Come quando bevi
un caffè al bar dopo le elezioni politiche e nessuno ha votato Berlusconi; come
quando senti casino ed entri in classe, ma non è stato mai quello che indichi;
come quando parli di Metal e nessuno ammette di ascoltare Malmsteen.
Noi invece lo ascoltiamo. E con attenzione.
Noi invece lo ascoltiamo. E con attenzione.
Proprio avantieri il guitar hero di Stoccolma ha compiuto 55 anni. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicargli un'intera settimana di post, con una Retrospettiva ragionata, una guida attraverso una serie di dischi (quelli dopo i classici), partendo da “Alchemy” (1999).
Non si può leggere su Malmsteen senza sorbire le solite diatribe, chi lo odia e
chi lo difende come un tifoso accanito, ma di sostanza poca. Le recensioni sono
sempre le stesse, ma i dischi non sono così identici come una parte della
critica ci vuol far credere. È normale che ci siano assoli al fulmicotone,
cavalcate neoclassiche e soluzioni barocche, altrimenti non parleremmo di
Malmsteen.
“Alchemy” arriva a 68 minuti di musica ricca di soluzioni: il power metal di “Hangar 18, Area 51” (titolo da denuncia peraltro) o il blues di “Blue” o la cupa “Voodoo Rights”, senza dimenticare che la presenza di Mark Boals alla voce trasmette energia. Quello stesso sprint che Mark dava ai Royal Hunt nel periodo in cui è stato dietro al microfono, anche se con Yngwie si sposano meglio le sue corde vocali.
Non mi spiego perché Malmsteen dia a tutti i suoi dischi questo sound poco limpido, soprattutto alle ritmiche. Sembra che siano così tante le note suonate al fulmicotone che implodano tra loro in un vortice; magari è una mia impressione, però i suoni non quadrano mai come dovrebbero.
È questo il penultimo disco con il tastierista Mats Olausson, una figura che è stata una delle più fedeli a Yngwie e sopportare Malmsteen per un decennio non è semplice. Sarà un caso che è morto nel 2015? Forse lo stress di sentire il rombo delle Ferrari o suonare in un ambiente leopardato, lo ha fatto ammalare...
Come biasimarlo d’altronde, se pensate che nel decennio dei suoi album ha visto passare sei cantanti (Edman, Boals, Vescera, Soto, Turner, Leven) e avrà udito le lamentele stizzite di Yngwie su questo o quel vocalist. Come quando Zamparini parla degli allenatori che ha esonerato a Palermo, così Malmsteen colleziona cantanti senza curarsi di niente se non di se stesso.
Il disco riprende il marchio Rising Force che peraltro non ho mai associato ad uno stile particolare o una formazione, ma solo ad un capriccio del nostro e contiene buone cose nel complesso.
Si può dire che è uno degli ultimi dischi che vale la pena ascoltare e che contribuisce ad arricchire il metal neoclassico, anche perché dopo ci sarà poco da salvare.
Della ripetitiva galassia malmsteeniana questo è uno dei dischi che ascolto e riprendo con piacere, non da consigliare a chi non sopporta Yngwie ma uno dei più apprezzabili per ispirazione e (scusate la parola) varietà.
“Alchemy” arriva a 68 minuti di musica ricca di soluzioni: il power metal di “Hangar 18, Area 51” (titolo da denuncia peraltro) o il blues di “Blue” o la cupa “Voodoo Rights”, senza dimenticare che la presenza di Mark Boals alla voce trasmette energia. Quello stesso sprint che Mark dava ai Royal Hunt nel periodo in cui è stato dietro al microfono, anche se con Yngwie si sposano meglio le sue corde vocali.
Non mi spiego perché Malmsteen dia a tutti i suoi dischi questo sound poco limpido, soprattutto alle ritmiche. Sembra che siano così tante le note suonate al fulmicotone che implodano tra loro in un vortice; magari è una mia impressione, però i suoni non quadrano mai come dovrebbero.
È questo il penultimo disco con il tastierista Mats Olausson, una figura che è stata una delle più fedeli a Yngwie e sopportare Malmsteen per un decennio non è semplice. Sarà un caso che è morto nel 2015? Forse lo stress di sentire il rombo delle Ferrari o suonare in un ambiente leopardato, lo ha fatto ammalare...
Come biasimarlo d’altronde, se pensate che nel decennio dei suoi album ha visto passare sei cantanti (Edman, Boals, Vescera, Soto, Turner, Leven) e avrà udito le lamentele stizzite di Yngwie su questo o quel vocalist. Come quando Zamparini parla degli allenatori che ha esonerato a Palermo, così Malmsteen colleziona cantanti senza curarsi di niente se non di se stesso.
Il disco riprende il marchio Rising Force che peraltro non ho mai associato ad uno stile particolare o una formazione, ma solo ad un capriccio del nostro e contiene buone cose nel complesso.
Si può dire che è uno degli ultimi dischi che vale la pena ascoltare e che contribuisce ad arricchire il metal neoclassico, anche perché dopo ci sarà poco da salvare.
Della ripetitiva galassia malmsteeniana questo è uno dei dischi che ascolto e riprendo con piacere, non da consigliare a chi non sopporta Yngwie ma uno dei più apprezzabili per ispirazione e (scusate la parola) varietà.
Voto: 7+
Canzone top: “Asylum”
Momento top: la parte centrale di “Legion of The damned”
Canzone flop: “Wield My Sword”
Dati: 11 canzoni, 68 minuti
Dati: 11 canzoni, 68 minuti
Etichetta: Canyon International