"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

12 lug 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: FROWNING

 

Sedicesima puntata - Frowning: "Funeral Impressions" (2014) 
 
Il rischio di scrivere su un genere come il funeral doom è quello di ripetersi. Abbiamo detto mille volte che il funeral doom è un genere bellissimo, dalle diversità di approccio impensabili, dalle milioni di sfaccettature ecc., ma poi alla fine, quando si va a descrivere questo o quel gruppo, si ricade nei soliti “tempi lentissimi”, “brani lunghissimi”, “growl cavernoso”, “umori funerei” ecc. Ed anche i Frowning non fanno eccezione al riguardo: nella loro musica si hanno umori funerei, un growl cavernosobrani lunghissimi e tempi lentissimi
 
Cosa dunque aggiungere per carpire la specifica cifra stilistica della one-man band tedescaPartirei dicendo che l’esordio “Funeral Impressions” (e come non trattare un album con un titolo cosi?) incontra ovunque i favori degli addetti ai lavori e in certe classifiche pubblicate in rete lo troviamo persino al di sopra di titoli ben più storici e seminali per il genere, nonostante il progetto, formatosi nel 2011, sia relativamente giovane. Vediamo cosa ha di tanto speciale. 

Esiste un funeral doom “colorato”, caratterizzato da un sound stratificato, progressivo, esuberante e spesso infarcito di tastiere ed orchestrazioni, ed un funeral doom grigio/nero più scarno e maggiormente incentrato sulle sei corde. I Frowning appartengono senz'altro a quest’ultima categoria ed in particolare alla sotto-categoria di coloro che hanno deciso di bypassare tutte le evoluzioni del gothic metal e certi tecnicismi tipici del death metal, per andarsi ad ancorare agli stilemi del doom tradizionale, quello di Black SabbathCandlemass e Solitude Aeternus
 
Il suono dei Frowning è affascinante, magnetico, sprigiona un che di arcaico che, sul fronte funeral, non può che far venire in mente i primi Esoteric (privati della loro componente psichedelica) o i connazionali Worship, con i quali le analogie sono molte. Ma se possibile qui il suono si fa ancora più arcano e misterioso. A brillare in ogni brano è l’ispirazione dei riff di chitarra, la vera mattatrice nella visione funerea di Val Atra Niteris - cosi si fa chiamare l’individuo dietro al progetto. 
 
A colpire di più è il dato anagrafico: tal Val Atra Niteris è infatti nato nel 1994, ma la giovane età (quando esordiva nel 2014 aveva solo venti anni) non gli impedisce di formulare un sound maturo ed equilibrato nelle sue componenti. Il Nostro, come prevedibile, non è Malmsteen, ma ha un bagaglio tecnico sufficiente che gli consente di confezionare brani con un loro perché ed un talento melodico che gli permette, con gusto e semplicità, di entrare nella storia del genere. Ad oggi il progetto conta tre album, ma la gloria del monicker rimane ancora legata all’imperdibile disco di esordio, uno di quegli album che ti vengono una volta nella vita.
 
Partiamo dal contorno: le tastiere ci sono, ma sono ben poca cosa nell’economia del suono, appaiono sporadicamente ma soprattutto sono lasciate in secondo piano nel mixaggio, chiamate ad enfatizzare il potenziale drammatico di qualche passaggio. Fa eccezione la breve introduzione, di solo organo: un suggestivo invito a farsi avanti nelle ambientazioni cimiteriali già ritratte, a scanso di equivoci, nella copertina. 

Per la cronaca: tolto l’intro di un minuto e mezzo, i restanti sessanta minuti sono spartiti fra sei brani, la cui considerevole durata onora gli standard tipici del genere. Ma proseguiamo con la descrizione dell'album. 
 
La batteria fa il suo dovere senza mai sbilanciarsi: non ci troviamo - dio-ce-ne-scampi - nella situazione del "battito per minuto", ma essa si limita ad accompagnare il languore delle chitarre, sfuggendo ogni protagonismo e con qualche variazione ritmica che in maniera subdola è funzionale alla scorrevolezza dei brani, ma non atta a colpire l’attenzione dell’ascoltatore. 

Quanto alla voce, il growl è sicuramente espressivo, tocca livelli di disperazione importante, ma senza mai scomporsi, e con quel che di corrosivo in più che è tipico del funeral doom. La voce si prodiga anche in qualche timido recitato o vocalizzo etereo spalmato in sottofondo a gettare ulteriore mestizia nel mucchio. 
 
Eccoci dunque alle chitarre: il riffing, si diceva, è debitore di uno stile classico e si fa portatore di una bellezza ancestrale rinvigorita, in modo intermittente, da linee melodiche di chitarra solista che, mai invadente, snellisce il pacchetto, richiamando certe cose dei primi Paradise Lost. E’ attraverso le chitarre che l’album si evolve, fra epici power chords, desolanti interludi arpeggiati e lente ed incespicanti cavalcate: momenti interlocutori che hanno lo scopo di trattenere il pathos e rilasciarlo con lunghe e solenni sinfonie dell’afflizione
 
Vi sono anche gli utili diversivi, come il fantastico assolo in coda a “Day in Black” che si approssima a territori pinkfloydiani, o la voragine ambientale che si apre ad un certo punto in “Murdered by Grief” (quindici minuti!), con campane a morto, lugubri tastiere e pioggia in sottofondo (da menzionare anche la chiusura affidata al pianoforte). Da applausi, infine, il violoncello nella conclusiva “A Way into Relief” con uno di quei finali che strapperebbe la lacrima anche ai più duri di cuore: probabilmente fra i più intensi momenti che il genere abbia saputo offrire. 
 
Insomma, vi sono album che fanno la storia perché aprono nuove vie, e poi ci sono gli album semplicemente belli ed ispirati: questo è il caso di “Funeral Impressions”, una perla nera che ogni estimatore di funeral doom dovrebbe custodire gelosamente nella propria collezione.