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19 mar 2024

NAPALM DEATH & FRIENDS: CAMPAIGN FOR MUSICAL DESTRUCTION (LONDON, 08/03/2024)


 
Ridendo e scherzando sono più di trent'anni che la "Campagna per la Distruzione Musicale" dei Napalm Death va avanti: mi riferisco al Campaign for Musical Destruction Tour che li vede protagonisti e decisamente in buona compagnia, di volta in volta accompagnati da esaltanti realtà, vecchie e nuove, del metallo più oltranzista (emblematica l'edizione del 1992 con Carcass, Cathedral e Brutal Truth!).
 
Con ostinata perseveranza e dedizione alla causa i padrini del grindcore, dunque, portano avanti la loro crociata votata all'assalto sonoro più annichilente, ma questa volta a spingermi ad immolare le mie orecchie sull'altare della brutalità (peraltro nemmeno una settimana dopo aver partecipato al Celestial Darkness Festival!) non è tanto la presenza degli stessi Napalm Death (sempre graditi, ma visti dal vivo di recente), quanto i nomi di Pig Destroyer, Primitive Man e Wormrot che campeggiano bellamente sul manifesto. In un certo senso, l'evento diviene un viaggio spazio-temporale nella storia del grindcore, con ben tre generazioni (e tre continenti) a confronto! 
 
I Napalm Death (inglesi di Birmingham, esponenti della vecchia Europa) non hanno certo bisogno di presentazioni essendo stati tra i fondatori e primi alfieri del genere. I Pig Destroyer (americani della Virginia) nascevano nel 1997 dalle menti di J.R Hayes e Scott Hull (vero genio dell’Estremo con esperienze in Agoraphobia Nosebleed, Anal Cunt e Japanese Torture Comedy Hour) proprio per resuscitare lo spirito originario del grind che nel frattempo si era istituzionalizzato come genere e quindi aveva perso la sua carica destabilizzante (ricordiamo che gli stessi maestri Napalm Death, nel frattempo, avevano virato verso il death con album come “Harmony Corruption” ed “Utopia Banished”, e poi verso derive più orecchiabili influenzate - in senso lato - dal groove-metal degli anni novanta con opere meno caotiche come "Fear, Emptyness, Despair", "Diatribes" ed “Inside the Torn Apart”). Nondimeno, i Pig Destroyer sarebbero divenuti esponenti di punta del grindcore del nuovo millennio (con sul CV un capolavoro come “Prowler in the Yard”, del 2001, a rinverdire i fasti del genere). Infine gli Wormrot (dall'Estremo Oriente - e più nello specifico da Singapore) possono essere considerati degni esponenti dell'ultima generazione di “grinders”, con una carriera avviata nel 2007, ma che solo negli ultimi anni ha acquisito maggiore visibilità (abbiamo ancora in mente l'ottimo "Hiss", loro ultimo parto discografico, che si è aggiudicato una posizione nella ambitissima classifica di fine anno del 2022 di Metal Mirror). In tutto questo bendiddio trova spazio anche il doom catacombale e pesantissimo (non tuttavia scevro da devastanti accelerazioni) degli americani Primitive Man (da Denver): forse leggermente fuori tema, ma di sicuro allineati agli standard di brutalità degli altri nomi del bill, e comunque un utile diversivo nell'economia della serata. 
 
Detto questo, gradirei chiarire cosa intendo io per grindcore e cosa mi aspetto dalla serata. Non sono un fan del grindcore e non so esattamente come un appassionato si approcci all'ascolto di suddette sonorità: non so se lo fa in modo analitico come il metallaro, ossia sviscerando gli album, affezionandosi ai singoli brani, analizzando le svolte/evoluzioni stilistiche delle varie band ecc. O se invece lo fa dando la priorità ai testi, al messaggio, all'impatto globale. Quanto a me, devo dire che non mi sono molto preparato per l'evento, volutamente, un po' perché il grind non si incastra bene nella mia quotidianità, un po' perché del grind apprezzo principalmente il linguaggio, la forza d'urto, il flusso: un modulo di ipervelocità/rallentamenti/galoppate che, ai miei orecchi, si ripete all'infinito e in modo vincente se mi trovo nel giusto stato d'animo. Grind is just a feeling!, potremmo dire . E, ragazzi, è un cazzo di periodo che ho una gran voglia di fottuta violenza...Credo proprio che stasera troverò pane per i miei denti...
 
Erano anni che non mettevo piede all'Electric Brixton, dove andai a vedere il mio primo concerto a Londra. Non è certo il tempio londinese del metal (infatti ci vidi gli Orb, che fanno techno), quindi son curioso di vedere come reggerà l'urto di una serata del genere. Non mi riferisco solo alla musica, ma soprattutto al tipo di pubblico: un pubblico strano, in verità, solo in piccola parte catalogabile come metallaro in senso stretto. A prevalere sono le crape rasate, le barbe sfibrate, i tatuaggi e i piercing nei posti impensabili, i denti grigiastri, i cappellini con visiera e i giacchetti jeans pieni di toppe di gruppi dal logo indecifrabile. Età anagrafica in generale assai elevata (ben rappresentata la fascia degli over 50 con picchi di anzianità decisamente avanzata) e non manca nemmeno la quota femminile: son poche le ragazze, ma si fanno notare, o perchè ben agghindate (trucco pesante, capelli fluorescenti) o perché bellissime (sinceramente non mi capacito delle svariate dee che mi si sono palesate innanzi agli occhi come improvvisi raggi di sole a filtrare nella mischia brutale - stranezze della vita, o magie di Brixton!). Completa il quadro la consueta schiera di nerd, ossia ragazzi molto giovani dai capelli corti, occhiali spessi, aria da secchioni (ma non ho ancor capito se questi in verità sono i canoni estetici dei metallari degli anni venti...). 
 
Quello però che più mi disturba è l'atmosfera generale: voci alte, grevi, risate scomposte, gesti scattosi, rutti, patte sulla schiena ecc.: non so, percepisco nell'aria una violenza latente e pronta ad esplodere in ogni momento e per futili motivi. E poi non sopporto più gli energumeni, gli individui di alta statura, in particolare quelli che alimentano la propria già notevole statura con cappelli ed orpelli. Ma poi che cazzo ti metti il cappello che c'è un caldo si schianta qua dentro! Non aiuta la conformazione del locale: carino, capiente, ma strutturato alla cazzo di cane con l'area davanti al palco compressa da scalinate che conducono ad un piano sopra-elevato dove sta il bar. Ora, non so se hanno sbagliato i conti, se hanno venduto più biglietti del dovuto (la data ha registrato il sold-out), o se la gente è più voluminosa del dovuto, fatto sta che muoversi è un problema: il cesso è nel posto sbagliato vicino al palco e dunque raggiungibile solo a suon di gomitate nei denti; accedere al bar è impossibile in quanto c'è una fila perenne schiacciata nel poco spazio a disposizione; e allora ti metti in un angolo sperando che nessuno ti rompa i coglioni con il pogo molesto, ma c'è una incessante serpentina di gente che va al cesso o al bar, e tutte queste fottute difficoltà logistiche mi scoraggeranno dal bere, cosicchè mi ritroverò praticamente sobrio. Insomma, il contesto ostile mi rende cauto e guardingo, facendomi rimpiangere l'idea di essere comodamente seduto in un teatro ad assistere ad un balletto di Roberto Bolle. Passiamo alla musica, è meglio... 
 
Con curiosità e discrete aspettative ci approcciamo all'esibizione dei Wormrot, e c'è da dire che la loro mezz’ora non deluderà: il set è dinamico, variegato, illuminato dall'estro chitarristico di Rasyid, membro fondatore e genio delle sei corde. Il suo stile varia dalle dissonanze tipiche di certo noise oltranzista al metal classico, con un brillante riffing di marca slayeriana a prevalere su ogni altra cosa. Le texture delle sei corde si incastonano alla perfezione nel drumming terremotante del compare Vijesh, precissimo ed incontenibile dietro alle pelli, tanto che un tecnico deve continuamente salire sul palco per aggiustargli rullanti e piatti, anche durante l’esibizione. Il duo, orfano del cantante storico Arif, si sta facendo supportare da un session-man, l’argentino Gabbo Dubko, bonazzo lungo-crinito con il pallino del tatuaggio. Il Nostro si difende bene sul palco, interagendo con il pubblico e sfoderando una convincente prestazione vocale, saltando continuamente da un growl bello chiuso e rabbioso ad uno screaming affilato come una motosega. Il pubblico, dopo un'iniziale timidezza, si fa facilmente conquistare e si getta in sessioni selvagge di pogo, continuamente aizzato dal singer che in occasione dell'ultimo pezzo si fionderà lui stesso nella folla, lasciando la scena a chitarra e batteria in una coda strumentale al cardiopalma: pura poesia grind. Applausi. 
 
Veloce cambio palco ed ecco che senza tanti preamboli attaccano i Primitive Man. Mai nome per un gruppo fu più calzante: massimali nella musica come nell’aspetto fisico (i tre sembrano una sorta di ZZ Top della brutalità, con ai lati ELM – voce e chitarra – e JPC – basso – a costituire due monoliti gemelli, egualmente di enorme stazza, pelati e barbuti). E fanno musica da cavernicoli, i Primitive Man, chiamarlo doom è un complimento: musica rozza, spessa, che ti stende a colpi di clava e che ti straccia i coglioni dopo 6 minuti. I 40 minuti dei Primitive Man non scorrono, sembrano una infinità. La lentezza esasperante di chitarra e basso (che generano un incredibile muro di suono) viene spezzata da un drumming nervoso e sfuriate improvvise o interludi noise-ambient, ma le sensazioni non cambiano: forte, fortissima oppressione. Colpisce duro la voce da orco di EML, che vomita un growl degno di una brutal death metal band su lunghe suite doom/sludge che sembrano procedere implacabili, figlie della stessa unica nota ripetuta con sadica ed ottusa ostinazione. I Primitive Man mettono a disagio, sembra di entrare in quelle fattorie lerce del sud degli Stati Uniti dove gente miserabile conduce una esistenza degradata ed incestuosa. Poco altro da aggiungere, magari in un un’altra circostanza li avrei anche graditi, ma questa sera mi sono risultati indigesti assai. 
 
Meno male che arrivano i Pig Destroyer a tirarci su il morale. L'esibizione del quintetto è a dir poco esplosiva, con musicisti scatenati sul palco e la verve declamatoria di Hayers, sorta di Carmelo Bene del grind. Dimesso e concentrato sulla sua chitarra, Hull se ne sta in un angolo e non fa parte della scena, occupata principalmente da uno scatenatissimo Travis Stone al basso e soprattutto da uno statuario Alex Cha, posizionato al centro dietro ai suoi macchinari. La sua sarà una performance più scenica che di sostanza, ma mi risulta difficile pensare ad un live dei Pig Destroyer senza di lui, che è entrato nella band solo l’anno scorso: si agita in un continuo hand-banging, urla, aizza la folla, alza le braccia al cielo, si dimena continuamente, mentre gli interventi effettivi dei suoi campionatori si concentrano principalmente negli incipit dei brani. 
 
I Nostri conducono le danze da professionisti navigati, tengono in pugno il pubblico, sul quale gettano continuamente polvere da sparo. Per quanto mi riguarda, il sound dei Pig Destroyer rappresenta alla perfezione quello che andavo cercando e quello che intendo io in ultima analisi per grindcore: destrutturazione. Il grind dei Pig Destroyer è malato, samples e voci campionate fanno da inquietante intercalare al macello perpetrato da chitarra, batteria e basso, un'altalena deragliante di parti tiratissime, apocalittici rallentamenti, fangoso sludge, scorie rumoriste e mid-tempo dalla grande forza d’urto con discrete dosi di power electronics a gettare sale sulle ferite. La situazione è francamente ingestibile e all'Electric Brixton, ovunque tu sia, non c'è scampo. I Pig Destoyer non sono di aiuto, la loro musica dinamitarda sollazza il popolo pogante a livelli ben oltre i limiti della incolumità personale, tanto che il buon Hayes si vede costretto a fare cenno ai suoi colleghi affinché si fermino per permettere ad un malcapitato caduto a terra di rialzarsi. Quasi tiro un sospiro di sollievo al termine dello show. Con il senno di poi questa si sarebbe rivelata per il sottoscritto la migliore esibizione della serata (e credo che molti presenti sarebbero d’accordo) senza ovviamente togliere nulla ai grandissimi Napalm Death. 
 
Il fatto è che si giunge all’esibizione dei padroni di casa un po’ stanchini: nelle orecchie, nelle membra e nello spirito. Lo status di maestri indiscussi, tuttavia, si sente ed una scaletta che può pescare da una discografia lunga quasi quattro decadi riesce senza affanno a strizzare le ultime energie di un pubblico ormai esausto ma capace di mostrare un grande entusiasmo ed affetto per i "nonni del grind". Personalmente parlando, andrei a vedere i Napalm Death ogni fine settimana, per la sensazione di calore e spirito comunitario che sanno trasmettere ogni volta. Voglio molto bene a questi veterani dell’Estremo, ancora così coerenti con il loro messaggio iniziale nonostante i decenni sul groppone. Ed in particolare voglio bene a Mark “Barney” Greenway, ancora forte del suo ruggito inconfondibile e con la sua logorrea piena di humor british (immancabile, dopo due o tre brani, la classica introduzione: ah, se vi state chiedendo da dove viene tutto questo rumore....(sospiro) noi siamo i neipal dee...). Ma i suoi discorsi veicolano anche temi serissimi: Greenway si cimenta in lunghe presentazioni ai brani, ribadendo con instancabile perseveranza il messaggio anti-militarista, anti-fascista, anti-sfruttamento, anti-sopruso, anti-prevaricazione, contro l’ipocrisia del potere e a favore dei diritti di tutti, che sta dietro, da sempre, alla musica dei Napalm Death: un salutare refresh valoriale che è sempre bene fare considerati i tempi che corrono. 
 
Quanto all’esibizione, l’ho persino preferita rispetto a quella del Beyond the Redshift, trovandola molto diversa: dimostrazione che la band non si ripetete nemmeno a pochi mesi di distanza. Se in quella circostanza, nell'oretta a disposizione, la band espresse un'attitudine principalmente hardcore/punk, stasera, nell'arco dell'ora ed un quarto in dotazione, la scaletta respira e c’è modo di esplorare le diverse sfaccettature che il suono dei Napalm Death ha saputo incarnare nel corso di una lunghissima carriera: molte regressioni a quell’hardcore/punk da cui tutto viene, ma anche importanti divagazioni verso quella componente più industrial ed apocalittica che deriva da band come Swans e Killing Joke, da sempre indicati come influenze fondamentali. 
 
Quel che si diceva all'inizio sul grind - da intendere come linguaggio, sensazione complessiva, "flusso" più che singole canzoni - decade in parte per i Napalm Death, che, raffrontati ai gruppi che li hanno preceduti stasera, emergono come autori di brani a sé stanti: una concezione della musica estrema sicuramente antecedente che vede il modulo del brano ancora come un veicolo importante per sviluppare le idee. Oltre a brani storici come “From Enslavement to Obliteration” (opener della serata), “It’s a M.A.N.S. World”, “Suffer the Children” (come sempre fra le preferite dal pubblico), la sequenza omicida "Scum"/"M.A.D."/"Success?"/“You Suffer”, l’epocale “Instict of Survival” (ah, finalmente ho avuto modo di vederla dal vivo, che bellezza!), ed alla immancabile cover dei Dead Kennedys (la fulminea “Nazi Punks Fuck Off”), la band ha modo di dare rilievo al repertorio del nuovo millennio: canzoniere di grande qualità ed in cui la band crede molto (cinque, addirittura, le tracce estratte dall’ultimo “Throes of Joy in the Jaws of Defeatism” – che comunque risale a quattro anni fa). E così alle schegge impazzite del primo periodo (sempre ilari i pochi secondi sparatissimi di “Dead”) si alternano tracce più strutturate e capaci di incanalare suggestioni diverse, come “Taste the Poison”, forte di un groove irresistibile, e la trascinante “Amoral”, palesemente influenzata dalle ritmiche meccaniche e dalla verve anthemica dai Killing Joke. 
 
La band è in palla come sempre, con una base ritmica solidissima ed un riffing vorticoso a dare corpo ai diversi brani. E pazienza per qualche errore qua e là (è pur sempre un concerto punk, no?), soprattutto da parte del buon Barney che ha sbagliato un sacco di attacchi vocali (o si dimenticava, o accennava a cantare alla strofa sbagliata, per poi interrompersi bruscamente, voltarsi e scuotere la testa): inciampi che in realtà non sono risultati sgradevoli ma anzi hanno reso la performance dei Nostri ancora più genuina ed istintuale (simpatico anche il siparietto in cui Barney ha restituito il documento ad un ragazzo che lo aveva perso - non perdendo l'occasione per lanciare l’ennesima freddura nei confronti dei Tories). Menzione di merito, come al solito, al mitico Shane Embury che a scapito di un aspetto non proprio fresco e giovanile, percuote con sadismo il suo basso, assicurando suoni scartavetranti ed un'iconica presenza scenica. L’esibizione si completa con i feedback assordanti di “Comtemptous” che, lenta, frastornante, oltraggiosa, ci ricorda quanto i Napalm debbano ai primi Swans e che, soprattutto, il grind non sia solo una questione di brani brevi e di iper-velocità!
 
Bene, benissimo: si esce soddisfatti dal tour de force e in modo del tutto provvidenziale ricevo all’uscita un volantino che reclamizza l’esibizione dal vivo di tale Ethan Lee McCarthy, dedito a quanto pare ad una “decomposing atmospheric drone musik”, che in effetti mi ci vorrebbe per recuperare udito, energie e funzioni vitali assortite.... 
 
Con un forte fruscio nelle orecchie ed un gran mal di schiena (l’età non avanzerà per i Napalm Death, ma per il sottoscritto sì che avanza, eccome!), il pensiero che mi accompagna durante il ritorno a casa per le vie affollate di Brixton è: 
 
...ma quant’è bello il grind... 
...però adesso basta col grind...