"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 mag 2019

I MIGLIORI EP DEL METAL - "EMPEROR'S RETURN" (CELTIC FROST)


Ho sempre avuto il debole per i precursori. In particolare se si parla di Estremo: sono da sempre attratto in maniera morbosa da coloro che hanno saputo precorrere i tempi, aprendo nuove strade, alzando l’asticella di quello che è consentito fare secondo il comune sentire. 

Così aprivo la trattazione di “Apocalyptic Raids” degli Hellhammer, altro EP fondamentale della nostra rassegna dedicata ai migliori EP del metal

Nel 1984 morivano gli Hellhammer e nel medesimo anno nascevano i Celtic Frost, che ne erano la naturale prosecuzione. Il debutto “Morbid Tales” conservava lo stampo delle composizioni realizzate in seno agli Hellhammer e se progrediva, ciò avveniva in modo fisiologico: il miglioramento tecnico dei musicisti portava ad un miglior dosaggio delle energie, cosicché il suono diveniva meno caotico, ma certo non perdeva in pesantezza e velocità. La furia era leggermente sotto controllo, in più si trovò lo spazio per lo sviluppo di nuove idee, come esemplifica la strumentale “Danse Macabre”: un intermezzo dalla vocazione rumoristica che avrebbe anticipato quel carattere sperimentale che i Celtic Frost avrebbero poi espresso negli album della maturità. Ma a parte qualche trovata meschina, “Morbid Tales”, nei suoi poco più che venti minuti (trentadue per la versione americana), consolidava la volontà della band di esprimersi attraverso la forma di metal più violenta a disposizione in quel periodo, ossia il nascente thrash metal. 

Lungo il medesimo tracciato proseguivano le tracce contenute nel successivo EP “Emperor’s Return”, uscito nell'agosto del 1985. Contrariamente a quanto avvenuto per i lavori degli Hellhammer (sui quali erano piovute così tante critiche negative da portare il progetto allo scioglimento), il debutto discografico dei Celtic Frost aveva riscosso svariati apprezzamenti nel mondo del metal estremo. E in un momento in cui c’era bisogno di sicurezza ed autostima, questo secondo lavoro può essere visto come una rivincita, una biliosa affermazione di quella che era la scomoda visione artistica di Tom G. Warrior e Martin Eric Ain, per nulla intenzionati ad ammorbidire il proprio sound (anzi…). 

Già dal punto di vista iconografico, la bellissima copertina in foschi color pastello si distanziava da tante altre molto più banali del medesimo periodo, ritraendo un demone avvinghiato a tre schiave in provocanti abiti sadomaso (chissà se l’ispirazione è venuta pensando a Jabba e il suo harem in “Guerre Stellari” - certo la capigliatura sfrontatamente anni ottanta delle tipe e il tratto fumettistico ne fanno al contempo un capolavoro di torbida pop art!). Da rimarcare il fatto che parallelamente, a livello di look, i Nostri ci andarono giù pesanti con trucco, pelle e borchie, iniziando a delineare quelli che sarebbero divenuti i canoni estetici del black metal a venire. 

Qualche vezzo à la Venom sopravvive qua e là, ma ciò non inficia la missione di una band che, dal lato concettuale, ha poco da scherzare e che invece intende senza remore sondare lidi oscuri. In “Emperor’s Return” si parla di diavolo, demoni, figure mitologiche (fra cui gli immancabili Antichi di H.P. Lovecraft) e di altri temi tipici del periodo, dove ovviamente svetta una feroce critica alla Chiesa Cattolica. Sebbene in questo non si riscontri una particolare originalità, già evidente è il tratto morboso della penna di Warrior, che nella conclusiva “Suicidal Wings” non si tira indietro nemmeno innanzi ad argomenti quali depressione e suicidio. 

E' sul fronte prettamente musicale, tuttavia, che il discorso si fa interessante: il linguaggio parlato è quello di un thrash metal estremamente aggressivo tale da anticipare certi umori death e black metal, ma senza ancora concretizzarli compiutamente. Descrivere questo sound con l'appellativo slayeriano non è del tutto corretto: sebbene gli Slayer stessero contribuendo in maniera significativa a definire un nuovo paradigma di metal estremo, non vi è da escludere che, ancora essi realtà emergente (solo qualche mese prima era uscito “Hell Awaits”), potessero aver colto in seguito qualche spunto dalla baraonda sonora inscenata dagli svizzeri, come per esempio l’alternanza fra velocità e sezioni più cadenzate (e in questo il drumming preciso e potente della new entry Reed St. Mark ha certamente dei meriti). Quel che è sicuro, è che i Celtic Frost suonavano più oscuri e deviati di Araya e soci, il cui operato brillava di quel pragmatismo tipicamente americano che avrebbe influenzato in primo luogo il massiccio e solido death metal, quando invece gli svizzeri sarebbero stati visti come fonti di ispirazione per la nascita del black metal europeo, che si sarebbe mosso in spazi ben più metafisici. 

Delle cinque tracce, tutte di altissimo livello, due in particolare vanno necessariamente menzionate in questa sede. La mitica opener Circle of the Tyrants” è un titolo che non ha certo bisogno di presentazioni, trattandosi di uno degli episodi più emblematici dell’intera epopea del metal estremo. Ritmiche forsennate e riff che, ossessivamente, scendono e risalgono di tonalità, delineando un incedere a dir poco catastrofico, tratteggiano uno dei momenti più estremi fino ad allora partoriti dal metal (tanto che, pochi anni dopo, gli Obituary ci consegneranno una loro versione in salsa death metal, che in verità non si distingue di molto dall'originale, se non per il growl esasperato di John Tardy). Completano il quadro assoli di chitarra cacofonici e voci deformate a conferire al tutto un alone di malattia sconosciuto a molte altre realtà del medesimo panorama: si iniziava ad imporre quel carattere titanico, visionario, allucinato della band che, abbinato alla sua forza distruttrice, avrebbe condotto al capolavoro “To Mega Therion”, rilasciato un paio di mesi dopo e che, non  a caso, riproporrà in scaletta il brano. 

Dethroned Emperor” (altro titolo evocante scenari di mestizia e decadenza calati in inquietanti rappresentazioni fantasy) rappresenta invece l’altro volto dell’arte devastatrice di Warrior e soci: qui i tempi decelerano un poco per supportare un riffing vischioso che raggiunge l’apice della maestosità nel ritornello, fra cori di dannati e le declamazioni invasate di Warrior. Certo, a questo giro non ci si spinge oltre, ma chi conosce la band sa che sul fronte della sperimentazione i Celtic Frost saranno maestri insuperabili negli anni a venire. 

Conclusioni. Se il piacere che può dare l’ascolto dei lavori degli Hellhammer risiede nel fascino concettuale dell’Estremo, nella tensione, nell’idea di spingersi oltre i limiti del consentito (come si diceva all’inizio), con i Celtic Frost della fase “Morbid Tales”/Emperor’s Return” l’apprezzamento va alle intuizioni stilistiche di brani che certo intendono colpire duro, ma in modo più consapevole: al pari degli Slayer, non si tratta più di esasperare stilemi esistenti, ma di crearne di nuovi. 

La Storia passa anche da qui.