15 lug 2021

VENTICINQUE ANNI DI ROMANTICISMO ED INTROSPEZIONE: RETROSPETTIVA SUGLI EMPYRIUM

 


Chi si è imbattuto per la prima volta negli Empyrium nell'anno di grazia 2021 con il singolo “The Three Flames Sapphire”, peraltro corredato da un videoclip veramente ben fatto, sarà sicuramente rimasto interdetto (piacevolmente interdetto) dagli sviluppi del brano: un bel folk dalla spiccata verve percussiva, magie acustiche e voce baritonale nella prima parte, chitarre shoegaze e persino un affilato screaming nella seconda. Se le impressioni all'inizio rimandano a quella corrente nordic-pagan-folk (o chiamatela come diavolo vi pare) oggi tanto in voga grazie al successo degli oramai celebri Wardruna, con il prosieguo del brano i legami con il metal, e con il black metal in particolare, divengono evidenti. 

La verità è che “Über den Sternen”, ultimo parto discografico in casa Empyrium, rappresenta una sorta di chiusura del cerchio di una carriera venticinquennale: un percorso avviato un quarto di secolo fa (proprio il 15 luglio del 1996 vedeva la luce il debutto “A Wintersunset...”), muovendo i primi passi nel metal estremo per poi imboccare la strada del folk tout court. Un cammino imprevedibile, quello della band tedesca, che oggi ritorna inaspettatamente a ripescare gli umori di una clamorosa doppietta di album editi negli anni novanta che sembravano oramai un lontano ricordo... 

Gli Empyrium nascono nel 1995 ed esordiscono discograficamente l’anno successivo con il sopra citato “A Wintersunset...” (1996). La copertina incornicia un paesaggio di natura incontaminata ritratta in accesi colori pastello. In questa suggestiva immagine vengono suggerite le caratteristiche fondanti della poetica della band di stanza a Hendungen, Baviera: fiero romanticismo di marca teutonica, infatuazione per la natura, forte vocazione introspettiva. Elementi che si traducono in un sound che si pone a metà strada fra gothic/doom e black metal, ma un black metal che sta ben attento a tenere il piedino lontano dall’acceleratore. 

Markus Stock, in arte Schwadorf, oltre a farsi carico di tutti gli strumenti, è anche abile dietro al microfono, dividendosi fra un teatrale pulito e uno screaming tagliente, fondamentale anello di congiunzione con l’universo black metal, con cui si condivide anche lo stretto legame con il paesaggio ed un nostalgico sguardo al passato. Composizioni assai lunghe ed articolate mettono al centro di tutto la melodia, di cui si imbevono le trame delle onnipresenti tastiere, ammaestrate dall’altro membro del duo, Andreas Bach

La resa finale è ancora acerba e i rimandi al panorama gothic/black dell’epoca frequenti (il pulito di Schwadorf ricorda quello di Fernando Riberio dei Moonspell, i brani mostrano affinità stilistiche con My Dying Bride, Katatonia, i primissimi Arcturus), ma è musica, questa, di gran cuore, e anche fra le mille ingenuità sono chiare le enormi potenzialità della band. 

Allargatosi a trio con l’aggiunta di Nadine Molter a flauto e violoncello, i Nostri avranno modo di perfezionare la propria formula con il superlativo “Songs of Moors & Misty Fields” (1997), vero e proprio capolavoro di questa prima fase artistica. Una traccia introduttiva e cinque brani considerevolmente lunghi ricompongono le intuizioni del lavoro precedente in modo organico attraverso un sound più concreto ed una capacità compositiva ulteriormente accresciuta che permette a questi brani di saper alternare pieni e vuoti, poesia e ferocia in modo fluido, come non era stato possibile fare in precedenza. 

Al centro della scena vi è ancora una volta la voce versatile di Schwadorf, sorretta da impalcature sonore che, senza perdere la ruvidità del black metal, sanno amalgamare con maestria passaggi di un certo spessore strumentale, con chitarre e tastiere che si intrecciano in struggenti melodie ed una controparte ritmica per nulla elementare (sempre pregevole il lavoro alle pelli del factotum Schwadorf). Questo gioiello di epic black metal, in verità, fugge da ogni tipo di catalogazione, sforando volentieri in terreni gothic e folk, finendo per fornire importanti suggerimenti per gli sviluppi del black metal atmosferico che verrà.

Raggiunto l’apice di un certo tipo di approccio, si deciderà inaspettatamente di voltare pagina ed esplorare altri mondi sonori. La svolta si ha dunque con il successivo “Where at Night the Wood Grouse Plays” (1999), che in un sol colpo si lascia alle spalle l’intero universo metal per abbracciare in toto la dimensione folk: una mossa analoga a quella compiuta qualche anno prima dagli Ulver del seminale “Kveldssanger”, a cui Schwadorf, oramai rimasto solo al comando della nave, si ispira in modo dichiarato. 

In poco più di mezzora, il dark-folk dei nuovi Empyrium è coerente con lo spleen decadente che aveva animato i due "predecessori metallici", incentrandosi su una ghost story che vede protagonista una misteriosa fanciulla fantasma, il tutto calato nello scenario di un magico notturno forestale: una atmosfera intima e crepuscolare che solo la dimensione acustica può restituire in tutto il suo fascino, fra chitarre arpeggiate, il canto oscuro di Schwadorf e il flauto della confermata Nadine Molter. 

Le intuizioni che già rendevano questo lavoro imperdibile, si tradurranno in modo compiuto in quello che è da ritenere il capolavoro di questa seconda fase artistica, “Weiland” (2002), ove gli Empyrium tornano ad essere un duo, con la new entry Thomas Helm (destinato poi a divenire membro stabile del progetto) al pianoforte ed alla voce. La sua voce, più tesa, quasi tenorile (che già era comparsa nel lavoro precedente), qui acquisisce spazi crescenti, fondendosi alla perfezione all’avvolgente recitato di Schwadorf. Rispetto al minimalismo del predecessore, qui i brani appaiono maggiormente orchestrati ed arrangiati, sia grazie alle qualità di polistrumentista di Schwadorf (sempre attento ai dettagli, inclusi quelli di una intelligente ricerca ritmica) che alla bravura dietro ai tasti d’avorio di Helm. 

Brani più brevi questa volta (ben dodici di cui tre strumentali) a descrivere gli struggimenti di un inquieto mondo interiore, adesso modellato attraverso chitarre arpeggiate, lacrimevoli partiture di pianoforte e le carezze degli archi e dei fiati messi a disposizione da ben quattro ospiti. Un suono aspro, fiero, scosso da una verve teatrale e da repentini cambi di umore, rinvigorito da quell’esasperato romanticismo che trova spazio nella poetica dei Nostri fin dagli esordi. In un paio di frangenti torna persino lo screaming: scelta insolita se si pensa alla impalcatura pressoché acustica dell’album, ma volta a non recidere del tutto il cordone ombelicale con il metal estremo, cosa che non avverrà mai del tutto. “Weiland”, al di là delle possibili catalogazioni, è da annoverare fra i più ispirati esempi di neo-folk di matrice teutonica, accanto ai lavori di act quali Orplid, Forseti, Sonne Hagal e Darkwood

Schwadorf dichiara a questo punto conclusa l’esperienza Empyrium, sciogliendo di fatto il progetto che sembra aver esaurito il suo percorso artistico. Fortunatamente non è stato cosi. Prima, a mantenere accesa la fiammella della memoria, ci ha pensato l’etichetta Prophecy con una bella compilation commemorativa, “A Retrospective...” (2006), poi, a sorpresa, nel 2012 l’annuncio di un pronto ingresso in studio di registrazione da parte del duo. 

Come antipasto all'uscita discografica vera e propria, esce nel 2013 il bellissimo documento liveInto the Pantheon” dove i Nostri ripercorrono il loro repertorio coadiuvati niente meno che dalle chitarre di Neige (Alcest) ed Eviga (Angizia e Dornenreich), dal basso di Fursy Teyssier (Les Discrets), la batteria Allen B. Konstanz (Vision Black), il violino di Aline Deiner (Haggard) e il violoncello di Cristoph Kutzer: come se i discepoli si stringessero affettuosamente e devotamente intorno ai Maestri redivivi. Con questo spiegamento di forze, gli Empyrium tornano più in forma che mai, omogeneizzando brani provenienti da fasi artistiche diverse, facendo leva sulla forza melodica degli stessi, ma senza rinunciare a qualche assalto metallico (più che gradito). In più, un paio di brani inediti, che ritroveremo nel nuovo album “The Turn of the Tides”, pubblicato l’anno successivo, nel 2014. 

Il ritorno degli Empyrium avviene in pompa magna, con il provvidenziale tocco di mestiere che va a supportare una ispirazione comprensibilmente non più stellare: suoni puliti e profondi, arrangiamenti curati divengono il contenitore ideale per sette brani che sapranno espandere ulteriormente il sound dei Nostri nella direzione della world music dei tardi Dead Can Dance.  Darkwave, rock e folclore (non solamente nord-europeo) fusi in un caldo abbraccio, ma senza che si rinunci del tutto all’elettricità, che torna in diversi frangenti, strizzando l’occhio al blackgaze degli amici Alcest. Un fugace intervento di screaming diviene l'unico ricordo di un passato estremo, laddove Schwadorf e Helm (adesso stabile dietro alle tastiere) sono interessati principalmente ad allestire sontuosi paesaggi sonori e melodie più ariose che ottenebranti.  

Dopo uno iato di sette anni, eccoci dunque ad “Über den Sternen”, punto di arrivo di una carriera, si diceva, ma anche premessa per un nuovo inizio. I brani degli Empyrium targati 2021 sono sempre più complessi e raffinati: un folk che si spinge in territori prog, con le solite due voci ad intrecciarsi come da tradizione. Ma anche un ritorno senza indugi al metal, con chitarre elettriche ben in evidenza ed uno screaming che riemerge prepotente in più di una circostanza: un deciso atto di riappropriazione del proprio passato metal compiuto con sincerità ed ispirazione, senza gettare alle ortiche il percorso di evoluzione compiuto nell'arco di due decenni. Forse un’alchimia che a tutti non piacerà, questo folk spennellato di gothic metal, una formula che potrebbe deludere sia i fan della prima ora che coloro che si erano appassionati alla fase folk successiva, ma gli Empyrium brillano di un tale status di culto che permette loro di andare oltre i pregiudizi ed imporsi alla nostra attenzione con l’ennesimo lavoro di pregio della loro carriera. 

A Wintersunset...” (1996): voto 7 
Songs of Moors & Misty Fields” (1997): voto 9 
Where at Night the Wood Grouse Plays” (1999): voto 8 
Weiland” (2002): voto 9 
The Turn of the Tides” (2014): voto 7 
Über den Sternen” (2021): voto 8 

Playlist essenziale: 
1) “The Franconian Woods in Winter’s Silence” - “A Wintersunset...” (1996) 
2) “The Blue Mists of Night” - “Songs of Moors & Misty Fields” (1997) 
3) “Mourners” - “Songs of Moors & Misty Fields” (1997) 
4) “Where at Night the Wood Grouse Plays” - “Where at Night the Wood Grouse Plays” (1999) 
5) “The Shepherd and the Maiden Ghost” - “Where at Night the Wood Grouse Plays” (1999)
6) “Heimwarts” - “Weiland” (2002) 
7) “Waldpoesie” - “Weiland” (2002) 
8) “Dead Winter Ways” - “The Turn of the Tides” (2014) 
9) “The Days before the Fall” - “The Turn of the Tides” (2014) 
10) “The Three Flames Sapphire” - “Über den Sternen” (2021)