Black, Black, fortissimamente Black!
Se un (sotto)genere metal, varcata la soglia del nuovo Millennio, ha saputo mantenersi vivo&vegeto e, soprattutto, capace di allargarsi a macchia d’olio verso inglobando in sé gli stilemi musicali più disparati, questo è stato il Black Metal (e pensare che, ancora oggi, leggo recensioni su siti specializzati che parlano di un genere monocorde o in crisi!).
Dai suoi primi vagiti, quasi
trent’anni or sono se prendiamo come punto di nascita la registrazione di
“De Mysteriis Dom. Sathanas” nel 1992 e/o “A blaze in the northern sky” dei Darkthrone, il Black,
dopo pochi anni di ortodossia minimalista, ha dato segni di insofferenza verso
steccati&paletti che ne confinassero le capacità espressive e le pulsioni
espressioniste, cominciando perciò a flirtare con suoni e stilemi apparentemente
lontani anni luce dal “protocollo True”.
Da tutto questo processo (lungo
ma incredibilmente naturale, quasi “fisiologico”, direi) abbiamo visto nascere
miriadi di filoni: dal black sinfonico a quello folk, dal black-industrial a
quello più doomico, dal blackened death a quello pagan di stampo vichingo…
Fino ad arrivare poi alla branca che,
attualmente, va per la maggiore: quella atmospheric/post (di cui Metal Mirror
ha mirabilmente parlato in tempi recenti grazie al nostro Mementomori). In
questo contesto, sembra proprio che qualsiasi stronzo che imbracci una chitarra
e si metta a sparare riff melodico-malinconici per 40 come per 120 minuti
(perché l’atmospheric black sa esprimersi ed emozionare sia in tempi brevi che
dilatatissimi), riesca a sfornare capolavori. O, alla peggio, dischi
godibilissimi che comunque sanno toccare le corde giuste di noi vecchi
metallari, bisognosi di emozioni…
Ora, se pensavate di aver sentito
tutto in ambito post-Black non avete fatto i conti con l’Ucraina. Il paese
ex sovietico è salito alla ribalta in tempi più o meno recenti per gruppi come i Drudkh, nella prima decade del nuovo millennio, e, nella seconda, per i Jinjer. Adesso sorprende con questi
White Ward che, attenzione,
nell’arco di appena due dischi hanno saputo imprimere un indirizzo nuovo e
ancora non del tutto esplorato al black, tanto da portarlo, per certi versi,
verso lidi post-post (ehm, passatemi l’espressione poco ortodossa).
Dopo una serie di split/singoli
ed EP, i Nostri debuttano sulla lunga distanza nel 2017 con “Futility Report”. 5 brani medio-lunghi
più una breve strumentale. E fanno subito centro. Non senza prima averci
spiazzato. L’opener, “Deviant shapes”, parte come un trip-pop onirico: suoni
ovattati, schegge noise di sottofondo; poi una partenza blackish sparata a mille
all’ora ci riporta su territori a noi più consoni. Ma è un attimo: brusca pausa
e inserto di sax che, vellutato, si lancia in una struggente partitura,
doppiata poi dalle tipiche trame blackgaze. Piccolo inciso: che il sax si sia
ormai sdoganato all’interno del Grande Reame del Metallo è cosa assodata da
oltre un decennio. Ma “vederlo” applicato con così audace disinvoltura a blast
beat furiosi & riff in tremolo, arpeggi elettrificati & accordi
sfrigolanti tipicamente black…beh, fa un certo effetto anche alle nostre
orecchie use a sperimentazioni/commistioni ben più che audaci…
Per cercare di trovare una chiave
di lettura, scaviamo nei nostri cassetti mentali alla ricerca di categorie che
si confacciano alla proposta degli ucraini. Boh…Ihsahn che incontra gli Ulver "urbani" che vanno a braccetto con i Der Weg Einer Freiheit? Si, più o meno, dai…può
andare…
Ma se crediamo di aver già capito
molto della proposta dei White Ward dopo questi primi 7’ e mezzo, sbagliavamo di
grosso: “Stillborn knowledge” cambia ancora pelle e butta dentro sezioni
marcatamente progressive, solos di heavy classico, stacchi fusion per
piano&synth (oltre all’immancabile sax) ricamati da suggestive volute di
basso sottostanti. Chapeau…
Ad essere rompicoglioni, si potrebbe denotare (nonostante i 5 anni di gavetta prima di questo debut) una certa immaturità di scrittura, una forzatura, a tratti, nelle soluzioni del songwriting, quasi a voler “sorprendere per forza”. Manca ancora fluidità, naturalezza nei passaggi di umore, che, a volte, sembrano essere giustapposti l’una all’altro in modo artificioso. Meglio quando le diverse anime della band copulano allegramente assieme, dando all’ascoltatore, in questi casi, un effetto davvero “trascinante” (si veda l’ottima “Homecoming”). E che di stoffa questi 6 ragassuoli di Odessa ne abbiano a palate, lo vediamo in squarci di una genialità assoluta capaci di farci arrivare alle lacrime: ascoltate il mid-tempo black/jazz/gaze di “Black silent piers” e struggetevi…
La title track,
oltre 8’ e mezzo di riassunto di tutte le influenze fino a quel momento
espresso, chiude in bellezza 40’ di notevole valore.
Voto: 8+
Passano appena due anni e i
Nostri alzano il tiro con “Love Exchange
Failure”. Produce sempre la francese Debemur
Morti Productions e questa volta gli ucraini sbattono in copertina (anziché
loschi figuri in palandrana, in un sentiero in mezzo al bosco e col volto
coperto da una maschera bovina), un panorama metropolitano all’imbrunire, molto
ulveriano...
L’incipit della splendida title track stavolta non ci scompone: sappiamo cosa aspettarci dagli ucraini (che, nel frattempo, da sestetto sono diventati quartetto e, di questi 4, ben due sono new entry). Il dolce intro di pianoforte e sax, dopo 3’ e mezzo, lascia sfogo ad un’accelerazione black devastante. Il prosieguo è quel mélange di sfuriate black, screaming old-style, sottofondo di tastiere mai invadenti, decelerazioni repentine accompagnate da pianoforti, inserti di sax (a volte dissonanti e a tratti melliflui), arpeggi elettrificati…and many more!
Insomma,
tutto l’ambaradàn che avevamo conosciuto con il debut qui viene riproposto, in
forma più equilibrata (vedasi la meravigliosa “Poisonous flowers of violence”)
ma anche più dilatata (3 brani su 7 sono sui 12’). Passando da un linguaggio
comunque black, per quanto atmosferico e sperimentale, a uno di stampo più
extreme in senso lato. A prodigiuos collision of intoxicating black metal
ferocity and late-night atmospheric jazz: questa è la frase con la quale viene
pubblicizzato il disco e tutto sommato, nonostante queste frasi promozionali
auto-incensanti non ci piacciano, non si discosta tanto dalla realtà…
Se proprio dobbiamo trovare un
difetto, allora lo individuiamo in qualche autoindulgenza di troppo, la sensazione
che la band voglia sottolineare a tutti i costi quanto siano innovativi,
originali e quanto la parte jazzata del loro sound sia “importante”. Vedasi “No
cure for pain” che (ab)usa dell’espediente intro soffuso/sparata blackish, la strumentale “Shelter” (un titolo, un
programma) o la ruffiana “Surfaces and depths”, una finissima jazz/blues/metal
song per sola voce femminile.
Per carità, il songwriting rimane
comunque di alta qualità, l’ascolto è più che piacevole, a tratti esaltante, le
canzoni reggono il precario equilibrio dei vari “pezzi” miscelati assieme. Ma,
personalmente, preferivo qualcosa di più stringato (si passa dai 40’ di FR ai
67’ di questo LEF), di più essenziale; come se ci fosse qualcosa di artefatto,
meno spontaneo rispetto al prodigioso debut.
Ma sono considerazioni/sensazioni
che non inficiano il risultato finale.
Voto. 7,5
Insomma, per tutto quanto detto
sopra, non ci sembra esagerato affermare che, anche senza aspettare il fatidico
terzo album, i White Ward sono stati capaci di scrivere una nuova, originale,
pagina al Grande Libro del (Black) Metal!
A cura di Morningrise