed
esplosioni power electronics. Il frangente
di maggior pathos si rivelerà essere il momento in cui il tizio si toglie il
cappuccio (stasera, in un certo senso, sarà la serata dei cappucci!) per rivelarsi una sorta di Max Cavalera ancora più sudicio
dell’originale: barba e capelli sono imbrattati di sangue (mi auguro finto) e
questo dettaglio non rende certo più gradevole alla vista mr Thomas Martin Ekelund,
titolare del progetto Trepaneringsritualen
(che vorrebbe indicare la nobile pratica
della perforazione del cranio per
fini rituali).
Dei Trepaneringsritualen avevo
letto molto bene, fra l’altro, ed Ekelund era stato persino definito l’erede
della gloriosa stirpe di terroristi sonori patrocinata in terra svedese dall’etichetta Cold Meat Industry (non a caso i
riferimenti che vengono in mente sono il black industrial di MZ.412/Nordvargr e il death industrial di Brighter Death Now). Lo svedese sarà anche il nuovo genio dell’industrial
rituale, ma stasera, per quanto breve, la sua esibizione, più che il cranio, mi
ha trapanato le palle. Avanti i prossimi!
Gli svizzeri Schammasch destano dal torpore con una
presenza scenica di tutt’altro livello, con teschi di animali su piedistalli, candele
disseminate per il palco e un carismatico Christopher Ruf travestito da sacerdote mesopotamico (o almeno questa è la mia
impressione, considerato l’immaginario concettuale che fa da sfondo al progetto):
volto dipinto color d’argento e lunga tunica nera con cappuccio dalle estese ali
laterali (un impatto che potrebbe ricordare quello degli (in)dimenticati Saviour Machine).
Già dall’introduzione marziale, con Ruf a percuotere il
tamburo, si capisce che l’interpretazione del black metal da parte degli
Schammasch è audace. Chitarre zanzarose
si stendono su potenti accordi doom, come degnamente insegnato dai Sunn O))) (sicuramente “Black One” è stato un prezioso punto di
partenza per i Nostri), mentre il tutto è pervaso da una tribalità rituale che
potremmo definire neurosiana. I nomi
che verranno in mente durante l’esibizione saranno molti (Behemoth, Deathspell Omega, Blut Aus
Nord, Samael, ultimi Enslaved), senza dimenticare le imprescindibili lezioni del
conterranei Celtic Frost (padri
indiscussi della commistione fra metal estremo, sonorità oscure ed esoterismo).
Nonostante tutti questi rimandi, la proposta degli svizzeri si rivelerà fresca
ed originale, animata da una intelligente vocazione destrutturante in un
contesto in cui i “pezzi” sono ricondotti armonicamente in un insieme che integra
dinamismo e ricerca melodica.Quando Ruf imbraccerà la chitarra, saranno ben tre le chitarre al servizio di questo sound che vede flirtare sfuriate death/black e momenti più riflessivi mutuati dagli universi post-metal, drone-music, industrial e dark-ambient. Per buona parte dell’esibizione il Nostro sfoggerà un suggestivo recitato, tanto che dovremo aspettare un bel pezzo per sentirlo passare ad un ispirato screaming, ferocemente rinforzato dalle urla belluine del chitarrista che gli sta a fianco. Quanto al set, viene riproposto quasi per intero l’EP “The Maldoror Chants: Hermaphrodite”, loro ultimo lascito discografico, mentre la parte finale verrà giustamente dedicata ai pezzi forti degli apprezzati full-lenght “Contradiction” e “Triangle", fra cui le bellissime “Golden Light” e “Metanoia”, alla quale è affidato il gran finale. A mio modesto parere, siamo al top del black contemporaneo.
Ma arriviamo alla portata principale della serata, quei Batushka che non hanno nemmeno un profilo su Wikipedia, ma impazzano sui social e su Youtube: la maggior parte dei presenti è tutta qui per loro. Non si sa chi effettivamente siano: si vocifera che dietro a questo progetto (su cui è stata montata ad arte una impenetrabile atmosfera di mistero) si celino personaggi noti della scena estrema polacca, e non si fa fatica a crederlo in quanto questa proposta sembra animata da una mano sicura di sé e non da quella tremante di un esordiente.
Anzitutto i Batuskha non inventano niente, ma elevano a cifra stilistica delle
intuizioni che i Mayhem avevano espresso in un brano
come “De Mysteriis dom Sathanas”. Parimenti,
a livello scenico, non siamo lontani da quanto allestito dagli stessi norvegesi nei loro live (compreso il recente tour per celebrare “De Mysteriis dom Sathanas”), dove da tempo abbiamo un altare sul palco ed un Attila
travestito da prete (…) con tanto di incenso e teschi. Ma da “Mysteriis dom
Sathanas” ad oggi sono trascorsi più di venti anni, e i Batuskha, che si muovono in un mondo completamente diverso, sanno bene andare
oltre, imponendosi come una concept-band
in cui le componenti musicali e meta-musicali sono strettamente intrecciate,
tanto da divenire complementari ed inscindibili. La variante sviluppata dai
polacchi è stata quella di mischiare black
metal e musica liturgica della
religione ortodossa, idea che, detta così, non sembra poi così strabiliante,
ma ogni aspetto è talmente definito nel dettaglio che non si può non dare atto
ai Nostri che il giochetto funzioni maledettamente bene.
Luci rosse e sfondo a base di icone e scritte in cirillico. I Nostri se la tirano molto prima di entrare, poi di
colpo, senza tanti fronzoli, si presentano in otto sul palco, tutti rigorosamente
incappucciati e con vesti ispirate alla tradizione della chiesa ortodossa (ma
con simboli minacciosi – croci e teschi – impressi sopra). Già la disposizione
sul palco denota una grande attenzione per il dettaglio, nonché la volontà di
perseguire una certa originalità: batteria montata di lato a destra,
chitarrista e bassista relegati nelle retrovie (praticamente impercettibili fra
fumo e luci), altri tre in fila sul lato sinistro (non si capisce bene se per mera
scenografia o se impegnati ai controcanti). Al centro cantante e chitarrista:
se vi sono personaggi famosi coinvolti, probabilmente sono questi due, anche se
poi tutti gli sguardi saranno rivolti verso i gesti lenti e solenni del vocalist, piantonato dietro al suo leggio
con tanto di microfono, teschi umani e l’immancabile icona russa. Sarà perché
il gruppo è polacco, ma mi sono venute in mente, in più di un frangente, certe
gestualità e certe intonazioni vocali del fu Karol Wojtyla… L’ingresso è dei migliori: mentre maestosi riff e austeri mid-tempo fungono da introduzione, il front-man compie accuratamente i preparativi, accendendo una ad una le candele disposte ai lati del leggio e aspergendo incenso sul palco. Poi, dopo il dovuto inchino innanzi all’icona raffigurata alle sue spalle, la musica si interrompe e viene intonato, fra gli applausi, un canto liturgico. Ha ufficialmente inizio “Litourgiya”, che come prevedibile viene riprodotto nella sua interezza. Inutile, quanto sbagliato, procedere con un track by track delle otto sezioni di cui si compone l'album, visto che l’intera opera è da vedere come una sorta di suite.
Gli otto sul palco, sorta di Slipknot riletti nell’era dei Sunn O))), confezionano uno spettacolo
inappuntabile, dove una autorevole staticità è la cornice evocativa per i
movimenti pregni di significanze pseudo-sacrali compiuti dall’unica figura a
cui è concesso muoversi: in questa sorta di evocativo “rituale metal in slow-motion”
si palesa tutta la furbizia che sta alla base dell’operazione. La musica non
dispiace, costituendo un azzeccato connubio fra intensità black metal ed
atmosfere sacrali: le linee melodiche tracciate dalla chitarra, come i tempi
imbastiti dalla batteria, sono gradevoli all’udito e costituiscono un buon
sottofondo per quell’alternarsi fra aspro screaming
e cori liturgici che è il vero carattere distintivo della band. Nel complesso
niente di clamoroso, ma tutto torna al millimetro e sicuramente la dimensione live è quella ideale per godersi
appieno una proposta che ha saputo conquistare il cuore di molti anche grazie al
look adottato dai musicisti e alla
coreografia studiata per gli spettacoli dal vivo.
E’ ovviamente un tripudio di telefonini rivolti verso il
palco (davanti a me c’è un ragazzo giapponese che riprende praticamente tutta
l’esibizione, tanto che sono tentato di dirgli “ehi amico, vorrei vederlo adesso
il concerto, mica domani su YouTube!”). Se sul palco viene officiata una cerimonia, quello che si
consuma intorno a me è il rito degli smartphone, indice dei tempi che
corrono. Tutto è del resto calcolato stasera: anche quando sembra accadere l’imprevisto,
ossia il grande telo sullo sfondo che si sgancia, rimanendo per un istante scompostamente sospeso, per poi precipitare rovinosamente a
terra, risulterà invece chiaro che si tratta dell’ennesimo escamotage scenico, visto che dietro vi sarà un altro tendone con una immagine ancora più grande, quella di una Madonna che
piange sangue.
Bisogna ammetterlo: non sarà "musica de core", ma si esce innegabilmente
soddisfatti dall’esperienza. Mi rendo anche conto che sono oramai un vecchio e
che il modo di fare i concerti è totalmente
cambiato (e non necessariamente in peggio). Oggi i concerti in linea di
massima durano di meno, diciamo il minimo indispensabile, e non è detto che sia
un male, e si punta molto di più sullo spettacolo: in effetti
il modello “energumeno borchiato che aizza continuamente la folla” non ha più l’appeal di un tempo e dunque diviene
preferibile concentrare i propri sforzi su trovate sceniche che, supportate
dall’uso sapiente di luci e zaffate di fumo, vanno a compensare performance semplicemente oneste.
In un certo senso si cerca di
semplificare il più possibile l'esecuzione dei brani affinché il sound risulti più incisivo (tanto oramai la musica non la ascolta
più nessuno), ma soprattutto affinché qualsiasi evento che si verifica sul palco possa avere maggiore
risonanza: niente di speciale, basta un
qualcosa che attiri l’attenzione per qualche minuto e lasci il segno in menti sempre meno disposte all’analisi ed all’approfondimento, e più sensibili all’emozione
del momento.
E’ curioso constatare come
questa tendenza alla spettacolarizzazione
abbia proliferato soprattutto negli ambienti del black metal, genere minimale
per eccellenza e che per anni ha preferito la “cantina” rispetto al palcoscenico.
Le nuove generazioni di musicisti (e mi riferisco soprattutto a quelle
gravitanti nell’empireo dell’odierno post-black metal) hanno infatti capito che
il black metal ha quel potenziale
atmosferico che molti altri generi estremi non hanno. E quel potenziale
atmosferico deve essere sfruttato fino in fondo in quanto l’obiettivo di un
concerto, in fin dei conti, rimane quello di trasmettere emozioni e far vivere al
pubblico una esperienza memorabile (esito che a volte la sola musica non
riusciva a garantire). Le platee di oggi, del resto, sono sociologicamente più
attratte da dimensioni, come dire, multimediali
e performative.
Non va del resto sottovalutato
l’effetto
cappuccio: fare la doccia e poi guardarsi allo specchio indossando un accappatoio,
dopo un concerto dei Batushka, potrà rivelarsi una esperienza metafisica. O per lo meno inquietante…