Questo è stato l’acuto commento del nostro Dottore al primo ascolto di “Umbra”, secondo full lenght, uscito lo scorso ottobre, del four-piece inglese Gévaudan (in rete potete conoscere la storia cui si riferisce questo termine francese, anche se, dalla copertina del disco, si intuisce già...)
Che il Metal si sia da sempre
cimentato con dischi composti, formalmente, da un unico brano (in una sola traccia oppure con una divisione ‘fittizia’ in più movimenti) è cosa nota. Gli
esempi si sprecano ma per lo più li ritroviamo in ambito progressive, con qualche
notevole eccezione (di getto mi vengono in mente “Crimson” degli Edge of Sanity o “Natasha” di quei matti dei Pig Destroyer). Ne ritroviamo qualche esempio
anche in ambito atmospheric o depressive BM mentre molti sono i casi di one-song
album anche in ambito rock, drone o ambient. Ma questo ci pare quasi una
normalità.
Ma nel doom…caspita, dischi doom
con una sola canzone…l’esperimento più vicino che mi sovviene è il superbo
“Mirror Reaper” dei Bell Witch. Ma anche lì il combo americano aveva comunque
diviso l’opera in due lunghe suite.
La band dell’Hertfordshire invece
no: ci propone direttamente 43’ di epicissimo doom metal che prende a
piene mani dalla migliore tradizione europea (Candlemass, Anathema) e americana
(Pallbearer, YOB).
Ma, rimanendo nella campagna
inglese, il primo gruppo che ci viene in mente appena parte il primo,
immaginifico, riff portante di “Umbra” (e la voce, pulita e teatrale,
dell’ottimo Adam Pirmohamed lo cavalca) sono i mai-troppo-ricordati
Warning, da Harlow (Essex). Appena mezz’ora di macchina da Hertford. E con
cui i Nostri hanno davvero parecchie cose in comune, oltre alla provenienza; a
partire da un dolente espressionismo dei sentimenti.
Dopo una breve intro rumoristica,
sorta di ouverture, “Umbra” si sarebbe potuto dividere, come su accennato,
anche in 4-5 movimenti perché gli umori variano molto man a mano che il tempo scorre: dopo i primi 10’ di
doom più ‘canonico’, abbiamo un rallentamento che ci guida, al minuto 13, ad
una sospensione in cui si odono solo brevi accordi ripetuti (certe soluzioni
dei primissimi My Dying Bride escono immediatamente dai cassetti della nostra
memoria) su cui si innestano i versi sofferti e soffusi di Pirmohamed. Poesia
pura…
Nota di merito per il ‘blocco’
che parte al minuto 27’. E, se non vi inginocchiate in lacrime qui, allora non
so davvero cosa possa commuovervi…
Non si fanno mancare neppure
sezioni psych-prog, i Gévaudan, come quella al minuto 30 che poi, al minuto 33,
si scioglie in un solo piano, luttuoso all’inverosimile, che rimanda
alla migliore tradizione doom inglese, prima che, come-suite-vuole, la coda
finale di circa 7’ vada a recuperare il tema portante con cui “Umbra” era
cominciato.
Non siamo, in definitiva, a un
disco rivoluzionario per il doom. Tutt’altro. La band è pienamente, e direi
fieramente, immersa nella tradizione (per chi vuole del doom davvero
innovativo, si vada ad ascoltare i nostrani Messa e il loro ultimo,
straordinario, “Close”). Ma l’urgenza comunicativa con cui scriviamo
questo post è dovuta proprio alla qualità straordinaria di questi tre quarti
d’ora che scivolano via davvero in un batter di ciglia.
Un disco di grandezza funerea,
tristezza epica, monumento alla melodia senza speranza.
È il doom, appunto. Capace, nel
suo "non voler comunicare niente a nessuno", di comunicare come pochi altri
generi metal sanno fare…
Voto: 8,5
Etichetta: Meuse Music
Records
Dati: 1 canzone, 43’, anno
2023
A cura di Morningrise