Ci sono dei live-report in cui amo annegare nei dettagli e nelle sfumature. Sono quelli che di solito riguardano artisti che conosco benissimo e che vanno a descrivere, passo dopo passo, le sensazioni provate durante una esibizione: sensazioni soggettivissime, spesso condite da digressioni e considerazioni di maggior respiro sull’artista o su un genere intero. Ci sono poi quei live-report che, più generici, fungono più che altro da scusa per presentare un artista al pubblico di Metal Mirror. E’ questo il caso: con la scusa di parlare di una sua recente comparsata in terra londinese, mi piacerebbe introdurre ai nostri lettori - qualora già non la conoscessero - la figura di Zola Jesus, altra musa dell’universo “goth e derivati” del nuovo millennio da mettere accanto alle già decantate Chelsea Wolfe, Anna Von Hausswolff, Kristin Hayter (aka Lingua Ignota) e Darkher.
Rispetto alle colleghe sopra menzionate, Nika Roza Danilova (classe 1989, nata in Arizona ma dalle origine russe, tedesche, slovene ed ucraine) è indubbiamente la più dotata da un punto di vista vocale, ma, di contro, è quella che offre il percorso artistico meno interessante. Non sono un fan sfegatato della cantante americana, lo dico subito, in quanto i suoi album non mi hanno mai completamente catturato, ma nonostante questo ne ho sempre apprezzato le qualità di interprete e il magnetismo di certe sue composizioni; per questo ho deciso di coglierla in un momento di “nudità”: solo lei e il pianoforte, la dimensione ideale affinché quella sua bellissima voce potesse emergere su tutto il resto.
Definirla una ex ragazzina prodigio non è una esagerazione in quanto già dai tempi del college si dilettava a comporre e realizzare musica in ottica squisitamente do-it-yourself. Nel 2009, all’età di soli venti anni, rilasciava il suo primo full-lenght, “The Spoils”, sotto l’egida della lungimirante Sacred Bones, che ne ha saputo cogliere il potenziale avendone in precedenza prodotto già un paio di 7 pollici ed un EP di dieci tracce (“New Amsterdam”).
Il debutto di Zola Jesus (il soprannome, come si sarà intuito, combina il noto scrittore francese con l'altrettanto noto profeta) si imponeva come un promettente gioiello di lo-fi goth, consegnando al mondo un’artista giovane ma con le idee decisamente chiare: sulla scia della no-wave scalcinata di Lydia Lunch, la Nostra generava incubi sonici fra gelidi synth, drum-machine e malate nenie di voci e pianoforte che esprimevano, insieme a testi brucianti, il grido disperato di una generazione dall’interiorità martoriata e priva di punti di riferimento. Sporcizia sonora, depressione ma anche una forte spiritualità: questi sono gli ingredienti di una formula che, già personalissima, pescava dal post-punk sordido dei Suicide, dal dream-pop decadente dei Cocteau Twins e dalle liturgie senza tempo dei Dead Can Dance per edificare un neo-goth che, pur teatrale, possedeva l’autenticità e l’impatto emotivo del più intimo e viscerale dei cantautorati.
Il percorso della Danilova sarà un viaggio dalle tenebre alla luce, non senza qualche assalto all’alta classifica che ha in parte svilito il valore della sua missione artistica. Il periodo "virtuoso" è quello che conduce al terzo full-lenght “Conatus” (del 2011), passando dagli EP “Stridulum” e “Valusia” e dall’album “Stridulum II” (tutti e tre del 2010) e con l'aggiunta di fruttuose collaborazioni (James Stewart dei Xiu Xiu ed Amanda Brown/Pocahaunted su tutte). Con "Conatus" la proposta si affinava senza perdere in intensità (emergono sempre di più le notevoli qualità canore della Nostra), facendo sì che Zola Jesus divenisse un nome di culto negli ambiti delle sonorità “oscure”, trovando insospettabili fan negli ambiti più disparati, fra cui vanno citati senz’altro registi "musicofili" come David Lynch e Jim Jarmusch.
Un percorso in divenire che tuttavia non troverà un adeguato compimento. Delude la sterzata “pop” di “Taiga” (2014) dove, sotto l'ala protettiva della Mute (che ne aveva captato il potenziale commerciale), diveniva evidente l’intento di confezionare brani orecchiabili compatibili con i gusti del grande pubblico. Ma gli esiti non avrebbero dato frutti soddisfacenti né sul fronte delle vendite e del mainstream né su quello del fan della prima ora, alquanto amareggiati dalla svolta. La "novella Lady Gaga" si vedrà dunque costretta a ritornare sui propri passi, ma da lì in poi la sua carriera avrebbe oscillato fra tentativi di mantenersi fedele alla propria vocazione di “cantrice delle umane afflizioni” e fin troppo sfacciate concessioni all'universo del pop. Il sound oltranzista delle origini andrà dunque a mitigarsi nei rigurgiti dance, techno e synth-pop di operazioni 'ibride' come “Okovi” (2017) e “Arkhon” (2022), comunque da non buttare e con ancora qualche acuto da offrire.
La mia personalissima opinione è che il "progetto" Zola Jesus non abbia trovato la quadra del cerchio, sbilanciandosi in modo inconcludente ora sul terreno delle coltri sonore del disagio, ora su quello del miele da alta classifica. Non esiste, a mio parere, il capolavoro da consegnare ai posteri firmato Zola Jesus (forse forse “Conatus”?): esiste però la straordinaria cantante ed un pugno di episodi riusciti che spiccano nel marasma di tentativi non sempre riusciti.
Quale migliore occasione, dunque, se non saggiarla dal vivo in questo tour (oramai concluso – quella di Londra era l’ultima data) dove c’è solo lei, la sua voce e il piano, e qualcuno di quei brani stupendi? Aggiunge appeal al pacchetto la scelta di venue suggestive (dimensione non nuova alla Nostra, basti pensare all'operazione “Alive in Cappadocia”). A Londra, in particolare il tour avrebbe fatto tappa presso le volte e le navate della St Mary Magdalene’s Church di Paddington: un imponente edificio completato nel 1872 (ma consacrato nel 1878 dopo il restauro dovuto ad un incendio occorso nel 1873) che colpisce per l’ampiezza degli interni e i dipinti apocalittici raffiguranti fiamme sull’alto soffitto. Il tutto a sole cinque fermate di metro da casa mia: come poter mancare?
Al mio arrivo le prime panche sono già occupate, anche se la serata, almeno fino alla vigilia, non avrebbe registrato il sold-out. I connotati variegati del pubblico rispecchiano un po’ quella sensazione di ibrido che trasmettono le opere di Zola Jesus che non sembra aver sfondato in quella "zona grigia" fra metal, dark e cantautorato che le altre eroine del terzo millennio hanno facilmente conquistato. Zero metallari, pochissimi dark, molti personaggi dal background indefinito accomunati da un certo alone di "alternatività" (barbe, occhiali, giacche di velluto, maglioni a righe, età mediamente alta ecc.) ed ovviamente qualche espressione di disagio che non manca mai in queste circostanze. Noto con piacere che è stato allestito un bar vicino all’entrata: essendo martedì sera mi ero ripromesso sobrietà, ma sarà il bel tepore che si percepisce all’interno della chiesa, sarà il senso di intimità, saranno le panche di legno e la musica ambient-kraut-sacrale in filo-diffusione, alla fine decido di procedere cautamente in “modalità vino” con un paio di bicchieri extra-large di un acido rosso argentino (9 sterline l’uno, maledetta Londra!) che mi son fatto durare per tutta la durata dell’esibizione.
Verso le 8:20, dopo una considerevole attesa, ecco che la minuta e lungo-crinita cantante si palesa in casto abito nero fra lo scrosciare degli applausi del pubblico che nel frattempo si è esteso a quasi tutte le panche. La cantante si inchina, saluta educatamente e si siede finalmente al pianoforte a coda disposto di lato proprio davanti all’altare. Delicate note di pianoforte ed evocativi gorgheggi disegnano le forme di “Krunk”, direttamente dal patrimonio folcloristico armeno. Si diceva che la connotazione di questo tour, che non è chiamato a promuovere alcuna release in particolare, è la rilettura del repertorio attraverso voce e piano: sfida che la Nostra può accogliere con disinvoltura grazie alla solidità della sua voce e ai suoi studi classici. C’è da aggiungere che l’artista - nata nel frastuono delle macchine - non rinuncerà del tutto alla tecnologia, sfogliando testi e spartiti su un i-pad adagiato sul pianoforte e ricorrendo a droni e riverberi mai invasivi per rendere ancora più magica l'atmosfera delle sue ballate.
Si susseguono senza pause episodi come “Soak”, “Sea Talk” ed “Into the Wild”: un continuum piano-voce che ad un visionario come me ricordano gli umori sacrali ed intimi del Tibet di “Soft Black Star” e “Hypnagogue” (Current 93, of course!) e degli Ulver di “Shadows of the Sun”. Qua e là svettano ritornelli che nella veste originaria ambivano ad appassionati sing-along con tanto di accendini o smartphone, ma menomale che stasera, invece, quegli stessi ritornelli si "limitano" a lacerare la carne degli ascoltatori, fra tocchi di pianoforte in sospensione e vigorose corde vocali.
La svolta si ha con la riuscita rivisitazione di “Dido’s Lament” del compositore classico inglese Henry Purcell: terreno ideale per la strepitosa voce della Danilova, fra lamenti senza consolazione ed acuti che tirano giù il tetto. Da qui in poi sarà un crescendo di intensità: ci sarà il ritornello epico di “Wiseblood”, la solennità elegiaca di “Witness” e, in particolare, ci sarà un trittico di brani pregnanti da un punto di vista emotivo come “Skin” (con quel giro di piano e quel ritornello che mi condurranno alle lacrime), l'immancabile classico “Night” e “Desire”, quella che, a parere di chi scrive, è il miglior brano firmato da Zola Jesus: una struggente e sofferentissima ballata che milioni di artiste pop si crocifiggerebbero pur di poterla avere nel proprio canzoniere.
Pochi, brevi ma sentiti gli interventi della cantante fra un brano e l’altro. Palpabile la sua emozione nel sottolineare la difficoltà di mostrarsi in questa veste di sole voce e piano: difficoltà superate grazie alla volontà di darsi totalmente al proprio pubblico. Il tutto termina degnamente con “Plyve Kacha”, altra rivisitazione di un traditional che va a chiudere simbolicamente il cerchio che era stato aperto da "Krunk": si tratta di un pezzo del folclore ucraino presentato in connessione agli odierni conflitti bellici, ma, più in generale, come inno alla libera espressione personale (poiché, al mondo – dice – purtroppo esistono ancora poteri soverchianti che intendono impedire alle persone di poter essere come desiderano essere). Trasfigurato da Zola Jesus, il brano diventa una maratona vocale mozzafiato dove la voce corre a rotta di collo raggiugendo altezze inusitate, con picchi di sofferto lirismo à la Diamanda Galas. Inutile aggiungere che la prova della cantante, lungo l'intera esibizione, è stata impeccabile e che le poche sbavature registrate sono anzi andate a conferire umanità ad una operazione che poteva prestarsi facilmente all'artificio scolastico. Indubbiamente, spogliata dagli arrangiamenti elettronici, la musica di Zola Jesus mostra tutta la sua potenza e di scrittura e di emotività.
Nessun bis stasera (in altre date la cantante era rientrata per eseguire “Run Out”), ma francamente non se ne sente la mancanza: il finale della esibizione lascerà un segno profondo nella memoria dei presenti nonostante la brevità del tutto (un’oretta circa). Soprattutto rimane la sensazione di aver toccato con mano il talento vibrante di una grande artista nella sua veste più congeniale!