10 lug 2021

UNA NUOVA VIA AL (POST) BLACK? RETROSPETTIVA SUI WHITE WARD

 



Black, Black, fortissimamente Black!

Se un (sotto)genere metal, varcata la soglia del nuovo Millennio, ha saputo mantenersi vivo&vegeto e, soprattutto, capace di allargarsi a macchia d’olio verso inglobando in sé gli stilemi musicali più disparati, questo è stato il Black Metal (e pensare che, ancora oggi, leggo recensioni su siti specializzati che parlano di un genere monocorde o in crisi!).

Dai suoi primi vagiti, quasi trent’anni or sono se prendiamo come punto di nascita la registrazione di “De Mysteriis Dom. Sathanas” nel 1992 e/o “A blaze in the northern sky” dei Darkthrone, il Black, dopo pochi anni di ortodossia minimalista, ha dato segni di insofferenza verso steccati&paletti che ne confinassero le capacità espressive e le pulsioni espressioniste, cominciando perciò a flirtare con suoni e stilemi apparentemente lontani anni luce dal “protocollo True”.

Da tutto questo processo (lungo ma incredibilmente naturale, quasi “fisiologico”, direi) abbiamo visto nascere miriadi di filoni: dal black sinfonico a quello folk, dal black-industrial a quello più doomico, dal blackened death a quello pagan di stampo vichingo…

Fino ad arrivare poi alla branca che, attualmente, va per la maggiore: quella atmospheric/post (di cui Metal Mirror ha mirabilmente parlato in tempi recenti grazie al nostro Mementomori). In questo contesto, sembra proprio che qualsiasi stronzo che imbracci una chitarra e si metta a sparare riff melodico-malinconici per 40 come per 120 minuti (perché l’atmospheric black sa esprimersi ed emozionare sia in tempi brevi che dilatatissimi), riesca a sfornare capolavori. O, alla peggio, dischi godibilissimi che comunque sanno toccare le corde giuste di noi vecchi metallari, bisognosi di emozioni…

Ora, se pensavate di aver sentito tutto in ambito post-Black non avete fatto i conti con l’Ucraina. Il paese ex sovietico è salito alla ribalta in tempi più o meno recenti per gruppi come i Drudkh, nella prima decade del nuovo millennio, e, nella seconda, per i Jinjer. Adesso sorprende con questi White Ward che, attenzione, nell’arco di appena due dischi hanno saputo imprimere un indirizzo nuovo e ancora non del tutto esplorato al black, tanto da portarlo, per certi versi, verso lidi post-post (ehm, passatemi l’espressione poco ortodossa).

Dopo una serie di split/singoli ed EP, i Nostri debuttano sulla lunga distanza nel 2017 con “Futility Report”. 5 brani medio-lunghi più una breve strumentale. E fanno subito centro. Non senza prima averci spiazzato. L’opener, “Deviant shapes”, parte come un trip-pop onirico: suoni ovattati, schegge noise di sottofondo; poi una partenza blackish sparata a mille all’ora ci riporta su territori a noi più consoni. Ma è un attimo: brusca pausa e inserto di sax che, vellutato, si lancia in una struggente partitura, doppiata poi dalle tipiche trame blackgaze. Piccolo inciso: che il sax si sia ormai sdoganato all’interno del Grande Reame del Metallo è cosa assodata da oltre un decennio. Ma “vederlo” applicato con così audace disinvoltura a blast beat furiosi & riff in tremolo, arpeggi elettrificati & accordi sfrigolanti tipicamente black…beh, fa un certo effetto anche alle nostre orecchie use a sperimentazioni/commistioni ben più che audaci…

Per cercare di trovare una chiave di lettura, scaviamo nei nostri cassetti mentali alla ricerca di categorie che si confacciano alla proposta degli ucraini. Boh…Ihsahn che incontra gli Ulver "urbani" che vanno a braccetto con i Der Weg Einer Freiheit? Si, più o meno, dai…può andare…

Ma se crediamo di aver già capito molto della proposta dei White Ward dopo questi primi 7’ e mezzo, sbagliavamo di grosso: “Stillborn knowledge” cambia ancora pelle e butta dentro sezioni marcatamente progressive, solos di heavy classico, stacchi fusion per piano&synth (oltre all’immancabile sax) ricamati da suggestive volute di basso sottostanti. Chapeau

Ad essere rompicoglioni, si potrebbe denotare (nonostante i 5 anni di gavetta prima di questo debut) una certa immaturità di scrittura, una forzatura, a tratti, nelle soluzioni del songwriting, quasi a voler “sorprendere per forza”. Manca ancora fluidità, naturalezza nei passaggi di umore, che, a volte, sembrano essere giustapposti l’una all’altro in modo artificioso. Meglio quando le diverse anime della band copulano allegramente assieme, dando all’ascoltatore, in questi casi, un effetto davvero “trascinante” (si veda l’ottima “Homecoming”). E che di stoffa questi 6 ragassuoli di Odessa ne abbiano a palate, lo vediamo in squarci di una genialità assoluta capaci di farci arrivare alle lacrime: ascoltate il mid-tempo black/jazz/gaze di “Black silent piers” e struggetevi…

La title track, oltre 8’ e mezzo di riassunto di tutte le influenze fino a quel momento espresso, chiude in bellezza 40’ di notevole valore.

Voto: 8+

Passano appena due anni e i Nostri alzano il tiro con “Love Exchange Failure”. Produce sempre la francese Debemur Morti Productions e questa volta gli ucraini sbattono in copertina (anziché loschi figuri in palandrana, in un sentiero in mezzo al bosco e col volto coperto da una maschera bovina), un panorama metropolitano all’imbrunire, molto ulveriano...

L’incipit della splendida title track stavolta non ci scompone: sappiamo cosa aspettarci dagli ucraini (che, nel frattempo, da sestetto sono diventati quartetto e, di questi 4, ben due sono new entry). Il dolce intro di pianoforte e sax, dopo 3’ e mezzo, lascia sfogo ad un’accelerazione black devastante. Il prosieguo è quel mélange di sfuriate black, screaming old-style, sottofondo di tastiere mai invadenti, decelerazioni repentine accompagnate da pianoforti, inserti di sax (a volte dissonanti e a tratti melliflui), arpeggi elettrificati…and many more! 

Insomma, tutto l’ambaradàn che avevamo conosciuto con il debut qui viene riproposto, in forma più equilibrata (vedasi la meravigliosa “Poisonous flowers of violence”) ma anche più dilatata (3 brani su 7 sono sui 12’). Passando da un linguaggio comunque black, per quanto atmosferico e sperimentale, a uno di stampo più extreme in senso lato. A prodigiuos collision of intoxicating black metal ferocity and late-night atmospheric jazz: questa è la frase con la quale viene pubblicizzato il disco e tutto sommato, nonostante queste frasi promozionali auto-incensanti non ci piacciano, non si discosta tanto dalla realtà…

Se proprio dobbiamo trovare un difetto, allora lo individuiamo in qualche autoindulgenza di troppo, la sensazione che la band voglia sottolineare a tutti i costi quanto siano innovativi, originali e quanto la parte jazzata del loro sound sia “importante”. Vedasi “No cure for pain” che (ab)usa dell’espediente intro soffuso/sparata blackish,  la strumentale “Shelter” (un titolo, un programma) o la ruffiana “Surfaces and depths”, una finissima jazz/blues/metal song per sola voce femminile.

Per carità, il songwriting rimane comunque di alta qualità, l’ascolto è più che piacevole, a tratti esaltante, le canzoni reggono il precario equilibrio dei vari “pezzi” miscelati assieme. Ma, personalmente, preferivo qualcosa di più stringato (si passa dai 40’ di FR ai 67’ di questo LEF), di più essenziale; come se ci fosse qualcosa di artefatto, meno spontaneo rispetto al prodigioso debut.

Ma sono considerazioni/sensazioni che non inficiano il risultato finale.

Voto. 7,5

Insomma, per tutto quanto detto sopra, non ci sembra esagerato affermare che, anche senza aspettare il fatidico terzo album, i White Ward sono stati capaci di scrivere una nuova, originale, pagina al Grande Libro del (Black) Metal!

A cura di Morningrise