14 giu 2023

PRIMA DEL FUNERAL DOOM: UNHOLY



Meno due: Unholy - "From the Shadows" (1993)

La Finlandia è la terra per eccellenza del funeral doom, e non solo perché ha dato ufficialmente i natali a queste sonorità. Thergothon (considerati gli iniziatori del genere), Skepticism e Shape of Despair sono nomi innanzi a cui un cultore del funeral doom si deve solo inchinare. Ma prima che queste oscure entità facessero la loro comparsa su questo mondo, un’altra eminenza del doom estremo slabbrava i confini del Consentito fra tundra e aurore boreali: gli Unholy

Nati dalle ceneri degli Holy Hell ed attivi dal 1990, già dai primissimi passi i Nostri sembravano avere le idee molto chiare in merito agli umori da trasporre in musica: demo dai titoli come "The Procession of the Black Doom" (1990), "Slow Doom Death Rehearsal" (1991) e "Trip to Depressive Autumn" (1992) sono eloquenti al riguardo e in gran parte confluirono nell'album di debutto targato 1993 "From the Shadows", di cui oggi parleremo. 

Dalle ombre provennero e nelle ombre tornarono. Se i Nostri non fossero dei geni della musica, quasi li potremmo etichettare come sgradevoli. Per entrambi questi fattori (la genialità anticipatrice e la sgradevolezza), spesso cagion di fraintendimento da parte del pubblico, gli Unholy andarono incontro allo sciogliemento dissolvendosi dopo quattro album fenomenali rilasciati fra il 1993 e il 1999. Inevitabile la loro postuma rivalutazione, soprattutto alla “luce” (ehm) del “successo” (ehm-ehm) del funeral doom di cui sono oggi considerati precursori, senza però mai aderire ai canoni del movimento in senso stretto. 

Bene, ora che gli Unholy sono stati doverosamente tributati, fatemi sfilare di dosso la maschera dell’intenditore (quale non sono): ad un certo punto della vita mi capitò tra le mani il cd di “From the Shadows”, ma feci anche presto a disfarmene. La proposta era indubbiamente ostica e le sensazioni di negatività ed estraniazione abbandonavano nel platter, anche per uno scafato cultore della musica estrema quale ero già all’inizio degli anni novanta. Ma non biasimo me stesso: in un'era del metal in cui dominavano Paradise Lost e My Dying Bride, che tipo di appeal potevano avere gli Unholy, fastidiosi fin dalla copertina e dalle foto promozionali? 

La copertina, anzitutto, mi parve davvero qualcosa di insulso, limitandosi a ritrarre la foto di una statua (non capisco bene di quale civiltà antica) di una donna accovacciata che sostiene un piccolo corpo esanime. Io poi ho sempre mal digerito gli accostamenti di immagini in bianco e nero con le scritte rosse (ma questo è un problema mio). Se oggi sono pronto a riconoscere che essa sia almeno un po' inquietante nella sua scarna semplicità, niente mi può portare a rivalutare la foto del gruppo che era contenuta nel libretto del cd: in essa i Nostri sembravano un sorta di squadra infernale di pompieri, dove il front-man, in prima fila, indossava un improbabile impermeabile con cappuccio che cattura l'attenzione vanificando gli sforzi di contrita sofferenza sfoggiata dagli altri componenti della band. 

Fosse stato solo quello il problema, avremmo anche potuto soprassedere, ma anche l'ascolto suscitava reale angoscia, sia per l'eccessiva esasperazione dei toni (in anni in cui il depressive black metal non esisteva ancora), sia per una certa irrazionalità di fondo che caratterizzava la scrittura dei brani. I Nostri non brillavano né per classe né per eleganza (se rapportati ai grandi nomi del doom-death), ma, come si diceva sopra, erano custodi di una certa genialità in cui possiamo riconoscere i maestri Celtic Frost come una indubbia fonte di ispirazione per la band. 

Gli Unholy, infatti, erano promotori di una proposta di difficile categorizzazione. Se i tempi lenti e la pesantezza delle chitarre (e del basso!, ben presente nel mixaggio) riconducono indubbiamente alla dimensione del doom, vi sono almeno altri due fattori che rendono unico il sound della band. Il primo fattore è una certa componente progressiva che – prendete con le pinze quello che sto affermando – anima la musica dei Nostri, orientati ad una scrittura libera, fatta di continue contorsioni e colpi di scena, il tutto condito dagli interventi delle tastiere: una presenza misurata ma incisiva nel momento in cui esse vengono utilizzate. L’altro fattore, di contro, è un certo marciume nichilista che invece li avvicina a certe atmosfere più prettamente black metal: impressione avvalorata dal canto sgraziato e disperante di Pasi Aljo, settato principalmente su un growl sopra le righe e sfociante, a volte, in uno screaming raggelante. 

Si parla, del resto, di un periodo in cui il metal estremo tentava vie nuove in un contesto poco standardizzato: se usciva qualcosa di buono, quello diveniva presto un nuovo genere. Se invece cagavi palesemente fuori dal vaso, il tuo operato sarebbe stato guardato con diffidenza per poi essere rivalutato successivamente. E quest'ultimo, si diceva, è il caso degli Unholy. Per sondare i limiti dell'Estremo c'è bisogno del physque du role (Chuck Schuldiner per esempio il "fisico" ce l'aveva), ma se sei "gracile" (tanto per rimanere nella metafora), per raggiungere certi risultati hai bisogno di sforzarti. E la musica  degli Unholy sembra continuamente sotto sforzo, spompata, con il fiato corto, ma è proprio per questa condizione di alterazione psichica e fisica costante che un lavoro come “From the Shadows” suona così sgradevole. 

Gli Unholy erano indubbiamente eccessivi per l'epoca, ma l'effetto veniva in parte mitigato (o anche alimentato, dipende dal punto di vista) da spunti e soluzioni inaspettate: improvvise aperture di tastiere, inserti di chitarra acustica disseminati qua e là in brani in genere abbastanza lunghi (la media è di sette minuti) che procedono senza dare punti di riferimento all’ascoltatore. Nel complesso i sessantadue minuti di “From the Shadows” sembrano svilupparsi come un tutt’uno, tanto che l’album potrebbe essere scambiato per una lunga suite

Si pensi ai primi tre brani: l’openerAlone” apre le danze all’insegna di un doom orrorifico marchiato a fuoco dai conati corrosivi di Aljo, una sorta di Van Drunen sotto tortura (ed è tutto dire...), ma ecco che nel finale della traccia spuntano spiazzanti inserti atmosferici, dico spiazzanti perché sono ariosi, sognanti, in totale opposizione al sound massiccio e pietroso della band. Il secondo brano “Grey Blue” è aperto da un organo maestoso e si fregia della inquietante voce di Tanja “Die Schone” Wehsely (la cantante presterà la sua ugola anche ad altri brani del platter): un procedere sinuoso, ipnotico, quasi psichedelico, spezzato sovente dalle agghiaccianti grida di Aljo, qua molto vicino a certo depressive black che verrà. La terza traccia “Creative Lunacy” mescola nuovamente le carte disseminando qualche blast-beat a caso fra le pieghe di riff catramosi e fughe di tastiere spettrali. 

Nei momenti più cruenti, la musica degli Unholy delle origini sembra essere la diretta emanazione delle aberrazioni sonore dei maestri Hellhammer (si abbia in mente un brano come "The Triumph of Death"), ma per chi avesse lo stomaco per sopportare la scorza dura di questo sound così monolitico da un lato e – paradossalmente – straniante e ricco di variazioni dall’altro, potrà trovare grandi soddisfazioni. Per quanto riguarda la nostra rassegna, stralci di funeral doom sono rinvenibili nei momenti più affossanti dell'opera, nello specifico in episodi come “Stench of Ishtar” e “The Trip was Infra Green”, incarnanti un binomio lentezza/pesantezza davvero inedito per i tempi. 

Gli Unholy non si ripeteranno ed alimenteranno la loro folle esplorazione della materia estrema con il successivo “The Second Ring of Power” (1994), dove verranno approfonditi sia il lato più sperimentale (con divagazioni psichedeliche e progressive a volontà) che la componente black metal (tanto che il tomo sarebbe divenuto un caposaldo del filone doom/black). L'album è anche considerato il capolavoro della band e senza dubbio costituisce il miglior modo per approcciarsi per la prima volta ad una entità così estrema ed irrazionale (geniale?) come gli Unholy. 

E' indubbio, tuttavia, che i fumi nefasti esalati dalle nove tossiche composizioni di "From the Shadows" costituiranno una inebriante forma di influenza per tutti coloro che, di lì a breve, vorranno approfondire ulteriormente la dimensione della lentezza nel metal estremo.