"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

4 dic 2022

E' TORNATO IL RE! LA RECENSIONE DI "LIGHTWORK" (D. TOWNSEND)

 


Il bello di un genio artistico come quello di Devin (o il brutto, a seconda da che punto di vista si guardi la faccenda) è che anche quando pensi di conoscerlo ormai a fondo, quando ti pare di aver introiettato ogni piega del suo stile musicale e aver messo un punto fermo nel tuo rapporto personale con lui (tanto da scriverne una Retrospettiva 'totale' che mirava a sviscerare ogni aspetto della sua musica) ecco che l’uscita discografica successiva mette in discussione tutte le certezze fin lì acquisite.

Era accaduto in maniera plastica con l’incredibile “Empath” nel 2019, disco che avevamo definito impossibile per il suo songwriting spiazzante, bislacco, iper-colorato; sicuramente diverso da qualsiasi cosa ascoltata in precedenza nella discografia del Nostro.

Ora esce questo “Lightwork” e, memori dell’esperienza di appena tre anni fa, ci approcciamo ad esso con maggior cautela, privi di paraocchi e, volutamente, senza aver letto o ascoltato interviste e commenti in rete, consci che il platter potrebbe contenere letteralmente qualsiasi cosa.

Tra “Empath” e “Lightwork”, in mezzo, c’è stata una pandemia che ha sconvolto il Pianeta e anche Devin, come lui stesso ha dichiarato più volte, non ne è stato emotivamente immune. Ma il canadese, affetto dalla consueta bulimia compositiva, durante questi tre anni non è rimasto con le mani in mano, pubblicando una marea di materiale. Due album live (“Devolution Series#1 e #2), il secondo dei quali, denominato “Galactic Quaratine”, è la registrazione di un concerto virtuale, svolto in studio non potendo realizzarlo on stage; e altri due full lenght (“Snuggles” e “The Puzzle”) per un’ora e mezza della “vecchia fissa” di Townsend, cioè l’ambient sperimentale; dischi dei quali Townsend pare vada molto fiero, che dovevano fungere da “preludio a un album più tradizionale” (cit.).

Ed eccolo qui l’album più tradizionale che, di tradizionale, ha ben poco. Riprendendo qualche influenza di “Empath” (ascoltare l’incredibile incipit di “Heavy Burden”, un brano fuori da ogni logica stilemica) D.T. ci propone ancora una volta qualcosa di totalmente diverso dalla sua precedente produzione, mettendo assieme quasi un’ora di rock sopraffino. L’armamentario metal viene messo quasi completamente da parte, facendo capolino qua e là, per abbracciare in toto un rock dalla vena progressiva e fortemente influenzato dall’elettronica, altro storico 'pallino' del Nostro. La stratificazione sonora, suo marchio di fabbrica, permane ma all’interno di un songwriting più lineare rispetto al passato, con un uso sistematico della ‘forma canzone’ che rende più accessibile il tutto (finalmente!). Un’accessibilità, ovviamente, lontana anni luce dall’easy listening; anzi, al primo ascolto dei singoli pubblicati a fine estate/inizio autunno, cioè “Moonpeople”, “Call of the Void” e “Lightworker”, sono rimasto piuttosto spiazzato. Ma, a differenza di “Empath”, che si rivelava come un capolavoro al ventesimo ascolto, qui, già dal terzo, ci pare di essere dentro l’anima dell’opera. Un’anima positiva, rilassata, seppur non esente da un'ombra di malinconia, peraltro mai soverchiante. 

Non mancano momenti più articolati e sperimentali, come nella splendida accoppiata centrale “Heartbreaker” - “Dimensions”, prima che la sognante “Celestial Signals” ci riporti sui terreni più facilmente “calpestabili” conosciuti nella prima parte dell'opera. E poi: esplosioni di colore, nervature ambient/noise, calde freddezze synth-wave, ‘svisate’ jazzy, ballate dream pop (“Vacation”) e suite-mondo in cui l'Autore possa convogliare tutta la sua sensibilità (la conclusiva “Children of God”). Ma, al di là di uno sterile track-by-track, “Lightwork” è un‘esperienza da godere tutta d’un fiato, con apertura mentale, senza etichette e ‘cassetti mentali’ in cui cercare di inquadrare il flusso sonoro che sgorga dai nostri lettori cd.

Insomma, che HeavyDevy paresse aver risolto il suo vecchio bipolarismo ci sembrava chiaro già dal meraviglioso “Sky Blue” del 2014; qui non fa che confermare la sua positività e il suo ‘lato solare’, vergato a tratti da esuberanze rabbiose e violente o da una vena malinconica che l’ennesima, immensa prova vocale del canadese sottolinea nei momenti giusti.

È davvero incredibile, in definitiva, come questo signore riesca, ad ogni sua pubblicazione, ad esprimere in modo così potente da un lato le sensazioni e le emozioni della sua personalità, fotografate in un preciso momento della sua esistenza, e dall’altro il suo instancabile e insaziabile slancio di ricerca musicale. Contemperando un approccio di urgenza comunicativa con una metodicità e precisione maniacale per i dettagli.

Più invecchia, più migliora il nostro Devin. Capace di spostare sempre un po’ più in alto l’asticella della sua Arte Musicale. E, con essa, quella del Metal (e non solo...) contemporaneo.

Uscita dell’anno. Gli altri si accodino, please

Voto: 8,5

Canzone top: “Heartbreaker”

Momento top: l’incipit ‘giunglesco’ e l’uso delle backing vocals in “Heavy Burden”

Canzone flop: nessuna

Etichetta: InsideOut Music, anno 2022

Dati: 10 tracce, 56’

A cura di Morningrise